I benefici della globalizzazione appartengono
in particolar modo
ai Paesi che sanno
meritarseli, sia
adeguando
la loro struttura sia sapendone
governare
il processo.
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Il 9 novembre 1989 il Muro di Berlino cessa di esistere, e insieme
con lui scompare la divisione tra Primo, Secondo e Terzo Mondo.
Da allora, non abbiamo più la rigida distinzione tra Paesi
capitalisti e Paesi comunisti che aveva caratterizzato buona parte
del XX secolo, e prevalgono le economie di mercato,
seppure molto diseguali quanto a ruolo e a qualità dello
stesso mercato.
La distinzione più comune oggi è tra Paesi sviluppati
e Paesi emergenti. Ciò che più di ogni altra cosa
caratterizza lepoca in cui viviamo è però la
globalizzazione: la crescente interdipendenza tra tutti
(pochissimi esclusi) i Paesi del mondo.
Esaminandone le caratteristiche principali, dobbiamo confrontare
la globalizzazione odierna con quella molto diversa
che già si era manifestata nel passato. E dobbiamo misurarne
gli aspetti, e infine considerare costi e benefici: il giudizio
prevalente, che ci appare condivisibile, è che il saldo costi-benefici
sia positivo, che cioè la globalizzazione presenti evidenti
benefici netti rispetto alla situazione precedente.
Non si può peraltro trascurare come non vi sia sempre coincidenza
tra chi quei costi sopporta e chi quei benefici riceve. Mancando
regole e/o politiche volte a compensarne le conseguenze meno positive,
è chiaro perché ad alcuni più sensibili
ai temi dellequità, cioè dei confronti interpersonali
la globalizzazione non appaia desiderabile. Ma definiamo
meglio come la globalizzazione si presenta, e quali ne sono le principali
caratteristiche odierne.
La definizione più comprensiva è quella dellinterdipendenza:
levoluzione economica di ciascun Paese più che in passato
dipende da quella degli altri Paesi e a sua volta influenza il loro
andamento. Opera un articolato meccanismo di reciproca influenza
che fa sì che leffetto complessivo di ogni fatto rilevante
sia lintegrale di una serie di effetti parziali in tantissime
direzioni.

Un forte aumento del prezzo del petrolio, oppure linvenzione
di una nuova tecnologia, oppure ancora un grave fatto di terrorismo:
gli effetti (positivi o negativi) che ciascuno di questi avvenimenti
produce si manifestano in vari modi in tutti i Paesi del mondo,
con velocità di reazione che dipende dai tempi (sempre più
brevi) di trasmissione delle idee (le notizie) e dai tempi (anchessi
sempre più brevi) con cui si muovono i capitali, le persone,
le merci. Le reazioni dipendono altresì dalla maggiore o
minore flessibilità di ciascun sistema economico e sociale:
anche questa flessibilità è molto aumentata negli
ultimi quindici anni, e ciò concorre a determinare un mondo
così diverso da quello cui eravamo abituati.
La globalizzazione ha inizio con la riduzione (fino a zero) delle
precedenti barriere (tariffarie e non) alla mobilità, accentuata
dal grande miglioramento (anzitutto tecnologico) delle comunicazioni.
Il diffondersi a partire dagli anni Novanta di una tecnologia dichiaratamente
globale (www significa world wide web, cioè rete mondiale)
comè Internet, è sinonimo della globalizzazione
che ne è stata favorita. Assieme al commercio internazionale
di merci che aumenta di dimensione, occorre sottolineare laccresciuta
mobilità dei fattori produttivi: lavoro e capitale. Si integrano
i mercati finanziari e cresce il ruolo degli IDE (Investimenti diretti
dallestero).
I principali tratti distintivi della globalizzazione sono dunque
tipici dei processi caratterizzati da interdipendenza: laccresciuta
mobilità produce integrazione; i comportamenti in un mercato
(ad esempio, quello del lavoro) dipendono dalle condizioni prevalenti
negli altri mercati (ad esempio, quello dei capitali); è
continuamente ridotta la sovranità di ciascun governo, e
più in generale lautonomia di ciascun Paese.
