Un galeone
di mercanti andò a schiantarsi contro gli scogli e i
mercanti sparirono nel mare, senza aver pace, perché nei
loro occhi
morti, nei loro
piedi morti, era
rimasto il desiderio di ritornare a terra.
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Prima di intravederlo dal fondo della lontananza, dalla smisuratezza
dello spazio del mare, un faro bisogna sognarlo, ricordarlo; bisogna
saperlo immaginare.
Bisogna confonderlo dentro il pensiero con i comignoli delle case
del proprio paese, con le luci dei lampioni che proteggono i vichi,
quelle luci fioche gialle tremolanti, che però riescono a
perforare lo scuro, a dissipare la solitudine del passante, ad orientare
i passi notturni verso casa oppure verso la stazione fuori dalle
mura.
Per un ritorno o una partenza brilla la stessa luce. Come per unaccoglienza
o un arrivederci o un addio. È una luce che brilla per la
memoria, per la speranza, per lattesa. Che si fa vicina o
che si allontana.
Un faro non è solo il segnalamento per un approdo; non è
solo la visione che rassicura il movimento costante di un avvicinamento
alla riva. Il faro è anche il punto che resta visibile se
si volge lo sguardo allindietro. Quando ogni altro profilo
di paesaggio è scomparso, si è sottratto alla possibilità
della visione, quando un manto di nebbia ha coperto tutto quello
che si è lasciato e allora non si riesce più a collocarlo
nello spazio, il faro indica il punto, riporta alla stabilità
della terraferma, si fa simbolo di un luogo che appartiene, al quale
si desidera e si spera di tornare.

Per luomo di Finibusterrae un faro è questo: la memoria
della terra che argina loblio del mare; la certezza che quel
punto da cui è partito rimane ad aspettarlo come un affetto
familiare; il conforto di una luce lontana nello spazio e vicina
nel tempo interiore. La speranza che una tempesta non è mai
infinita. La paura che la bonaccia prima o poi debba terminare.
Per luomo di Finibusterrae, la portata geografica di un faro
quella distanza che la luce delle lanterne di Otranto, di
Leuca, di Gallipoli riesce a coprire è anche una sorta
di prolungamento dello scoglio, dellisola: come se il confine
si estendesse, come se nella sfera protetta dalla luce lacqua
si mescolasse con le zolle.
Come spesso accade a Finibusterrae, linizio coincide con una
leggenda, con una mistura di storia e dinvenzione, con la
trasformazione in simbolo di una maceria.
Forse il primo faro fu la Torre del Serpe, a Otranto. Secoli avanti
quello della Palascìa, costruito nellesatta metà
dellOttocento e spento nel millenovecentosettantanove.
Il faro che ora indirizza i naviganti verso il porto è quello
di Punta Craul.
La Torre del Serpe, dunque, e la sua leggenda. Che Maria Corti narra
con maestria nellOra di tutti. Dice che quello della torre
era un luogo sinistro «dove la notte i morti tornavano dal
mare alla riva; salivano sugli scogli e andavano con sottili lamenti
fra le malerbe».
Dice che la storia incominciò ai tempi che in questa terra
regnava Maria dEnghien. Sulla torre viveva un serpe che in
una notte di tempesta bevve lolio della lampada che ardeva
segnalando il porto. Un galeone di mercanti veneziani che attraversava
il canale andò a schiantarsi contro gli scogli e i mercanti
sparirono nel mare, senza aver pace, perché nei loro occhi
morti, nei loro piedi morti, era rimasto il desiderio di ritornare
a terra. «Così, di tanto in tanto, la notte essi passeggiavano
sulla costa, ricordandosi delle cose piacevoli della vita».
La voce che nel romanzo racconta la leggenda è quella di
Colangelo, che poi aggiunge di non aver mai visto serpi e scorsoni
che bevevano olio e che probabilmente ad ingoiare lolio della
lampada era stato il diavolo in persona.
