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I sogni hanno le scarpe
rotte
Ezio Sanapo
A mia zia Pina
Il concetto di poveri come ceto sociale autonomo e
distinto è finito con gli anni Cinquanta. Come tutte le classi
sociali, aveva avuto una storia, unidentità culturale,
proprie regole e un proprio modello di vita. Da allora diventò
quello che noi conosciamo: un ceto popolare piccolo borghese,
a imitazione di quello medio borghese che fino ad allora era stato
dominante.
Il tutto si è rimescolato in ununica fascia sociale,
senza più alcuna identità. Come tale, poteva essere
più facilmente asservita in un nuovo modello di società,
sbarcato da noi, in quegli anni, dallOccidente.
La nuova parola dordine diventò: consumare! Chi non
poteva farlo, veniva escluso dalla nuova fascia che, non avendo
più storia, non aveva nemmeno doveri né diritti di
appartenenza.
Così, questo nuovo modello, abolendo il principio di solidarietà,
che era stato considerato sacro dalla comunità
più povera, ha messo in atto un nuovo tipo di emarginazione:
quella del singolo individuo, e non più di unintera
comunità. Lindividuo, da solo, non avrebbe più
avuto la possibilità di difendersi né di ribellarsi.
Stagioni parallele
Fino agli anni Cinquanta, prima dellemigrazione di massa,
il ceto popolare di origine contadina aveva avuto, come unica possibilità
dimpiego, il lavoro bracciantile sui terreni di proprietà
dei piccoli o grandi latifondisti, non quindi su terreni di propria
appartenenza.
Una larga fascia dello stesso ceto era comunque esclusa, dal momento
che le assunzioni venivano fatte senza regole e sulla base delle
simpatie e delle convenienze degli stessi proprietari terrieri.
Una massa enorme di povera gente veniva così emarginata dal
processo produttivo, anche se, per puro scrupolo, era tollerata
sul piano sociale, con la concessione della libertà di movimento
su quei terreni che potevano invece essere fonte di lavoro e di
reddito.
Così intere famiglie, spinte dalla povertà e dalla
fame, potevano vendemmiare, fuori stagione, nei vigneti
già vendemmiati, raccogliendo craggioppi, grappoli
di uva tardiva. Potevano cercare e raccogliere olive, negli uliveti,
a raccolta ultimata e con gli alberi già mondati: erano le
ulie rringa, olive secche e gonfie dacqua dei
canali, raccattate nel fango e tra lerba fitta, allo scopo
di poterle vendere. E si raccoglievano le ultime spighe rimaste
nei campi di grano già mietuti, prima che le stoppie secche
e pungenti venissero bruciate: questa spigolatura estrema veniva
chiamata rispigo. Infine, si raccoglievano sotto gli
alberi gli ultimi fichi sfatti caduti, i chichirizzi,
che opportunamente essiccati potevano essere venduti a compratori
ambulanti che ne ricavavano alcol.
Per queste attività, svolte con unesperienza secolare,
tramandata di generazione in generazione, era necessaria la conoscenza
dei luoghi di frequentazione, delle colture, delle condizioni climatiche,
dei tempi e delle stagioni. Stagioni svolte parallelamente a quelle
dei raccolti veri e propri da persone dambo i sessi e di ogni
età. Persone semplici, dignitose e senza ambizioni, che avevano
con la natura un rapporto familiare, religioso e di profondo rispetto.
Non potendo loro coltivare, la natura coltivava per loro. Ed essi
raccoglievano cicorie selvatiche e lumache, sia in estate che in
inverno, da vendere in giro per il paese. Con la stessa dignità,
facevano lunghe file per una scodella di pasta e ceci che alcuni
proprietari terrieri offrivano, ogni anno, il 19 marzo, per devozione
a San Giuseppe. Era la stessa devozione che essi avevano per il
vicino di casa, perché quando il povero poteva cucinare,
cucinava anche per lui.
Tutta la religiosità non impediva ai poveri di esprimersi
con un originale e antico dialetto che abbondava di parole e di
frasi scabrose e oscene, che tuttavia non erano volgari,
non facevano perdere la purezza danimo e linnocenza.
I poveri, oltre tutto, non si scoraggiavano mai: pregavano senza
essere ascoltati, chiedevano senza ottenere. Bestemmiavano senza
peccare.
La dignità e lo spirito di appartenenza costituivano la loro
arma potenziale, ed erano la loro unica risorsa.
La speranza come ragione di vita
I poveri di allora, diversamente da quelli di oggi, avevano accumulato
un enorme patrimonio culturale, ricco di regole, di abitudini e
di antichi rituali. Tutto questo li aveva resi autonomi e autosufficienti
rispetto al resto della società che li aveva storicamente
emarginati.
Per la loro abitudine a girovagare come randagi, inseguendo le stagioni
su sentieri e su campi altrui, avevano maturato una propria libertà
e uno spazio illimitato. In quello spazio immaginario i poveri di
una volta coltivavano sogni.

I sogni delle masse popolari sono sempre stati frutto di una fede
e di unincrollabile speranza. La speranza, quindi, era loro
esclusiva proprietà, e rappresentava lunica ragione
di vita. I poveri credevano, o gli era stato imposto di credere,
che lesistenza terrena e le condizioni della loro vita fossero
un castigo o uno scherzo del destino, e accettavano di pagare, di
espiare colpe che non avevano, errori che non avevano mai commesso.
La condivisione di questo sacrificio collettivo ha sviluppato nel
loro mondo quella solidarietà diventata modello di vita e
riparo da ogni minaccia terrena.
Lunica, originale difesa di questi poveri era lironia,
arma temuta e difficilmente contrastabile, che, opportunamente usata,
riusciva a dissacrare, a smascherare e a ridimensionare
tutto ciò che di ineffabile, di prepotente e di minaccioso
li circondava. Lironia era nata dalla fantasia e dalla creatività
popolare come risorsa vitale, da usare per difendersi da tutto ciò
che faceva paura, e per mitigare ed esorcizzare non solo la prepotenza
altrui, ma anche la propria impotenza e il senso di nullità
che ha sempre caratterizzato i poveri.
La stessa consuetudine di crearsi vicendevolmente nomignoli e soprannomi,
spesso sconci o ridicoli, a danno dei veri nomi dorigine,
è tipica dei ceti popolari e della loro capacità di
ironizzare persino sulla propria irrilevante identità sociale
e sulla propria umile ascendenza. Affibbiare quindi un soprannome
era come dare a una persona dello stesso ceto un titolo simbolico,
e allo stesso tempo irridere indirettamente il ceto superiore, che
aveva invece titoli veri e nobiliari, grazie ai quali poteva dettar
legge e imporre il proprio predominio.
Oggi, vergognarsi del proprio soprannome significa vergognarsi,
allo stesso modo, delle proprie origini: significa essere povero
non solo economicamente, ma anche culturalmente.
Mia zia Pina, ultima di quella stirpe e povera per antonomasia,
morì che aveva appena quarantanni, agli inizi degli
anni Sessanta, cioè agli albori di questa nostra civiltà.
Aveva vissuto fino allultimo con la dignità dei poveri
e con la speranza di una vita normale. Incrollabile
nellattesa di un marito che stava sempre lontano, e che, da
quella lontananza, le inviava come sostegno materiale, non denaro,
ma sacchi pieni di scarpe usate, che lei ammucchiava in mezzo al
locale in cui abitava, e che vendeva ad altra gente povera come
lei. Aveva i polmoni malati, e laria inquinata dalle vernici
di quelle scarpe, respirata giorno e notte, per mesi interi, anticipò
la fine della sua esistenza.
Senza marito, senza figli, attorno al suo letto di morte si radunarono
soltanto parenti e vicini di casa.
Quando arrivò il prete per lestrema unzione, zia Pina
si guardò intorno, accennò una risatina ironica, e
con la lingua fece uno sberleffo ai presenti; dopo di che si girò
su un fianco e, volgendo le spalle a tutti, morì.