Questultimo aspetto merita di essere sottolineato, anche perché
ha tardato ad essere riconosciuto e tuttora non ha ricevuto sufficiente
attenzione. Siamo stati abituati a considerare due modelli prevalenti
di Paesi: quelli di maggior dimensione, relativamente autosufficienti;
e, in alternativa, quelli di piccola dimensione, molto aperti
al resto del mondo.
Nel primo caso, allautonomia-Paese corrisponde la massima
sovranità del relativo Governo: gli strumenti
delle diverse politiche sono efficienti ed efficaci, e consentono
sempre di compensare gli eventuali effetti indesiderati di cambiamenti
delle esogene, vale a dire di quelle variabili che sono
determinate altrove. Nel secondo caso tipico dei Paesi piccoli
e molto aperti le conseguenze di variazioni delle esogene
sono così rilevanti da non poter essere facilmente neutralizzate
con gli strumenti disponibili.
In passato, avevamo un certo numero di Paesi delluno e dellaltro
tipo: i maggiori tra i Paesi sviluppati (Italia compresa) erano
del primo tipo sia per la dimensione economica sia per lesistenza
di barriere agli scambi. Ed era normale ragionare (cioè commentare,
criticare o approvare, e comunque discutere) della politica economica
dei Governi di ciascuno di quei Paesi.
Poi vi erano anche tanti Paesi, piccoli da un punto di vista economico
e/o poco protetti da barriere agli scambi (pensiamo
al Belgio, allOlanda, allIrlanda; ma anche a diversi
Paesi emergenti), che potevano solo adeguarsi a quanto altrove prevalente,
senza riuscire a produrre risultati molto diversi.

La globalizzazione che si sta realizzando ha notevolmente contribuito
a ridurre quelle differenze: tutti i Paesi stanno diventando sempre
più piccoli e aperti, dipendono cioè dagli
altri e li influenzano, secondo il modello che abbiamo appunto definito
dellinterdipendenza. La perdita di sovranità
che ciò misura contribuisce al clima di incertezza, e a volte
di disorientamento, che è uno dei costi della globalizzazione.
Quando si parla di globalizzazione, si è soliti dire che
negli ultimi quindici anni il mondo è tornato ad essere
globale, come era stato altre volte in passato. Il riferimento
più frequente è al periodo (anche chiamato Belle
époque) che va dalla fine dellOttocento allo
scoppio della Prima guerra mondiale (1914): sono trentanni
di progresso economico e sociale caratterizzato da un grande aumento
del commercio internazionale e più in generale della mobilità
dei fattori produttivi: lavoro e capitale.
Tutto ciò è vero, come è evidente il contrasto
tra quei trentanni e gli anni successivi, caratterizzati di
nuovo da protezionismo e nazionalismo. Il confronto è però
inesatto da più punti di vista, seppure serva a ricordarci
che passate esperienze di globalizzazione si sono rivelate temporanee
e reversibili. Può ripetersi anche questa volta? Risponderemo
fra poco.
Ma per quanto riguarda il giudizio sui precedenti, è evidente
perché lesperienza che stiamo vivendo sia unica nella
storia dellumanità. Di grandi Imperi che hanno guidato
il mondo ne abbiamo visti tanti, anche solo negli ultimi venti secoli
della nostra civiltà. E abbiamo già visto tante volte
le navi trasportare negli oceani idee, soldi, merci e uomini (qualcuno
ricorda come i negri furono portati in America per coltivare i campi?).
Ma anche negli Imperi meglio organizzati (pensiamo a quello inglese,
che includeva lIndia e un bel po dAfrica) mancava
quellelemento di interdipendenza che è invece essenziale
oggi. Non a caso, lInghilterra usava manodopera e materie
prime attinte dalle colonie, ma non spostava in quei Paesi le sue
fabbriche.
Le condizioni odierne sono diverse non soltanto per motivi tecnologici
(Internet è più efficiente del telegrafo), ma anzitutto
per motivi politici ed economici: linterdipendenza significa
qualcosa di molto diverso dalla dipendenza.
Illustriamo alcune caratteristiche delle tendenze in atto, che riguardano
un po tutti (come è tipico di ogni dato che misura
la globalizzazione): prima di tutto, il contributo alla crescita
delleconomia mondiale. Laccelerazione della crescita
caratterizza il Prodotto interno lordo planetario da metà
anni Novanta, in linea con il consolidarsi del fenomeno in questione.