Ma certo non furono diavoli e non furono scorsoni. Sicuramente fu
quella virtù (o quel vizio) della fantasia che a Finibusterrae
si manifesta come narrazione, diventa epifania di figure che trascendono
il tempo e lo spazio, crea storie dal nulla e le consegna alla voce
che le rimodula fino a quando una mano non le sacrifica (o le eterna)
nelle forme sinuose di una scrittura.
Il faro è una luce che, come ogni luce, ha una funzione di
contrasto del buio.
Il suo segnale è il punto di riferimento nella condizione
dellindeterminato, il tracciamento di un confine nella condizione
dello sconfinato; è lindividuazione di un limite, il
reale che si rappresenta, la certezza concreta dellesistenza
di una terra per lapprodo, la soglia che segna il compimento
di un viaggio.
La luce di un faro è lelemento che rivela: una direzione,
un orizzonte, un confine. Rivela anche unesistenza notturna
del mare attraverso unimmagine intermittente, discontinua
e quindi falsa rispetto a quella naturale che è diffusa,
continua, regolare nel suo movimento incessante.
Cè un libro inevitabile quando si pensa ad un faro,
o lo si guarda, o se ne parla.
Lì, in quel libro, il Faro scritto sempre con la maiuscola,
come personaggio tra i personaggi è una torre argentea
dallaspetto indistinto, con un occhio giallo che allimprovviso
e lievemente si apre nella sera.
Poi è anche una torre rigida e dritta, striata di bianco
e di nero, con le finestre e il bucato steso ad asciugare sugli
scogli.
È il simbolo suggestivo che alternando luce e buio simula
il ritmo di gioia e dolore dellesistenza, rappresenta una
realtà molteplice, o almeno doppia.

Quel Faro del libro, «che si erge solo tra la nebbia del
mare è il simbolo dellindividuo che è nello
stesso tempo un essere unico e una parte del flusso della storia.
Raggiungere il faro è in un certo senso prendere contatto
con la verità al di fuori di se stesso, arrendersi allunicità
del proprio io, alla realtà oggettiva». Si dice, in
quel libro, che cè una coesione tra le cose, una stabilità
immune dal cambiamento che splende come un lumino davanti a tutto
quello che scorre, che è fugace, spettrale. Si dice che forse
la realtà è fatta di quei momenti che durano per sempre.
Il libro è To the Lighthouse, il capolavoro di Virginia Woolf.
Si può dire locus amoenus e si può dire deserto. Forse
dipende dal movimento che fa il pensiero incontrando uno scoglio
che di giorno è assalito dalla luce e di notte è inghiottito
dal mare.
SantAndrea è unisola minuscola che dal milleottocentosessantacinque
trova il suo senso nella torre del faro che si alza maestosa, guardando,
di fronte, Gallipoli, il borgo disteso lungo le mura.
Qui il faro indica la terraferma, ma non è il punto di sbarco.
È un ponte tra il mare e la terra, il passaggio che prefigura
il ricongiungimento.
È come un annuncio, un tracciato di splendore, un antidoto
alla malinconia, una promessa di appagamento del desiderio, una
luce che restituisce qualcuno ad un porto, ad un paese. La sua è
una posizione mediana: esiste perché si possa raggiungere
un luogo che viene dopo e al quale il faro non appartiene; è
la simulazione di una conclusione, quasi una sorta di stazione di
posta collocata nel mare.
Il faro, a Gallipoli, è come un simbolo sacro: illumina la
strada del ritorno verso la polis, rendendola visibile e scongiurando
lo sconosciuto e larcano del mare.
Al di là della luce del faro ci sono le luci della città,
che non sono la stessa cosa ma hanno e danno forse lo stesso senso
di serenità e di rifugio.
Al di là della luce del faro cè tutto quello
che cera prima che il faro ci fosse, che si raggiungeva comunque
seguendo le rotte del mare e degli affetti, che manda la sua luce
forte anche quando quella dellisola è spenta.