Lasciò un grosso registro sul quale aveva minuziosamente
segnato i nomi dei suoi debitori (i soprannomi, in verità).
Era un lungo elenco di nomignoli sconci e curiosi, con accanto a
ciascuno la misera cifra che zia Pina avrebbe dovuto incassare,
ma che non avrebbe più riscosso. Così tutti poterono
constatare che la sua vita precaria, (come quella di ogni persona
povera), si era conclusa, tutto sommato, in credito.
Conclusione
Così, con uno sberleffo, si chiudeva unepoca storica
e unaltra ne iniziava. Lemigrazione ha disperso quella
massa di gente che era stata una comunità. Ciascuno per proprio
conto ha conosciuto finalmente il benessere, ma ha rinnegato, credendole
ormai superate, le proprie origini. Molti, per scrupolo, hanno cercato
rifugio nel passato, ma tutto era stato ormai cancellato, oppure
strumentalizzato, e non esistevano più le condizioni per
una presa di coscienza di massa e di revisione critica della nostra
storia, soprattutto quella più recente.
Lo stesso uso che si fa oggi del tarantismo, per esempio,
serve solo a speculare sul patrimonio culturale di un ceto popolare
povero che, come tale, non esiste più, e sul suo rituale
religioso, che meritava certamente maggiore rispetto perché,
prima di essere affossato del tutto o trasformato in spettacolarizzazione
mediatica, avrebbe potuto ancora farci riflettere sul malessere
di ieri e su quello di oggi.
Senza più regole tutto è permesso, se motivato da
una logica di profitto. Molti di quelli che ieri erano poveri e
sfruttati oggi sfruttano a loro volta altra povera gente, arricchendosi.
Altri, invece, ieri raccoglitori di racimoli abbandonati, oggi più
poveri ed emarginati di allora, ingannati da un modello di sviluppo
economico che non cè stato e svincolati da un ordinamento
sociale non più credibile, sono stati risucchiati in organizzazioni
criminali e in attività illegali. Lantica solidarietà
ha lasciato il posto alla diffidenza, e il povero di oggi è
diventato una persona molto sola, non ha più nemmeno una
controparte, e larma dellironia, se mai lavesse
ancora, non gli servirebbe più: una persona, da sola, non
può ridere né di sé né degli altri,
perché la realtà che gli sta intorno è diventata
troppo seria e pesante.
A un amico che mi chiede se cè ancora speranza, io,
come tutte le persone in buona fede, non so cosa rispondere. Forse,
le persone in malafede, che hanno molta più lungimiranza
di noi, possono dirci cosa intravedono nellimmediato futuro.
Costoro temono che la speranza torni a risvegliare le coscienze,
e per difendere se stessi e tutti i loro privilegi hanno alzato
imponenti barriere nei confronti del prossimo che li circonda, segno
evidente che non tutto è ormai scontato, e questo mi fa ben
sperare. Al mio più caro amico posso allora dire che una
speranza forse esiste. Qualcuno la indovina oltre quelle altissime
barriere, camuffate da siepi sempreverdi, sormontate da un minaccioso
filo spinato.
* * *
Il mio paese è il centro, lombelico del Salento, così
come piazza IV Novembre è lombelico del paese. Non
è una piazza, in realtà è la strada principale
che da nord a sud spacca in due il paese e lo priva di ogni intimità:
non una meta, quindi, ma un punto di passaggio allinfuori
del tratto in cui la strada si allarga e forma due piazzole
di sosta, una di fronte allaltra, dove nessuno, per
un motivo qualsiasi, si sarebbe mai fermato. Tranne i cani randagi
e i ragazzi assidui frequentatori della piazza, perché nelle
case non cera spazio sufficiente per tutti. La piazza era
allora abitata.
Almeno una volta al giorno la casa (unico vano, due al massimo)
veniva completamente oscurata e il ragazzo prima di uscire aiutava
la madre a scacciare le mosche: allinterno, il ragazzo apriva
e chiudeva ripetutamente uno spiraglio della porta che dava sulla
strada, con movimenti rapidi e regolari, per indicare alle mosche
un punto di luce e una via duscita, e la madre, partendo dallangolo
più interno e opposto, sventolando un asciugamano, spingeva
le mosche verso quello spiraglio. Allora bastava spostarsi di lato,
spalancare la porta e con rapidi colpi dasciugamano cacciarle
via. Questa operazione, per due o tre volte. E con le ultime mosche,
quasi inseguendole, anche il ragazzo scappava via. Restava la madre,
a porta chiusa e in penombra, sola finalmente.
A differenza dei cani randagi, maschi e femmine che stavano insieme
sulla piazza, del genere umano potevano riunirsi soltanto i maschi.
Le ragazze, invece, già da piccole, terrorizzate dai genitori
(Se stai con i maschi ti muore la mamma!), facevano
una vita più riservata, quasi anonima.
Senza la presenza adulta e femminile, quasi sempre svezzati e cresciuti
senza un abbraccio, senza baci né carezze, senza dialogo
né allegria né giochi da parte dei propri familiari,
i ragazzi di strada erano in realtà soli tra loro, e proprio
per questo liberi di dare sfogo al loro istinto naturale, alla loro
rabbia che tanto li faceva assomigliare ai cani.
I cani, a loro volta, erano terrorizzati dai sassi che in ogni momento
e da ogni direzione potevano arrivargli addosso: la loro permanenza
nella piazza o soltanto il loro passaggio era unincognita,
un rischio. I ragazzi si divertivano a spaventarli, ad inseguirli
con bastoni e a sassate, e a interrompere i loro amplessi.
Certo è che le strade e le piazze allora erano popolate,
le case traboccavano di animali e di persone, giorno per giorno
si dovevano fare i conti con la realtà, per avere spazio
sufficiente a legittimare la propria esistenza anche nel più
remoto angolo del mondo, nel paese più interno del Salento.
La seconda tragica guerra mondiale era finita da un decennio, ma
il paese era ancora stremato, la popolazione più attiva era
stata decimata e la generazione successiva non era ancora matura.
Erano al completo e quindi più numerosi gli anziani, le donne
e i bambini. Ai quali si aggiungevano i gatti e i cani.
Dopo ogni guerra cè un periodo di tregua, si parla
di rinascita, di speranza, di pace, viene spontaneo un clima di
euforia. Si guarda con maggiore fiducia al futuro e al prossimo.
In piena ricostruzione, ogni paese, anche il più sprovveduto,
si sentiva in diritto di sperare; anche quei paesi nei quali non
succedeva mai niente, dove nonostante le guerre nessun esercito
era mai passato, dove non si era mai visto sangue versato, o un
soldato sparare, dove cerano solo lutti e monumenti ai caduti
con tutti i nomi scolpiti sul marmo. Il mio paese non è stato
mai liberato perché non è stato mai occupato. Ma nonostante
abbia pagato ugualmente il suo tributo di sangue, nessuno poteva
sentirsi tranquillo e al sicuro, neanche in tempo di pace.
I gatti erano trattati bene: erano coccolati, accarezzati e soppesati.
Quando raggiungevano il peso giusto, venivano chiusi vivi in un
sacco, bastonati a morte e poi scuoiati e cucinati. I gatti, si
sa, non hanno padrone: così ognuno si sentiva libero di tentarne
la cattura e di appropriarsene.
I cani invece rischiavano solo sassate, conoscevano ad uno ad uno
i ragazzi e la loro indole, e stavano al gioco. Bastava guardarsi
le spalle, scappare quando cera da scappare, dimostrarsi disponibili,
scuotendo la coda quando era necessario e quando ne valeva la pena.
Chi passava o chi si soffermava su quella piazza erano sempre le
stesse persone conosciute. Gli unici forestieri erano due o tre,
che in giorni diversi transitavano diretti a sud, con motociclette
di piccola cilindrata, cariche di enormi fasci di lunghi e sottili
fili di piante di vimini per intrecciare sporte, borsette e fische.
