Come tutte le scale definite enigmatiche,
è costituita da suoni, ciascuno
dei quali è
decodificabile
secondo criteri
cifrati,
enigmistici.
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Sempre più di frequente abbiamo occasione di meravigliarci
(e di essere infastiditi) per le prese di posizioni britanniche
contro tutto ciò che riguarda lItalia. I continui attacchi
inglesi ai governi italiani, ad esempio, sono sistematicamente condotti
da alcuni quotidiani londinesi, in parallelo con altri giornali
americani. Insieme con quelli francesi, i magazines del Regno Unito
non cessano di criticare la nostra economia, i nostri sforzi europeisti,
le nostre aperture mediterranee.
Niente di nuovo sotto il sole, in realtà. Qualcuno ricorda
le invenzioni negate, o come vennero anche definite
le invenzioni rubate agli italiani in un passato
poi non tanto remoto? Ci si ricorda di Meucci e della rapina di
Bell a proposito di telefonia; o, più ancora, dellingegnere
Felice Matteucci e del padre scolopio Eugenio Barsanti, che soltanto
dopo un secolo e mezzo sono stati riconosciuti i veri inventori
del motore a scoppio (il modello del motore da loro ideato era stato
depositato presso lAccademia dei Georgofili di Firenze nel
lontano 5 giugno 1853), dopo che francesi e tedeschi con
un evidente plagio avevano attribuito la primogenitura a
se stessi?
Càpita nelle migliori famiglie continentali! Sicché
possiamo anche dimenticare le frasi sgradevoli udite in passato
a proposito di un altro italiano, genio in campo musicale, che si
cercò di colpire con critiche di fattura datata, nutrita
scrive Quirino Principe dellenfasi che rende
presto obsoleti i giudizi. Si tratta di quel che scrisse William
Howard Glover. Autorevole e temuto columnist del Morning Post, costui
sosteneva, dopo la prima rappresentazione del Trovatore
nella capitale britannica: «Gli italiani proclamano Verdi
la speranza dItalia; noi lo chiameremo invece la disperazione
dItalia. Nel Trovatore, come in tutte le
opere di questo maestro, noi non troviamo né fantasia, né
originalità; non canto, non effetto drammatico, non dottrina.
Fracasso inutile, luoghi comuni, idee triviali, canti antipopolari,
effetti convenzionali. Insomma, ad onta dei suoi ripetuti successi,
noi teniamo per fermo che lautore di Ernani, di
Rigoletto e del Trovatore non fu, non è,
e non sarà mai un buon compositore di musica».

Amenità eccelse, è ovvio; ma registrabili quali anelli
di una lunga catena italofoba che in terra britannica fece udire
spesso la sua farragine, nei democratici raduni della musicografia
(G.B. Shaw) e nei dibattiti elitari della musicologia (Edward Dent),
così come nei salotti buoni della storiografia (A.J. Taylor).
Per quale ragione riesumiamo questi vecchi proclami anglocentrici,
dei quali oggi il gallese Julian Budden, inesausto studioso verdiano,
preferirebbe non udire neppure leco? Li troviamo rievocati
in uno scritto di Luciano Chailly, il compositore lasciato troppo
in ombra, nato a Ferrara, milanese delezione come il suo maggiore
partner e ispiratore, il bellunese Dino Buzzati. Scrive Principe:
«Forse non sono necessari intelligenza coltivata e gusto affinato,
per amare le sonate tritematiche e le opere teatrali su testo e
soggetto di Buzzati o di Cechov o di Dostoevskij; forse basta la
disposizione a lasciarsi affascinare, e la musica di Luciano Chailly,
mai invecchiata, ha il potere di sedurre. Conosciamo Chailly memorialista
[...] e non soltanto, e la sua capacità di incatenare chi
legge».
Verdi e la scala enigmatica, testo del compositore rimasto inedito
fino a qualche mese fa, quando è stato reso noto da Principe,
consta di nove cartelle dattiloscritte (con una vecchia macchina).
«In principio, è un discorso disorganico, uno zibaldone:
poi affronta un argomento tecnico, molto attraente, e da quel momento
parte verso un livello analitico alto e limpido, ricco di esempi
musicali in facsimile, e assolutamente organico, il che forma uno
strano contrasto tra linizio e la conclusione».