È a partire da quegli anni che la crescita dei Paesi emergenti
accelera sia rispetto alla propria precedente esperienza sia rispetto
ai Paesi sviluppati. Questi ultimi continuano a crescere come già
avevano fatto in passato: se hanno tratto beneficio dellaccelerata
crescita dei Paesi emergenti è perché ciò ha
compensato quello che altrimenti sarebbe stato un rallentamento.
O meglio, la spiegazione più probabile è che laccelerata
crescita dei Paesi emergenti sia dipesa anche (e inizialmente molto)
dagli investimenti diretti nostri, vale a dire dal nostro outsourcing,
che è il modo con cui i Paesi avanzati crescono non solo
in casa propria.
Vediamo poi le tendenze più recenti nellambito dei
Paesi emergenti: al decollo cinese, si sta affiancando quello particolarmente
rapido indiano, che si va ormai muovendo verso tassi di crescita
annui del Pil dellordine del 10 per cento. Infine, il saldo
export-import è positivo per i Paesi emergenti dellAsia
e per il Giappone, mentre è negativo per i Paesi sviluppati,
cioè Stati Uniti e zona Euro. Sono i Paesi a minor reddito
pro-capite quelli che finanziano lo squilibrio, cioè il crescente
valore delle importazioni nette, dei Paesi più ricchi.
Per quanto può durare uno sviluppo così squilibrato
e così distorto, anche rispetto al passato? Nellodierno
mondo globale non stupisce che un efficiente mercato dei capitali
consenta il permanere a lungo di uno squilibrio tra Paesi che importano
molto e Paesi che non riescono a spendere il ricavato delle loro
esportazioni. Il problema anche qui è però la possibilità
che ciò duri a lungo senza che operino correttivi efficaci,
né di mercato (ad esempio, variazioni dei tassi di cambio)
né di governo (ad esempio, politiche economiche volte a stimolare
i consumi o le esportazioni nei due gruppi di Paesi).
Per effetto della globalizzazione e della differente crescita che
la caratterizza rispettivamente nei Paesi più sviluppati,
come lEuropa, e in quelli emergenti è chiaro
che stanno cambiando molto i pesi economici di ciascuna
area. In passato, i divari di reddito pro-capite erano tali che
il reddito nazionale dei Paesi più ricchi era comunque maggiore
di quello dei Paesi più poveri, anche se questi ultimi erano
dieci volte più popolosi.
Ciò non è più vero: la quota del totale che
spetta ai Paesi emergenti continua a crescere. Se confrontiamo quote
di Pil mondiali del 1980 con quelle del 2006, vediamo chiaro il
declino dellUnione europea, scesa dal 21 al 20
per cento, mentre la crescita dei Paesi emergenti e di quelli in
via di sviluppo è di poco superiore: dal 39 al 48 per cento.
Sul piano del commercio mondiale, larea euro alle stesse
date è stata ridimensionata di meno, passata comè
dal 34 al 29 per cento. Ciò significa che noi siamo più
di altri orientati allesportazione, e non al soddisfacimento
totale della domanda interna di consumi. In ultima analisi, la nostra
complementarità con la fortuna dei Paesi emergenti è
più evidente di altre aree sviluppate (Usa e Giappone).
Il primo evidente beneficio delleconomia globale consiste
nellaumentata e crescente dimensione del mercato dal quale
sappiamo (Adam Smith, 1776) dipendere lo sviluppo economico moderno.
Nella sua analisi sulle cause della (crescente) ricchezza delle
Nazioni, Adam Smith sottolineava soprattutto la specializzazione
del lavoro e linnovazione come i due meccanismi attraverso
i quali un mercato più grande favorisce la crescita.
La globalizzazione, nella misura in cui coinvolge sempre più
Paesi e sempre più persone, e soprattutto nella misura in
cui aumenta anche la qualità del mercato, di ciascun bene
e di ciascun fattore produttivo, è dunque un potente motore
di crescita. Ma già loperare del mercato globale, invece
dei tanti precedenti mercati nazionali più o meno isolati,
consente unallocazione delle risorse molto più efficiente.