Per strappare loro, in corsa, una certa quantità di fili,
i ragazzi ricorrevano alla violenza e tirando, da una o dallaltra
parte, li strattonavano e spesso li facevano rovinare a terra.
Altro forestiero era lautista dellunica corriera che
passava una volta al giorno il pomeriggio, e anche a questa i ragazzi
correvano dietro, aggrappandosi al paraurti fino alla fermata del
bar, per il gusto di respirare quello strano odore di bruciato che
usciva dalla marmitta. Alla fermata solitamente nessuno scendeva
e nessuno saliva, e siccome la corriere era alta, nessuno dei ragazzi
riusciva a vedere se seduti dentro ci fossero altri passeggeri che,
oltre allautista, transitavano di lì tutti i giorni.
E un giorno di questi, un furgone scuro e mai visto si fermò
di traverso nella piazza: scesero due persone in divisa, con gli
stivali di cuoio, presero di mirra due cani randagi, uno aveva in
mano qualcosa da mangiare e lo mostrava avvicinandosi amichevolmente,
mentre laltro nascondeva dietro di sé un lungo e flessibile
bastone, anchesso di cuoio, con in cima un cappio aperto a
nodo scorsoio. Il cane ignaro mangiava mentre laltro tendeva
lentamente il cappio verso la testa dellanimale. Era come
il filo di biada alla cui estremità i ragazzi formavano un
nodo scorsoio, grande quanto bastava per farlo passare attorno alla
testa delle lucertole: lentamente, senza toccarla, mentre cessava
ogni rumore e tuttintorno ogni cosa si fermava.
Ricordo lespressione della lucertola: doveva aver capito la
situazione e la sua immobilità era un segnale di resa, pareva
anzi che volesse abbreviare i tempi e facilitare la propria cattura,
porgendo volontariamente il collo al cappio che avanzava fatalmente.
Una sassata colpì in pieno il cane che mangiava, e tutti
e due scapparono via. Gli acchiappacani si guardarono intorno increduli,
videro per la prima volta la piazza, la presenza dei ragazzi e dei
passanti che si erano fermati a guardare, risposero con imprecazioni
e bestemmie, e se ne andarono lasciandosi dietro gesti e frasi oscene,
e una risata generale.
Nè, nè, nè,
Sutta a mammata ce ncè
Ncè nu purginella
Ca trase e esse
Ta portella...
Sguaiato, solitario e senza angelo custode, Vituccio Paracazzi
era quello che si notava di più tra i ragazzi di strada,
non solo per la statura e i muscoli che aveva, ma anche per la sua
maggiore età; era di qualche anno più grande di noi
tutti e questo sarebbe bastato per invogliarlo a farsi da parte.
Poteva cominciare a imparare un mestiere, ma nessuno lo accettava,
neanche noi ormai più di tanto, e questo lo rendeva nervoso
e irascibile. Non era ritardato né cattivo, ma col passare
del tempo Vituccio avvertiva sempre di più che il suo spazio
si restringeva: forse nato in anticipo, forse in ritardo, si sentiva
schiacciato nellinterstizio che si era creato tra una generazione
e laltra.
Non trovando spazio tra quelli più grandi di lui, cercava
di nascondersi in mezzo a noi, ma non riusciva a mimetizzarsi.
Perciò Vituccio agli occhi del mondo era lì, allo
scoperto, sulla pubblica piazza, rasato a zero per risparmiare sul
barbiere, scalzo destate e malamente calzato dinverno,
con i suoi pantaloni né corti né lunghi, appesantiti
dalla fionda e dai sassi che portava sempre in tasca, per difendersi
più che per offendere. Era stata sua la sassata che aveva
fatto scappare i cani. Appena effettuato il lancio, anche lui scappò
via, così come faceva quando ci rubava le noci e i noccioli
di pesca che i ragazzi piazzavano in fila per terra per poi allontanarsi
e colpire da lontano con unaltra noce o con la staccia.
Vituccio si metteva vicino alle noci, fingendosi spettatore, poi,
al momento giusto, con un gesto rapido si chinava, brancava
le noci sistemate per terra e fuggiva via. Per lui era uno sfogo,
ma molti di noi si arrabbiavano: nessuno lo avrebbe mai perdonato.
Degli accalappiacani si parlò per un po di tempo.
Molti dicevano di averli visti allopera in punti diversi del
paese e in periferia. Fatto sta che dopo qualche mese i cani in
piazza erano rari, e in giro ne circolavano sempre meno.
Ciascuno faceva delle supposizioni, ma riguardo alla fine che avrebbero
fatto i cani scomparsi, la più ottimistica ipotizzava che
venivano fatti morire in pace e sepolti cristianamente. Alcuni però
dicevano che, una volta ammazzati, servivano per fare scatolette
di carne, mentre con gli ossi si producevano dadi per brodo. Tutte
queste dicerie facevano chiaramente capire quanta inquietudine si
era creata tra la gente con questa vicenda che, calata dallalto,
niente aveva a che fare con le abitudini del paese.
In questo contesto si verificò un episodio che non dimenticherò
mai: nel tratto di strada tra il bar e il vecchio municipio si fermò
in pieno giorno una macchina nera, e come in una scena da film,
si spalancarono i quattro sportelli, e altrettante persone si precipitarono
fuori, acchiapparono Vituccio, lo sollevarono di peso, lo caricarono
in macchina e lo portarono via. Tutto in un baleno, e tra limmobilità
e il silenzio della gente che stava intorno.
Vituccio Paracazzi non lo vedemmo più, e nessuno
seppe nulla di lui. Certe scene, per quanto rapide, lasciano nella
memoria dei fotogrammi, quelli più drammatici, più
essenziali: Vituccio che si volta di scatto per guardare dal basso
in alto chi lo sta immobilizzando e che capisce che il suo spazio
è ormai esaurito; Vituccio che, sollevato di peso, sinarca
agitandosi come un ossesso; Vituccio che in macchina, in mezzo a
due persone, sul sedile posteriore, guarda dietro di sé con
la bocca spalancata e muta, mentre la macchina accelera allontanandosi
verso luscita nord del paese.
Dopo un po di giorni nessuno parlò più della
vicenda; e dopo qualche anno si venne a sapere della morte di un
ragazzo di Supersano nel manicomio di Bisceglie: ma nessuno ricordava
più chi fosse, sembrava che nessuno lo avesse conosciuto.
E poi si sa, la morte di uno scemo non fa notizia, anzi
mette lanima in pace.
Da allora la piazza non è stata più la stessa, molti
di quei ragazzi vennero presi per le orecchie e portati nelle botteghe
degli artigiani: calzolai, sarti, falegnami, e lì crebbero
umiliati, picchiati, spesso sottoposti a molestie. Qualcuno riuscì
a imparare un mestiere.
Il manicomio di Bisceglie venne chiuso grazie alla legge Basaglia.
Era stato fondato negli anni Venti come luogo di accoglienza per
bisognosi, poveri e senza casa, come succursale del centro di Torino
creato da don Giuseppe Cottolengo, poi beatificato.
Negli anni Cinquanta, passò sotto il controllo dellallora
Democrazia Cristiana e divenne un centro di potere e di scambio
elettorale, con posti di lavoro in cambio di voti e preferenze.
Fino alla metà degli anni Ottanta, lex manicomio contava
oltre 3.000 dipendenti a fronte di 5.000 ricoverati con relativi
introiti, nelle sue casse, delle rette individuali del servizio
sanitario. Lo avevano soprannominato la Fiat del Sud.
Per essere un centro economico e un gran serbatoio di voti clientelari
occorrevano più ricoverati possibile, che si cercavano nei
paesi più sperduti delle province pugliesi, e magari nelle
famiglie più povere e bisognose. Così una miriade
di case famiglia, prima nate come nobile e volontario
impegno caritatevole cristiano, infine riviste come impegno sociale
diverso con la legge Basaglia, che abolì i manicomi, si erano
ridotte molto spesso a un generale opportunistico accomodamento
personale e privato, sulla pelle degli altri.