Allora, a SantAndrea la luce del faro è uguale ad una
delle tante luci che la sera si accendono per le strade e lisola
è uguale a una delle tante strade che si attraversano per
andare e tornare.
Qui il faro è una sentinella che si oppone allinvasione
del nulla, allagguato dellassenza, alloscurità
del cielo.
Attraverso una finzione letteraria, per mezzo di quellelegia
che è lopera di Virginia Woolf, il faro Godrevy a St.
Ives, in Cornovaglia, diventa simbolo di nostalgia e di memoria,
del desiderio di quello che manca e dellinfanzia.
Per un istante la luce del faro illumina le cose e poi le restituisce
al buio: come in un alternarsi di colore e incolore, di pieno e
di vuoto, di presenza e assenza; come in una scena di teatro che
presenta qualcosa sul palcoscenico, personaggi e oggetti che poi
torneranno dietro le quinte per non riapparire mai più, così
il faro spinge il suo sguardo veloce sul cardo e la rondine, il
topo e la paglia. La vita e la morte.
Forse non racconta altro che questo, la luce di un faro, a chiunque
la guardi da mare o da riva: forse non dice altro che il raggio
di luce tocca tutto e tutto abbandona, che quella luce può
essere anche mimesi del ritmo delle stagioni, del comparire e dello
scomparire, che forse è anche una ferita sul corpo della
notte che vuole il buio perché il buio è la sua natura,
che forse è anche una contraddizione della navigazione che
vuole contemplare il disorientamento, il naufragio, lazzardo
dellintuizione che non può fare affidamento sui riferimenti,
la sfida dellimmaginazione che traccia una rotta come ha fatto
ogni uomo per mare quando ancora il faro non cera.
Il faro sottopone la natura alla condizione contraria del visibile
e dellinvisibile, del buio e della luce, dellapparire
e dello svanire, dellirraggiamento e della ritrazione del
raggio, dellilluminazione diretta, senza rifrazione, senza
riflesso, del dono di un orizzonte e della negazione di esso: dono
e negazione ugualmente repentini, scanditi, alternati, come spesso
sono repentini, scanditi e alternati i doni e le negazioni della
vita.
Nel punto in cui sembra che due mari diventino uno solo, dove lo
Ionio e lAdriatico confondono le loro correnti, nello spazio
di uno strapiombo che si lascia indietro la terra e si spalanca
sullinfinito del cielo e del mare, allaltezza convenzionale
del 40° parallelo, lì dal milleottocentottantasei si
alza il faro di Leuca, per 47 metri dal suolo e per 102 dal livello
del mare.
Sul precipizio di Santa Maria di Leuca il faro rappresenta il senso
di una (unica) verticalità che si esprime nellorizzontalità
(totale) del paesaggio, limponenza di una forma che contrasta
con la docilità di tutte le altre forme, una torre che tenta
laltitudine mentre tutto il resto tende verso il basso e la
profondità.
Qui il faro è una relazione con la lontananza, simbolo di
conoscenza che si pone in modo complementare allesperienza
del mare, roccia che risplende come argine al naufragio, immobilità
della pietra che si rispecchia nella mobilità dellacqua
tumultuosa o pacata, immutabilità che si confronta con il
divenire.
Qui léthnos quasi si materializza: nella luce, nellonda,
nella sonorità che vibra nellaria, nei colori incredibili,
indefinibili, nel vento rigonfio di salsedine e odori, nel paesaggio
che sembra irreale, dipinto: una sconfinata allegoria del mondo,
del suo eterno respiro, del suo mutamento continuo.
Qui anche il conto del tempo pretende un diverso sistema: qui si
può contare il tempo soltanto interrogando le stagioni che
attraverso gli elementi e le condizioni della terra, del cielo e
del mare possono segnare lora che va e quella che viene e
possono dire che cosa portano via e cosa lasciano in dono.
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