Minori costi di produzione e più alti livelli di produttività
significano un potenziale maggior benessere da distribuire ai popoli
coinvolti.
I guadagni per quanto riguarda due essenziali obiettivi economici
sia lefficienza sia la crescita sono dunque
evidenti. Non piovono dal cielo, ma devono essere meritati,
comè ovvio ogni volta che parliamo di mercato. Il mercato
(da non confondere con il luogo fisico nel quale gli scambi avvengono
materialmente) è infatti un sistema di regole, è cioè
un prodotto delluomo, e non esiste in natura. La qualità
del mercato è dunque tipico risultato di buone regole, rispettate
e fatte rispettare.
La globalizzazione cui stiamo partecipando rappresenta un evidente
progresso per moltissimi dei Paesi coinvolti e dipende dalle migliori
condizioni in cui si svolge lattività economica. Oltre
certi livelli, tuttavia, quei progressi dipendono dal miglioramento
delle regole che guidano linteragire delle economie nazionali.
Mancando un livello di governo nei confronti delleconomia
globale, adeguato alle nuove sfide, è chiaro perché
quei progressi siano solo faticosamente conseguiti, con lassistenza
degli organismi internazionali (Onu, Wto, Fmi, ecc.) esistenti,
molti dei quali attendono ancora di essere adeguati alle nuove condizioni.
Ma il ragionamento sulla governabilità (la famosa governance)
con cui procede la globalizzazione è più generale
e non riguarda solo gli organismi internazionali, gran parte dei
quali sono stati fondati quando il mondo era completamente diverso.
Perché ciò che vale a livello più generale,
nei rapporti tra le maggiori aree economiche e sociali del mondo,
vale anche per le dimensioni minori. Pensiamo allEuropa e
alla stessa Italia.
LEuropa dopo la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa
dellUnione Sovietica è riuscita nelloperazione
politica del suo ampliamento (siamo passati a 27 Paesi membri),
ma non in quella non meno importante della sua miglior governabilità.
Il risultato è che la globalizzazione produce benefici nella
misura in cui ci adeguiamo al nuovo mondo. Ma se poi non riusciamo
a gestire il necessario cambiamento tutto ciò non si realizza.
O si realizza in modo parziale, in ritardo. E si consolida quindi
una situazione di ridotta governabilità.
Abbiamo citato i ritardi dellEuropa, ma lo stesso si può
dire a maggior ragione dellItalia, che non solo non si è
adeguata a quanto richiesto per trarre beneficio dalla globalizzazione,
ma non ha neppure fatto quanto necessario per accompagnare i progressi
dellintegrazione con lavvio, a partire dal 1° gennaio
1999, dellUnione monetaria e la conseguente sostituzione delleuro
alla lira. Basti pensare che la stessa Banca dItalia solo
fra qualche anno avrà adeguato la sua struttura territoriale,
riducendone la dimensione, alla novità intervenuta otto anni
fa con lintroduzione della moneta europea.
In conclusione: i benefici della globalizzazione appartengono soprattutto
ai Paesi che li meritano, sia adeguando a ciò la loro struttura
sia sapendone governare il processo. Questultimo aspetto richiede
a sua volta la capacità di ciascun Paese di interagire in
modo positivo con gli altri: mandando un comune superiore livello
di governo (vera e propria utopia ancora per molti anni), ciò
che si può cercare di fare è una serie di giochi
cooperativi tra Paesi e loro Governi.
Più che ipotetiche situazioni di equilibrio e posizioni di
ottimo ottenute da mercati perfetti, o quasi, (essendo
queste a volte molte teorie liberiste della globalizzazione),
ciò che conta è la capacità di adottare regole,
e politiche, di comune interesse. Modelli dinamici di interdipendenza
inducono a ricercare soluzioni di volta in volta migliorative della
realtà, non accontentandosi mai dei risultati già
conseguiti, visto che linnovazione non è destinata
ad arrestarsi.