Così il povero Vituccio: che era molto giovane, e che era
destinato ad essere solo un numero. Poi morto, e cancellato.
Prego per lui il beato San Giuseppe Benedetto Cottolengo e tutta
la Congregazione delle ancelle della Piccola Casa della Divina Provvidenza
di intercedere per la salvezza della sua povera anima. Prego perché
sia perdonato per le noci rubate. Noi lo abbiamo già fatto.
Quelli che uccisero la
speranza
Aldo Bello
Cera unazienda impropria, messa su dai
contadini più intraprendenti, e consistente in colonìe
esercitate su brandelli di terra sparsi ai quattro punti cardinali:
ogni mattina ciascun conduttore decideva da quale parte andare e
quale coltura curare, per assicurarsi i raccolti diversificati (olive,
uva, grano, legumi, ortaggi...), secondo i cicli stagionali. Questa
eccentrica imprenditoria agricola su terreni altrui
privilegiava la quota più fortunata del popolo degli zappaterra,
di coloro che quasi senza eccezione ereditavano dai padri le conduzioni
coloniche.
Tutti gli altri, quelli che rappresentavano la massa dei giornalieri,
erano ingaggiati come quando piove, su base, appunto, di simpatie,
di tradizioni di conoscenza, di fama di buoni lavoratori. Ultimi,
venivano gli esclusi per le ragioni, o per i pretesti più
diversi: tendenza alla ribellione, frequentazioni politiche non
gradite, presunte disonestà, pure e semplici diffamazioni...
E cera la corte, nocciolo nucleare adatto alla
difesa da tutti gli invasori, allinterno delle quali era diffusa
su larga scala la solidarietà del vicinato. Linsieme
delle corti caratterizzava il tessuto urbano di quasi tutti i nostri
paesi e villaggi, conferendo identità architettonica (e omogeneità
antropologica) a quelli che in seguito, assediati dalle orrende
periferie sviluppate nella seconda metà del secolo scorso,
abbiamo chiamato centri storici. Creati dallo sviluppo
spontaneo delle abitazioni, quei centri erano un po casbah
e un po medina: grumi bianchi di case addossate, come a proteggersi
reciprocamente, ai lati di viuzze, di vichi e di brevi piazze lastricate,
sulle quali si affacciavano le botteghe artigiane del legno, del
ferro, del rame e dello zinco, della tessitura e della carpenteria,
accanto agli usci dei sarti, dei barbieri, dei sellai, dei rivenditori
di pane e di generi coloniali, in un diffuso afrore di bucati e
di vini spillati, di domestiche cucine e di pubbliche rivendite
di carni di cavallo al sugo e diavolicchio.
E cera infine il mondo borghese, generalmente piccolo-borghese,
talora medio, raramente grande, non proprio illuminato, sempre saldamente
collegato al milieu impiegatizio e al circuito degli affari locali
o del circondario, soddisfatto del proprio status e delle discriminanti
differenze di classe, del conseguente rispetto ricevuto, della conservazione
dei diritti di casta, delle protezioni assicurate dal quietismo
alimentato dalla fame, dalla precarietà del futuro, dallanalfabetismo,
dalle limitate aspettative di vita.
Ecco. Era questo il Salento della speranza. Questo era
il Sud della speranza. Erano il Salento e il Sud che
da tempo immemorabile venivano irretiti dallillusione prospettica
della speranza.
Ma che cosa ha prodotto, persino fino ad oggi, quella speranza?
La regione lombarda o quella veneta, da sole, producono più
valore aggiunto dellintero Mezzogiorno. Il contributo del
Sud (che ha un terzo della popolazione italiana) allinterscambio
del Paese si aggira attorno all11 per cento. Gli esercizi
alberghieri del Veneto sono oltre duemila, quelli dellintero
Sud sono 3.200. Se si sommano la disoccupazione, il lavoro nero,
labusivismo edilizio, levasione dellIva, un bel
po di mafie e un gran contorno di pratiche clientelari e di
diffuse corruzioni, la situazione è ancora più scoraggiante.
E si capisce così perché in tanti, nel Nord e nello
stesso Mezzogiorno, hanno voltato le spalle alla celeberrima e in
buona parte sterile questione meridionale.
Questione che veniva da lontano, e che alimentava la
speranza degli uomini e delle donne del Sud con nobili intenti.
Cavour credeva che la libertà avrebbe risvegliato le energie
conculcate della società delle regioni meridionali. Alcuni
meridionalisti, allinizio del secolo scorso, sperarono che
le migrazioni verso le Americhe avrebbe decongestionato il mercato
del lavoro, alleggerendo la pressione demografica sulle campagne
e favorendo lo sviluppo del Sud. Giustino Fortunato ritenne che
il progresso dipendesse essenzialmente dal rinnovamento delle strutture
agricole. Dopo il suo viaggio in Basilicata, (il primo di un presidente
del Consiglio nel Sud), Giuseppe Zanardelli puntò sullefficacia
delle leggi speciali. Francesco Saverio Nitti indicò una
dose massiccia di industrializzazione. Gaetano Salvemini, anticipando
Gramsci, sostenne che il Sud era rimasto vittima sacrificale di
unalleanza tra il capitalismo del Settentrione e il latifondismo
del Meridione. Don Luigi Sturzo affermò che il Sud aveva
bisogno di maggiori autonomie. Mussolini fece di Napoli una città
industriale e si illuse che le conquiste coloniali avrebbero soddisfatto
la fame di terra delle masse contadine. Guido Dorso, Antonio Labriola,
De Viti De Marco, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria, Danilo
Dolci e molti altri ritennero che la questione fosse
anzitutto un problema di buon governo e di rinnovamento della società
civile.
Gli economisti del secondo dopoguerra puntarono sulla riforma agraria,
poi sulle infrastrutture e le bonifiche del territorio, infine sui
poli di sviluppo. I comunisti lavorarono allorganizzazione
di una classe lavoratrice politicamente consapevole dei propri diritti,
e, ovviamente, guidata dal Pci. De Gasperi e Menichella vararono
la Cassa per il Mezzogiorno. Poi si parlò di frontiera
degli anni Ottanta. Poi ancora di aggancio del Sud allEuropa.
Infine, la questione svanì, e tutti voltarono
le spalle alle terre illuminate dallalgida luce della luna
dei Borboni.
Perché accadde tutto questo? Per due precise ragioni. La
prima: tutto, riforma agraria, Cassa per il Mezzogiorno, regioni,
Europa, ha dichiarato implicitanente, o no fallimento.
La seconda: i meridionali la rivoluzione, radicale e silenziosa,
lhanno fatta in proprio, con una parte di società che
decise di andarsene, di emigrare, in varie fasi dopo gli anni Cinquanta
del Novecento. E fu una doppia emigrazione: verso le regioni del
Triangolo industriale e verso lEuropa.
Stanchi di correr dietro alla speranza, quelli che abitavano i vecchi
centri storici, le corti e i vicoli, le casbeh e le medine abbandonarono
il bianco abbagliante dei loro paesi e lo scialle nero della loro
disperata miseria, e salirono sui treni per raggiungere un ignoto
Far North. Costoro uccisero la speranza. E con la speranza era fatale
che dileguasse anche lo spirito di solidarietà, semmai trasferito
negli slums e nelle baraccopoli delle periferie metropolitane nelle
quali i salentini e i meridionali approdarono.
In Salento e nel Sud la società mutò pelle, senza
tuttavia riuscire ad avviare il motore di un autentico sviluppo
autonomo, se non in alcune aree di poche regioni. Così è
accaduto che a parlare del Sud, oltre i confini meridionali, ora
si suscita solo fastidio. Se poi si sostiene che le politiche per
il Sud sono state organiche allo sviluppo del Nord, mentre la speranza
è stata funzionale alla catena di inganni perpetrati contro
il Sud, si rischia di venire interdetti.