Ma qual è questo argomento? Premettiamo che, non per nulla
musicista di Buzzati, Chailly incluse nel proprio stile elementi
«misteriosi, tenebrosi e demoniaci», del tutto opposti
all«angelicità soavemente malinconica»
del musicista appulo-milanese Nino Rota.
La scala enigmatica venne ideata nel 1889 dal compositore
bolognese Adolfo Crescentini. È questa: Do, Rebemolle, Mi,
Fa diesis, Sol diesis, La diesis, Si, Do. Come tutte le scale definite
enigmatiche, è costituita da suoni, ciascuno
dei quali è decodificabile secondo criteri cifrati, enigmistici.
Crescentini la armonizzò. Lo stesso fece Verdi, ma in maniera
del tutto differente: la sua scala fu lossatura di una preziosa
pagina, lAve Maria, che successivamente divenne
il primo dei Quattro Pezzi Sacri.
Sostiene Principe che leggere lanalisi di Chailly è
più interessante del Sudoku, «gioco estivo
per vecchietti imberbi in overdose di genialità einsteiniana».
Ma fino ad un certo punto: nelle ultime pagine del dattiloscritto,
il discorso si fa piuttosto difficile e specialistico. Cè
una «conclusione azzardata». E se le nove cartelle di
Chailly fossero «lette mediante una griglia da Intelligence
Service» e rivelassero che il compositore ferrarese, dallempireo
dove certo alloggia insieme con Buzzati, intendeva svelarci in anticipo
gli enigmi tenebrosissimi di quel teatro milanese di cui egli, fra
laltro, fu direttore artistico dal 1968 al 1972? [...] Chi
vuole cimentarsi nella codificazione? Ne vedremo delle belle!».
Ecco un lungo stralcio del testo di Chailly:
La scala fu subito armonizzata [...] da alcuni compositori dellepoca,
tra cui lo stesso Crescentini, poi da Giuseppe Cerquetelli, Vittorio
Norsa, Aldo Forlì, Ottorino Varsi, il quale, armonizzando
la scala in stile contrappuntistico, ha in un certo senso aperto
la strada allintervento storico di Verdi. Linteresse
di Verdi per la scala enigmatica si manifestò soltanto più
avanti [...]. Ma tornando allinizio della travagliata vicenda
dirò che quando questa scala che fu definita scala-rebus,
scala scorbutica, scala refrattaria, scala
di suoni discordanti attirò lattenzione
di Verdi (che lavrebbe poi a sua volta chiamata sgraziata
scala, scala sconquassata, sgangherata scala),
egli scrisse a Boito (che era amante, come si sa, di rompicapi di
tipo fiammingo) dicendogli che aveva intenzione di comporre su quella
strana scala unaltra Ave Maria, «la quarta»,
così sarebbe stato, «dopo la morte, beatificato».
«Molte Ave Maria ci vogliono gli rispose scherzosamente
Boito perché Lei possa farsi perdonare da S.S. il
Credo dellOtello».
Da quel momento, (la lettera di Verdi a Boito era del 6 marzo 1889),
passò un lungo silenzio, interrotto da brevi accenni al basso
sgangherato nellepistolario, fino cioè a quando,
ben sei anni dopo, il 28 giugno 1895, lAve Maria
(naturalmente nella prima stesura) venne eseguita in forma privata,
«con pochi cantori e dinnanzi a un ristretto numero di cultori
dellarte» al Conservatorio di Parma, sotto la guida
di Giuseppe Gallignani [...]. Verdi aveva dato ovviamente la sua
autorizzazione, ma non volle essere presente. Non solo. Pochi giorni
dopo lesecuzione a seguito degli articoli di meraviglia, di
lode e di entusiasmo usciti sulla Gazzetta di Parma (Verdi
è gigante anche quando gioca) e sulla Gazzetta di Milano
a firma di Michele Caputo (Molto avranno ad apprendervi gli
studiosi quando il lavoro sarà pubblicato), Giulio
Ricordi si rivolse immediatamente al Maestro proponendogli di pubblicare
il suo lavoro corale «di tanto interesse artistico»,
e la risposta di Verdi fu la seguente: «Non vale la pena di
parlarne. È stato uno scherzo ed è quasi un puro esercizio
scolastico».
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