Laspetto più significativo dei benefici della globalizzazione
è infatti proprio questo: laccelerata tendenza al cambiamento
che caratterizza non solo i Paesi emergenti (che hanno di fronte
a sé un enorme divario da colmare) ma anche i Paesi più
sviluppati. Basti pensare a come laccelerata crescita dei
BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) stia costringendo anche noi
Paesi sviluppati ad affrontare nuove sfide nei due campi più
delicati della globalizzazione: energia e ambiente. Vincoli e nuove
opportunità vanno di pari passo in tutto ciò che caratterizza
la ricerca e qualifica linnovazione.
Abbiamo già messo in rilievo che in termini di efficienza
e di crescita la globalizzazione presenta evidenti benefici. Il
mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi tre lustri è molto
migliorato per ambedue quei punti di vista: le risorse risultano
allocate in modo più efficiente e la crescita delleconomia
globale è soddisfacente.
Tutto bene, allora? Evidentemente no. I problemi non mancano, ma
riguardano altri due criteri-obiettivo economici misurati rispettivamente
dalla stabilità e dallequità. Un mondo globale,
come tale mal regolato e poco governato, è anche un mondo
fragile, periodicamente caratterizzato da instabilità finanziaria.
Labbiamo ben visto negli ultimi 15 anni: crisi finanziarie
ce ne sono state anche in passato, ma mai così frequenti
come in questi anni. Analogo il ragionamento da fare in termini
di equità: non è che in passato non vi fossero
allinterno di ciascun Paese e tra i diversi Paesi grandi
differenze tra livelli di reddito e benessere. Ma la globalizzazione
ha ulteriormente accentuato questi divari.
Ambedue questi aspetti sono anzitutto legati allaccentuata
mobilità dei capitali, che da un lato consente unallocazione
più efficiente del capitale stesso, e quindi una gestione
più efficace del suo rischio di investimento; ma dallaltro
lato porta a fenomeni di competizione fiscale. Per evitare
fughe e risultare invece attraenti nei confronti dellinvestimento
dei capitali altrui (e in questi anni è cresciuto uno stock
di dimensione molto rilevante di capitale sempre più apolide)
è chiaro perché via via sempre più Paesi riducano
la tassazione. Il possibile contrasto di ciò con obiettivi
di equità è evidente. Come è evidente la fragilità
dal punto di vista della stabilità finanziaria e delle
sue conseguenze anche macroeconomiche che deriva da una situazione
in cui questo capitale senza patria può rapidamente muoversi
da un Paese allaltro, da un settore allaltro, da una
forma allaltra.

Le tante crisi registrate in questi anni rappresentano in parte
la reazione si potrebbe dire quasi fisiologica o addirittura
benefica agli eccessi che si sono precedentemente manifestati.
Bolle e mode, spesso originate dai comportamenti imitativi con cui
si muove il gregge degli intermediari e degli stessi
operatori più esperti, tendono a nascere, crescere e terminare,
una dopo laltra in una successione continua, senza fine apparente.
Ma non è solo un problema di comportamenti, è anche
una questione di regole inadeguate e a volte comunque non rispettate
(in tal caso parliamo di scandali più che di
crisi). Ciò che prima osservavamo per quanto
riguarda i ritardi con cui si muove la governance della globalizzazione
vale a maggior ragione anche per i ritardi con cui si adeguano le
regole che presiedono al funzionamento sempre più
globale del mercato dei capitali. Le principali Autorità
di Vigilanza sono tutte ancora nazionali, mentre quelle internazionali
esistenti (pensiamo al Fmi) o sono datate nella loro missione o
sono comunque spiazzate da mercati che sono cresciuti enormemente.
Abbiamo dunque molti costi della globalizzazione in termini
di equità e di stabilità anzitutto perché
abbiamo tardato a ridisegnare, come oggi richiesto, i nostri sistemi
fiscali, ma anche le regole, e le Autorità di Vigilanza,
dei mercati finanziari.
Analogo ragionamento si può fare per quanto riguarda la tutela
dei lavoratori e più in generale i nostri sistemi di welfare.
Anche per questi aspetti, la globalizzazione è una sorta
di lente dingrandimento dei difetti, o almeno
diciamo dei ritardi con cui adeguiamo quelli che in
passato abbiamo considerato passi avanti importanti nella direzione
di una buona economia di mercato, equa e stabile.