Ecco perché nella speranza, in questo tipo di speranza, non
ci può essere nulla di buono. Essa ha cancellato identità,
antropologie culturali e umane, linguaggi, tradizioni, letterature
e arti, dandoci in cambio una società dei consumi che, nel
Sud, è in grado di produrre poco e di consumare ancor meno.
Ha relegato uomini e latitudini in piani subalterni. Ha garantito
disancoraggi da superate schiavitù, nel nome di simultanei
ancoraggi a più efficienti servitù, nelle povertà
contemporanee che riguardano quasi esclusivamente le terre del Sud
nostro, oltre che del pianeta. Non sono state vinte la fame e le
malattie, non sono state debellate le mafie, non sono stati disarticolati
i networks politico-affaristici. Come sterili crisalidi, si sono
svuotate le ultime generazioni dogni interesse per la politica
(intesa come vita della polis), si è incentivata
lideologia della concorrenza selvaggia come solitudine di
maratoneti in un mercato globale senza regole e senza un lampo di
umanesimo che lo renda meno repellente.
Avevano ragione, i nostri emigrati, quelli che hanno buttato a mare
la speranza, perché ritenuta un inservibile ferrovecchio,
o un grimaldello per spalancare finestre su un nulla che segue a
un niente. Avevano ragione, perché così ci hanno indicato
le vie di una rivolta interiore che finalmente ha intrigato le nostre
coscienze.
Non per niente si è ricominciato a parlare di valori,
dopo che discorsi e pensieri analoghi anche nel recente passato
erano stati sistematicamente irrisi come frutto di intellettuali
di Magna Grecia. È una riconquista per la quale
vale la pena di battersi, giorno dopo giorno, malgrado lassordante
silenzio di quanti dovrebbero essere in prima linea, e sono invece
arretrati nel loro banale futuro.
Forse non a caso si sta tornando, sia pure lentamente e senza chiasso,
nei vecchi centri storici, a restaurar case dalle volte a botte
o a stella, per riabitarle e per restituir lanima (un poco
danima) alle corti e alle dimore tradite. E questo è
pragmatismo da inizio millennio. Non è malafede, ma diffidenza,
e se si vuole, sfiducia nei confronti degli altri.
La speranza, continuo a sostenere, va lasciata alla sfera degli
afflati religiosi, nei cui contesti stupendamente si incastona.
Al di qua del mondo spirituale, rischia di rendere ancora una volta
cieca e dolente la nostra già nuda terrestrità.
E il Belvedere
era una bruna foresta
Aldo De Bernart
Così la chiama, nel 1789, lo svizzero Carlo Ulisse De Salis,
signore di Marschlins, nelle sue note di viaggio dal titolo Nel
Regno di Napoli, alludendo al famoso Bosco Belvedere, disteso nei
Comuni di Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano,
Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Supersano, Montesano, Surano, Sanarica,
Botrugno, San Cassiano e Nociglia.
Immenso latifondo boschivo, che al suo proprietario, il principe
Gallone di Tricase, assicurava la pingue rendita di L. 42.500 e
a tutti i Comuni confinanti gli usi civici.
Smembrato, nel 1851, e suddiviso fra i Comuni interessati, a Supersano,
dopo Scorrano e Nociglia, toccò la quota maggiore e forse
la più bella, non solo per impianto e varietà di piante,
ma anche per i pascoli eccellenti.
«Nei pascoli sopra queste alture scrisse il De Salis
e nella foresta di Supersano, sono allevate due razze equine
appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le
quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono
anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di
formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente».
Famosa, un tempo, per le sue diciotto masserie, disseminate per
lintero feudo, Supersano deteneva la palma di tipici prodotti
caseari, in concorrenza con quelli dellArneo di Nardò,
mentre spiccava per la selvaggina abbondante che stanziava nel suo
immenso bosco e che richiamava cacciatori da ogni parte del Salento,
che pernottavano, a volte, nelle masserie, e, i nobili, nel Casino
della Varna, ancora oggi esistente, in agro di Torrepaduli; è
questo uno stupendo casino di caccia di impianto seicentesco, la
cui mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da
unantica carrareccia scavata nella macchia pietrosa. Situato
nel cuore di Bosco Belvedere di Torrepaduli, il Casino fu, appunto,
luogo dincontro per le battute di caccia e per i conviti che
le allietavano. Dimora un tempo veramente principesca, se ancora
oggi conserva, malgrado i guasti, lo smalto dellantico splendore,
il Casino della Varna, che non guarda più le antiche querce
del suo bosco che correvano fino a Supersano, rimane oggi lunico
testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere.
Quel bosco che ha dato 1aria sana
a Supersano e che ancora, nei suoi avanzi, richiama turisti sulla
più bella terra del Salento, così come un tempo richiamava
gli scienziati. Scrisse, infatti, il De Salis: «Supersano
è un piccolo villaggio isolato, romanticamente situato tra
boschi e colline, che ha servito sinora da ritiro al mio intelligente
compagno».
L«intelligente compagno», al quale allude il De
Salis, è il Dott. Pasquale Manni (1761-1841), da San Cesario
di Lecce, fisico ed entomologo di chiara fama, che nel Bosco Belvedere
di Supersano aveva raccolto vari insetti, passati poi al famoso
Domenico Cirillo, che li aveva catalogati nel suo lavoro Specimen
Entomologiae Napolitanae.
Il Dott. Manni scrive ancora il De Salis «mi
mostrò anche della cenere vulcanica da lui raccolta a Supersano
nel 1784, dove cadde dello spessore di una mezza linea; e siccome
è noto che in quellanno lo Stromboli eruttò
violentemente, niente di più facile che il vento ne abbia
sospinte le ceneri fin qui. E siccome la distanza in linea retta
è di 160 miglia italiane, sarebbe questa una prova indiscutibile,
come gli antichi descrittori delle eruzioni dellEtna e del
Vesuvio non raccontassero fiabe, allorché dicevano di ceneri
trasportate sino a 200 e 300 miglia, durante le forti eruzioni di
questi vulcani».
Con questa annotazione sui vulcani termina la visita del De Salis
a Supersano, e nel lasciare il piccolo villaggio, crediamo
che in quel lontano pomeriggio del 1789 abbia spinto lo sguardo,
ancora una volta, sul verde cupo della foresta, senza
dubbio una delle cose più belle che lillustre viaggiatore
dOltralpe abbia visto nel Basso Salento.
LArditi, che nel 1851 aveva conosciuto in tutta la sua vastità
e bellezza il Bosco Belvedere, perché ne aveva tracciato
la mappa e proceduto alla divisione della terra tra il principe
di Tricase e i Comuni interessati, nel 1879 scriveva: «Era
questo forse nella provincia il bosco più vasto e vario per
essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato
e di ceduo, se non poche moggia a nord-ovest verso Supersano».
Quelle poche moggia che nel 1882, a distanza di 84 anni
dalla visita del De Salis, il De Giorgi, visitando Supersano, vide:
«E verso lorizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli
dei pini dItalia, che sollevan le loro chiome pittoresche
sulla bruna massa delle querce di Belvedere».
La bruna massa di querce ora non cè più!
Quando
muore una grande quercia
Gino De Vitis
Un decreto del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, concedeva,
in data 19 maggio 1971, un nuovo stemma al Comune di Supersano,
su domanda del sindaco. Il nuovo stemma, raffigurante Bosco
Belvedere, sostituiva il vecchio, glorioso emblema, raffigurante
la Quercia.
Opportuna o meno la decisione del sindaco in carica che ne aveva
chiesto la soppressione, rimane il fatto che i Supersanesi, almeno
una buona parte di loro, non sanno ancora del cambiamento avvenuto,
non sanno ancora che la loro quercia è stata
definitivamente abbattuta.
E che la quercia sia stata per non poco tempo lo stemma del paese,
lo si deve al fatto che una grande pianta (ma che dico, grande!?
Immensa era, invece) costituiva il più significativo indicante
del nostro paese. Ecco la quercia, siamo a Supersano!
Non è vuoto sentimentalismo, se da queste colonne si fa lode
a questo gigantesco personaggio. Perché di personaggio
si tratta, non ci sono dubbi, vista limportanza che la pianta
ha avuto per noi, sì da essere stata, appunto, per tanto
tempo, il simbolo del paese.
Ci tornano alla mente i bei versi del Pascoli, nella poesia La
quercia caduta. Anche la nostra quercia, ora,
non più «coi turbini tenzona».
Venne abbattuta!
Essa era allingresso del paese, lato nord, nel luogo compreso,
oggi, tra il canale Muto e la strada provinciale per
Scorrano, là dove ora è stato sistemato un trasformatore
dellEnel. Intorno alla pianta, un enorme spiazzo. La sua chioma
era maestosa, capace di dare ombra, tanta ombra al viandante, che,
stanco, ne avesse avuto bisogno. Ma più che la sua chioma,
il fenomeno era costituito dal tronco: una circonferenza
da capogiro. Dicono, coloro che la conobbero e che ne ascoltarono
i suoi ultimi battiti, che occorrevano ben quattro persone (sic!)
con le braccia aperte, per abbracciarne lenorme tronco; basti
pensare, per avere unidea più verosimile, che nel suo
tronco era stato ricavato un vero e proprio antro, nel quale potevano
trovare comodo riparo quattro o cinque persone, sedute attorno ad
un tavolino.
E si pensi quanto cara fosse stata la quercia di Supersano agli
zingari, a questa gente senza casa, che, facendo sosta nel nostro
paese, trovava un certo riparo allombra e nel tronco della
secolare pianta.
Quanto tempo era vissuta? La gente se la sarà sempre posta
questa domanda e ce la poniamo oggi anche noi. Ma chi può
sapere la durata della vita della nostra quercia! Purtroppo non
siamo in grado di dirlo, poiché non abbiamo alcuna documentazione,
anche se si può affermare con sufficiente sicurezza che la
nostra quercia non avesse meno di dieci secoli.
Una cosa, quindi, è certa: la sua vita è stata straordinariamente
lunga.
Perché la sua fine? Il racconto di chi la ammirò ha
veramente del patetico. La quercia era sofferente, ormai
decrepita, per cui si pensò bene di abbatterla. Sofferente
per aver dato riparo, nella sua cavità, a tanta gente! Sì,
la sua generosità fu la causa della sua morte. Lenorme
buca nel suo ventre laveva percossa inesorabilmente: la linfa
non aveva avuto più la possibilità di ascendere facilmente
dalle radici al resto della pianta, impedita, appunto, dallenorme
taglio nel tronco. E così la scure si abbatté su di
lei. Questo accadeva circa novantanni fa. Venne dato lincarico
dellesecuzione a Guerino Sanapo, il quale si valse della praticità
nel mestiere di Paolo Negro. Ci manca la testimonianza dei due,
poiché entrambi sono morti. Finiva così la lunga vita
di questa nostra forte pianta, tra il rimpianto generale dei Supersanesi,
e non solo dei Supersanesi, e il dolore degli uccelli con i quali
la quercia, mamma quercia, era stata così buona.
Le querce del Salento
Numerose erano le specie di alberi e arbusti che vegetavano nel
Bosco Belvedere, fra le paludi e gli acquitrini: il frassino, il
carpino, il castagno, la quercia spinosa, il leccio, il fragno,
la roverella, insieme con l'intera gamma di piante della macchia
mediterranea.
A partire dalla seconda metà dellOttocento, per venire
incontro alle necessità degli agricoltori, il bosco fu in
gran parte distrutto per far posto soprattutto agli ulivi che ancora
oggi ricoprono quei fertili terreni.
Scrive il tecnico ambientale e naturalista Roberto Gennaio: «I
disboscamenti irrazionali (clearcutting), gli incendi ripetuti,
le attività pastorali, lo smacchiamento e le opere di dissodamento
necessarie per reperire nuovi terreni coltivabili, si accentuarono
in maniera esponenziale a partire dai primi anni del 700 e
continuarono dissennatamente nei secoli successivi [
]. Anche
la richiesta sempre più incalzante di combustibile vegetale
determinò la specializzazione di diverse maestranze nel taglio
degli alberi e delle grandi querce e nella preparazione del carbone
e i craunari di Calimera e di Supersano erano i più
noti e specializzati del
Salento [
]».
Scriveva il De Giorgi nel 1877: «Non è senza il massimo
dolore ch'io osservo di anno in anno cadere atterrate al suolo quelle
querce maestose che hanno sfidato per tanti secoli le ingiurie del
tempo, dellatmosfera, degli uomini e degli animali. La falce
e la mannaia livellatrice del boscaiolo segnano intanto, inesorabili
su questa via di distruzione [...]».
Dice Gennaio: «Forse non tutti sanno che nel nostro Salento
sono presenti nella flora spontanea ben dieci specie di querce e
dodici in Puglia, tanto che il botanico pugliese E. Carano la definì
la terra delle querce».
Le querce salentine sono: il leccio (Quercus ilex), la quercia spinosa
(Quercus calliprinos), la quercia virgiliana (Quercus virgiliana),
la quercia di Dalechamp (Quercus Dalechampii), la vallonea (Quercus
thaburensis subsp. macrolepis), la sughera (Quercus suber), il farnetto
(Quercus frainetto), il fragno (Quercus trojana), la rovere (Quercus
petraea), la roverella (Quercus pubescens).
Paola
la mammana
Maria Mafalda Ciardo
Un mestiere tramandato
Il parto, «tempo breve e risolutivo, tempo di
sofferenza ma anche di liberazione» (G. Ranisio, Venire al
mondo. Credenze, pratiche, rituali del parto, Roma, 1996), nel passato
si configurava insieme alla gravidanza e allallattamento come
la fase della vita della donna nella quale «il controllo sociale
veniva esercitato allinterno del gruppo femminile da alcune
donne su altre donne». Così il parto diventava uno
dei pochi momenti gestiti dalle donne, allinterno di una società
che certamente non poteva essere definita femminile.
Infatti le testimonianze orali raccolte evidenziano la presenza,
al momento del parto, di sole figure femminili: le vicine di casa,
le zie, la madre della partoriente e limmancabile socra,
la suocera, con una funzione di controllo che al momento
topico della nascita suscitava nelle nuore atteggiamenti di ostilità
e di ambivalenza.
A queste si aggiungeva la donna esperta o pratica,
la mammana, figura attiva a Depressa di Tricase, nella
persona di Paola De Iaco, fino al 1969, anno della morte. La sua
conoscenza empirica del corpo la portava ad aiutare
la partoriente basandosi su ciò che questa «sentiva
e diceva di sentire», nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi
ritmi.
Si trattava di un mestiere tramandato dalla suocera, la mamma
Là (Addolorata), che, vista la predisposizione della
nuora, laveva portata con sé ad assistere ai parti
e ad apprendere larte. La stessa Paola De Iaco avrebbe potuto
tramandare larte ad una delle figlie, ma non se ne fece nulla
per lopposizione del genero, come una delle figlie della mammana
riferisce: «Una vulia se mpara, na soru mia, Vata, però
u maritu nu vulia cu la manna perché tania quattru masculi»
(M.R. 70 Depressa).
Larte della mammana prevedeva un impegno notevole e una disponibilità
assoluta in quanto veniva richiesta unassistenza totale non
solo della madre ma anche del bambino, in tempi tra laltro
in cui la natalità era molto alta («Tannu nasciane
muti, non è come moi ca ne nascene unu, doi; tannu otto,
nove, dieci, cinque, sei, sette. Quistu era». (M.R. 70 Depressa)
. Il suo intervento, infatti, non si limitava al solo momento del
parto: lassistenza psicologica e fisica delle puerpere, dei
neonati, le medicazioni, lapplicazione di tagli, di punture
e di salassi la tenevano impegnata dalle prime luci del mattino
fino a sera, in un vero e proprio giro di visite («... e allora
a mane se ne ssia alle sette e se cuia alle dieci, alle undici e
facia u giru du paese» (M.R. 70 Depressa).