Conciliare la necessaria più di prima! flessibilità
con quanto richiesto da considerazioni di equità nella distribuzione
del reddito e del benessere non è sempre facile, ma è
pur sempre necessario. Continuare a rinviarne lattuazione
serve a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della globalizzazione,
di cui è quindi più facile individuare difetti e costi.
Lultima osservazione riguarda le caratteristiche della globalizzazione
finanziaria cui abbiamo accennato. Perché è in questo
campo che linterdipendenza non è ancora completa, e
di fatto il dollaro Usa continua ad occupare un ruolo dominante,
che è maggiore del peso che ancora rappresentano leconomia
e il Pil degli Stati Uniti.
In altre parole, il mercato dei capitali è rimasto centrato
sul dollaro, anche se le tendenze reali sono andate in direzione
opposta. Per intenderci, è ben possibile che il back office
di una banca americana con sede a New York finisca in Brasile.
Come è possibile che sia il risparmio dei Paesi BRIC a finanziare
buona parte del deficit federale americano. Ma resta il fatto che
nessuna altra valuta ha saputo scalzare il ruolo che sui mercati
finanziari è tuttora svolto dal biglietto verde. È
in particolare a New York, a Wall Street, il termometro
di ciò che succede alla finanza mondiale. Il che significa
che qualsiasi notizia (positiva o negativa) non ha manifestato
tutti i suoi effetti finché non è stata resa nota
a New York, ed è così andata nei prezzi
delle attività finanziarie di tutto il mondo. Questo ruolo
egemonico del dollaro sproporzionato rispetto al peso del
Pil (o del commercio estero) degli Usa sul mercato planetario
non sembra prossimo ad essere ridimensionato né ad opera
di altre valute dei Paesi sviluppati (qui lalternativa è
leuro, che però non ha ancora raggiunto la necessaria
maturità) né dei Paesi emergenti.
In questo secondo caso proprio non cè la necessaria
reputazione né ancor meno le buone regole che
servono a dare fiducia. Ci vuole ancora molto tempo prima che ciò
sia superato. Dopo tutto, ora la crescita del Pil mondiale dipende
più dalla crescita della Cina che da quella degli Stati Uniti.
Un bilancio preciso dei costi e dei benefici della globalizzazione
è difficile, anche perché i quattro criteri con i
quali si possono misurare gli uni e gli altri non sono direttamente
addizionabili. Daltra parte, i pesi di una funzione
sociale del benessere in grado di sommare i guadagni
in termini di efficienza e crescita con le perdite in
termini di stabilità ed equità sono soggettivi.
Anche il criterio tipico della teoria del benessere di valutare
il cambiamento dal punto di vista degli ultimi
non dà risultati univoci. Perché se è vero
che grazie alla globalizzazione abbiamo dato una speranza di vita
migliore a miliardi di persone, è però anche vero
che tanti di loro nel frattempo si trovano sottoposti a condizioni
di lavoro poco rispettose della dignità delluomo.
Lavoro illegale, sfruttamento, degrado ambientale: la forte concorrenza
che arriva dai Paesi emergenti produce timori di competizione sleale
e richieste di protezione nei Paesi già sviluppati, e questo
ci ricorda quanto i frutti della globalizzazione siano mal distribuiti.
In ultima analisi, i benefici netti assistiti dai necessari
giochi cooperativi tra Governi dei principali Paesi
quanto al miglioramento delle regole garantiranno nel tempo
la sostenibilità sociale della globalizzazione. In caso contrario,
potremmo registrare il rallentamento o addirittura linversione
di questa tendenza.
Già in Europa si è manifestato il timore della concorrenza
portata dallidraulico polacco, cui vediamo oggi aggiungersi
la paura delloperaio cinese, dellingegnere indiano,
e così via. Solo nelle analisi degli economisti, ciò
che è nellinteresse del consumatore è per definizione
nellinteresse di tutti (non siamo tutti consumatori?).
La conclusione più generale è dunque quella che occorre
procedere sulla strada del governo della globalizzazione
per evitare che altrimenti i suoi costi inducano al ritorno del
protezionismo, che già più volte in passato ha segnato
tendenze regressive in campo sia economico sia sociale.
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