Tra le attività svolte, la fasciatura dei bambini, la visita
delle puerpere, in particolare delle primelure, le donne
che rimanevano incinte per la prima volta. Verso queste donne, magari
quelle più apprensive, la visita si concludeva con delle
rassicurazioni e degli incoraggiamenti.
La mammana era inoltre in grado di praticare tagli attraverso un
seghettu o un temperino, cosa che aveva imparato a fare dal medico
condotto del paese, al quale spesso si accompagnava come assistente.
I tagli si imponevano per raccogliere il latte, per curare le infezioni,
per drenare le suppurazioni. In questo modo le donne che ricorrevano
alle prestazioni della mammana risparmiavano e riservavano lintervento
del medico a circostanze più delicate o rischiose.
Il parto: luoghi, metodi e riti
Fino allavvento del parto medicalizzato, negli anni Cinquanta,
risultava prevalente quello effettuato in casa. In particolare,
nella realtà rurale di Depressa, questo si verificò
fino a tutti gli anni Sessanta. Solo negli anni 65-70,
da quanto si ricava dalla testimonianza di un medico della mutua,
si è incominciato a parlare di ospedali.
I più vicini al Capo di Leuca erano quelli di Scorrano e
di Poggiardo ai quali si ricorreva solo in poche, gravi, occasioni,
data la mancanza di mezzi di trasporto («Portare una a Scorrano
o a Poggiardo bisognava trovare la macchina a nolo oppure di qualchedun
altro insomma disponibile» (V.R. 78 Tutino) e il sentimento
di diffidenza e di paura che lospedale incuteva nella gente.
Quando il parto presentava complicazioni particolari si ricorreva,
prima ancora dellospedale, allostetrica condotta o al
medico condotto del paese e a questultimo soprattutto quando
il bambino si presentava in posizione anomala e «aveva difficoltà
ad uscire fuori» (V.R. 78 Tutino). In questo caso per estrarre
il neonato veniva utilizzato «il forcipe, una specie di tenaglia
[
] con due valve grandi che abbracciavano in genere la testa»
(V.R. 78 Tutino). Veniva utilizzato come alternativa al cesareo
praticato sempre in ospedale da personale specializzato e non da
medici generici. Mentre il forcipe poteva essere utilizzato pure
da medici generici. Numerosi erano gli inconvenienti che derivavano
dallutilizzo di tale strumento: lussazioni della spalla, malformazioni,
schiacciamento della testa.
Se invece interveniva lostetrica, questa poteva praticare,
con le sole mani, «il rivolgimento: se cera un piedino
fuori dallutero, dovevi far rientrare quel piedino, farlo
girare, far vedere il culetto e
tirarlo poi fuori» (M.A.L.
86 Alessano). Si tratta di una manovra un tempo piuttosto frequente,
oggi utilizzata in casi eccezionali, effettuata per modificare una
postura sfavorevole del feto, come poteva essere la cosiddetta presentazione
di spalla.
In tutti gli altri casi la mammana svolgeva il suo lavoro da sola
in casa della gestante, allertata dai parenti in presenza di doglie
o di sintomi che lasciavano presagire limminenza del parto.
La donna veniva fatta poggiare o per terra «su li vancuteddhi»
(M.R. 70 Depressa) o sugli «scannetti» o su dei cuscini,
oppure «a taiu de lettu» (V.R. 74 Depressa), o ancora
su un tavolo.
Al momento delle doglie, e subito dopo il parto, la gestante doveva
ingerire dellolio di ricino o di oliva («Quannu te santivi
le doglie ziccavi e te piavi oiu de ricinu e olio de vulia e te
puracavane primu. Poi nascia lu vagnone o la vagnona e però
le puracavane ntorna»). A Tricase è ricordata
anche lusanza di «ungere il collo dellutero con
del sapone, perché rendesse più facile luscita
del bambino» (Emilia 60 Tricase).
La mammana si disponeva quindi di fronte alla partoriente, avendo
a portata di mano un recipiente con acqua e disinfettante («cu
la bacinella de acqua cu lu iusuforum» (M.R. 70 Depressa).
Venivano utilizzati dei panni, preparati in precedenza, e dellacqua
calda. Si pensava infatti che il caldo alleviasse i dolori; basti
pensare che molto spesso la partoriente «veniva fatta avvicinare
ad una fonte di calore» (Emilia 60 Tricase).
Nel parto lesperta agiva esclusivamente con le mani. Nel caso
considerato, la mammana Paola utilizzava un guanto di tipo ospedaliero,
fornitole dallostetrica («Cu le mani, tania u guantu
ca ne lera datu a condottata. Cu li mani» (M.R. 70 Depressa).
Con queste praticava dei massaggi sul ventre e aiutava la creatura
ad uscire fuori dallutero. Al bambino venivano fatti dei massaggi;
ma se si presentava cianotico e sofferente, a causa di un travaglio
lungo, la mammana gli praticava una sorta di respirazione bocca
a bocca («Certi ca stavane tantu tiempu cu nascene, nascivane
neri e la mamma li suffiava alla bocca»). Si tagliava dunque
il cordone ombelicale, con il rituale di gettarlo nel fuoco perché
di buon auspicio («Quannu cadia lu mintivane nta lu focu e
lu brusciavane è [
] perché cusì dice
ca era usanza»).
Lespulsione della placenta, detta la secunda (V.R.
74 Depressa), rappresentava un momento non meno doloroso del parto.
In questa fase la mammana continuava a massaggiare il ventre della
partoriente per favorire lespulsione della placenta. La sua
mancata eliminazione avrebbe potuto mettere in pericolo la vita
della donna. Ritenuta pericolosa, la placenta veniva buttata dentro
la fossa (M.R. 70 Depressa).
Durante il parto, «quannu propriu erano i mumenti»,
si recitavano le litanie alla Madonna, «ne rivolgiane a Santa
Liberata, a SantAnna, a Santa Liutcarda, a chiamavane cusì
ca era la patruna de le partorienti». Colpisce la presenza,
accanto a SantAnna, patrona delle partorienti, di altre due
sante, Liberata e Lutgarda (patrona dei fiamminghi), non legate
al parto. Le litanie alla Madonna possono essere collegate anche
al culto della Madonna della Libera o del Carmine, che soccorreva
le anime del Purgatorio.
Infine il bambino veniva «lavato fra laltro sempre con
acqua calda e tutte le regole delligiene e fasciato»
dalla pratica. Unusanza questultima respinta
dalla medicina ufficiale dellepoca, come ricorda un medico:
«Il neonato veniva fasciato in una maniera barbara, perché
cera lidea che se non si fasciava molto stretto il bambino,
e non si tenevano strette le gambe, il bambino avrebbe sviluppato
gambe storte. E allora mettevano prima dei panni, belli, grossolani.
Poi li tiravano e li mettevano così come se fosse un fazzoletto
e poi lo giravano in questa maniera; poi giravano da un lato e dallaltro:
diversi strati di panni fino a che per ultimo venivano fasciati...
Per cui se tu pigliavi il bambino da sotto, così, non riuscivi
a tenerlo in piedi per quanto era impedito dai panni. Ma se il medico
diceva: Li dovete tenere sfasciati, cera sempre
lesperta o la nonna o unaltra che insisteva per tenerli
fasciati».
A parto concluso, interveniva lostetrica condotta del Comune,
che era tenuta a compilare una relazione sul parto, con lindicazione
dellora, delle modalità della nascita e le generalità
del neonato, in questo aiutata dalla mammana che, non sapendo leggere
né scrivere, le forniva tutti gli elementi utili per la compilazione
dellatto.
Non così accadeva ad Alessano, dove lostetrica condotta
ricorda che nel paese cerano sì le pratiche,
ma a queste non lasciava fare niente, limitandosi a chiamarle alloccorrenza
come aiutanti. Un malcelato senso di superiorità della condotta
rispetto alla pratica, che traspare anche nei nomi:
Signora, la prima; comare, la seconda. Questo
fatto può essere spiegato osservando che la realtà
cittadina di Alessano era profondamente differente da quella agricola
di Depressa. Nella piccola frazione di Tricase la lontananza della
condotta e lassenza di mezzi di trasporto ne rendevano difficile
lintervento giornaliero e sporadiche le visite e quindi più
freddi e professionali i rapporti; a questo bisogna aggiungere i
pregiudizi della gente, che preferiva laiuto della pratica
a quello della più istruita condotta.
Lalimentazione
Un rito, se così possiamo chiamarlo, legato al
momento successivo al parto era quello della preparazione del brodo
di gallina. Questo alimento veniva dato alle partorienti, dopo due
giorni di digiuno, perché considerato un ricostituente (V.R.
78 Tutino). Veniva consumato il terzo giorno dopo il parto senza
laggiunta di pastina; questa poi veniva aggiunta al brodo
del giorno successivo, come ricorda la figlia della mammana: «Poi
dopo doi giurni cidivane na caddhina, poi cuivane tuttu loiu,
cu nu ne face dannu cu nu ne vene la freve; allora poi ziccavane
e ne davane nu stozzu de brodu; allotru giurnu poi ne calavane nu
picchi de pastina» (M.R. 70 Depressa).
Sempre nei giorni successivi si continuava per quanto possibile
a curare lalimentazione, soprattutto per favorire la produzione
di latte. Infatti si consigliava di bere molti liquidi (anche il
vino) e di mangiare gli alimenti che si pensava favorissero la produzione
di latte, come le fave. Cè da aggiungere che lalimentazione
allepoca «non era la più varia possibile»
(V.R. 78 Tutino) e in determinate fasce sociali «non era [
]
possibile per esempio date le condizioni di ristrettezze economiche
consumare carne». Ecco perché la donna «durante
il periodo post gravidanza, insomma, stentava a riprendersi, condiderato
poi lalto numero di gravidanze che aveva già affrontato».
La vita negata
Dalle testimonianze raccolte emerge un altro aspetto della gravidanza
che merita una certa attenzione, ossia quello dellaborto.
La vita della donna, negli anni Cinquanta e Sessanta, era infatti
caratterizzata da numerose gravidanze che non sempre andavano a
buon fine.
In caso di aborto spontaneo, la mammana interveniva eliminando il
feto ormai morto con le mani. Si ricorda anche lutilizzo della
camomilla e dellacqua calda.
In realtà, la mammana non aveva alcun requisito per intervenire,
così come non ne aveva lostetrica condotta. Questa
infatti era obbligata in presenza di un aborto o di una minaccia
daborto a chiamare il medico, e sarebbe stata una sua grave
inadempienza, passibile di denuncia, non farlo. Il medico, tra laltro,
poteva rifiutarsi di firmare la relazione se non aveva assistito
allaborto.
Laborto provocato, illegale a quellepoca,
non era invece particolarmente diffuso, ma «praticato più
che altro da persone esperte, non certo da ostetriche perché
[
] non si prestavano; almeno non si sarebbero dovute prestare.
Era praticato con mezzi empirici, magari distillati di erbe (il
medico ricorda luso del prezzemolo) o in maniera cruenta con
ferri od altro che provocava la morte del feto e successivamente
la sua espulsione».
Pratica alla quale non si piegava la mammana di Depressa, visto
anche il forte legame di amicizia che la legava al parroco del paese.
Le figlie ricordano alcune giovani donne che le avevano chiesto
inutilmente di farlo.
Le gravidanze indesiderate portavano comunque alla nascita di bambini,
il cui destino era alla mercé delle madri: alcune sceglievano
di dare alla luce il figlio lontano dal paese e di abbandonarlo
alla ruota di Lecce: nonostante la presenza della ruota
a Tricase, infatti, le donne trascorrevano il periodo della gravidanza
presso qualche convento e lì abbandonavano il bambino.
Altre invece partorivano da sole e si liberavano sbrigativamente
del neonato. Subito dopo il parto non pochi di questi bambini hanno
conosciuto la morte, buttati in qualche cisterna o abbandonati nei
dirupi. Il fenomeno era particolarmente diffuso ed erano numerosi
i casi di imputazione per infanticidio. («Mo li portavane
a Lecce ca ncera quira cosa ca nu sacciu come se chiamava,
quira cosa e li lassavane già. Se sapia sempre, ma qualcuno
lhannu puru ccisu. Dopo se sapiane. Quelli nasciane suli.
Mancu chiamavane la mamma, no» (M.R. 70 Depressa).
Una delle figlie della mammana ricorda una donna che prima del matrimonio
aveva concepito un figlio e lo aveva ucciso buttandolo «antra
lu puzzu». Al pranzo di nozze, secondo quanto le era stato
raccontato dalla suocera, si era verificato un episodio strano e
curioso: una gallina uscita dal pollaio, dopo essersi posata sul
piatto della donna che aveva ucciso il figlio, era morta stecchita.
La donna racconta: «Ncera na ristiana incinta, cu la
ventre rossa. Hannu truvatu nu vagnone antra lu puzzu; [
]
poi è vanuta ca sa spusata sta ristiana, sha spusata
e dicene ca tannu stavane nta nu curtiu ca staci se manciavane
na cosa. Allora dice ca ncera na caddhina. Esse du puddaru
de caddhine. Allora zicca e esce na caddhina de stu puddharu. Ha
cumanzatu a spattire. Spatti spatti vane e se va nta lu piattu arunca
manciava quira ristiana cha abortito. Cade antu piattu e more
a caddhina.[
] E dicia a socra mia, me disse: a cosa vivente,
propriu varda sarà ca Gesù Cristu
, a dittu,
varda propriu ca sa nfucata a caddhina» (M.R. 70 Depressa).
Il battesimo
La mammana durante il rito del battesimo ricopriva un ruolo importante;
esso consisteva nellaccompagnare i bambini al fonte battesimale.
Questa particolare funzione, che non deve essere confusa con quella
della madrina (che era presente insieme al padrino), ha origini
antichissime, come attestato da una dichiarazione di fede
della mammana contenuta nel Liber baptizatorum di Tricase:
Faccio fede io Caterina Ruberta della Terra di Tricase, mammana
et allevatrice, a chi la presente spettarà vedere, o sarà
in qualsivoglia modo presentata, come da tutto il tempo passato
nel quale ho esercitato lufficio di mammana et allevatrice
in detta Terra, che sono anni 14 in circa sempre ho portati li figlioli
e figliole al battesimo in fra lo termine di giorni sei ad summum
da che sono nati, e quelli fatti battezzare secondo il rito di Santa
Chiesa, et in fede del vero ho fatto fare lo presente per mano di
notaro Francesco Micetti di detta Terra, signata col segno di croce
di mia propria mano per non sapere scrivere. In Tricase le X di
Decembre 1619.
In quella particolare occasione la mammana Paola preparava dei liquori
che venivano consumati durante la piccola festa organizzata subito
dopo il battesimo e riceveva dai genitori e dai cumpari il compenso,
che poteva essere in denaro («Alla chiesa poi i cumpari li
davane cinquanta lire, cento lire» (M.R. 70 Depressa) o in
natura.
Per le ostetriche condotte, invece, esisteva un tariffario che variava
da paese a paese e in funzione delle prestazioni. In ogni caso,
chi era iscritto allelenco dei poveri era esentato dal pagamento
di qualunque tariffa, prefigurandosi già la successiva assistenza
delle persone indigenti, caratteristica del welfare moderno.
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