Aveva
un sogno Verri:
un libro di parole, stupide parole,
anche, ma sonore, di quelle che deliziano
o frastornano,
o parole in grossa rogna con la vita.
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Aveva un sogno Antonio Verri, il grande folle sogno di un libro
profondo e immenso, smisurato, che fosse tutto e nulla, riflesso
e inconsistenza, nuvola e macigno. Perfezione.
Sognava un libro, Verri: una forma gigantesca, gravida di corpi,
di linguaggi, di silenzi e voci, di segni dogni sorta, insegne
luci balbettii colori. E poi brusii, poi ritmi affannosi o pacati,
come fossero respiro, palpito di cuore.
Devessere Declaro il libro, pensava, devessere digressione,
iterazione, fuga, armonia e disarmonia, eco e risonanza, devessere
sempre flusso e fluttuazione, materiale che si fa e disfa in continuazione,
che si gonfia, si spande, si dilata, che chiude dentro sé
ogni codice, tutte le immagini possibili, le possibili scritture,
trasparenze, riflessi, le movenze dei corpi, tutte le possibili
memorie, i possibili racconti.
Non deve avere tempo, il libro, né luogo. Perché il
luogo è il raggrumo di tutti i possibili luoghi, accartocciamento
di mappe, falsificazione di atlanti, dove accade tutto e nulla,
contemporaneamente, che è un dove e un altrove, contemporaneamente.
Guisnes è il luogo. Città senza porte; città
che si muove, si agita, sussulta, viva, aggressiva, sempre immobile
e cangiante, sventrata, lussuriosa, opaca e luccicante, dolce e
perversa, fetida e odorosa, corpo e idea, madre e prostituta; microcosmo
che genera linguaggi, li aggrega, li intreccia, li polverizza, li
riaggrega; linguaggi dogni genere: parole clacson insegne
cartelloni graffiti spray canzoni. Qualche fiaba.
Guisnes è luogo di linguaggio eccitato, città invasa
da una marea di linguaggio che può essere penetrata solo
per mezzo di un linguaggio che sia superiore a tutti per potenza
di significato. Ecco la nave, allora, la poesia, simbolo del viaggio
dentro la scrittura, che danza, rolla, solca, scivola tra i generi
accavallati e confusi dei testi. E nave che muta rotta continuamente,
refrattaria a qualsiasi indicazione di bussola, insofferente di
qualsiasi polso di timoniere. Rivendica la propria autonomia, afferma
esplicitamente la separazione dal proprio autore.
Castro è il luogo. Vuoto. Aria rossa, rappresa. Quattro
spuntoni di torre. A strapiombo sul mare. Abbaglio. Bagliori. Terra
melograna. E a Castro luomo dei curli grida, e lancia il suo
curlo in una dimensione sospesa, oscillante, indefinita, in un tempo
che sovrappone e confonde le sue dimensioni, in uno spazio dei confini
labili, imprecisi.
Otranto è il luogo. Storia. Memoria. Dove tutto appare eterno
e morente nello stesso istante, ambiguo, irreale, deformato e deformante.
Luogo di contraddizioni, di contrasti, di contrari, incipit ed explicit,
alfa ed omega, silenzio e racconto. Otranto è un nome, una
ciarla, uno spasimo daria, posto di mare dove la morte, se
viene, è come la voce sospesa, cautelosa, di guitti assurdi
e decollati.
Per quanto tempo visse, Antonio Verri lo fece per narrare di una
terra sconfinata, che si stende, che si adagia sul filo di un racconto,
un luogo vero e falso, un luogo quasi di fiaba, popolato da donne
di pasta cresciuta, purissimi cavalieri che di notte riposano sui
tetti, sorvegliato da esseri che vorticano nellaria, specie
di elfi colorati, folletti predoni che chiamava Tao.
Per raccontare di una terra dove a volte cade una neve farinosa,
un gioco per bambini, di un Salento che innalza sulla sua pianura
presuntuosi e strabilianti campanili, una terra di ragazze mulacchione,
saracene, inesplose, per le quali ogni amore è sempre il
primo amore, una terra con un grosso respiro, un sibilo lungo che
viene dai menhir, dai frontoni delle chiese, dalle torri di scolta,
dal respiro del mare, da quelle silenziose sentinelle del tempo
travestite da alberi di ulivo.
Per il tempo che visse, per il tempo che scrisse, Antonio Verri
raccontò di quella terra vicina e lontana, dove quando passa
un treno il bambino grida: passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa.
E la campagna bianca tuttintorno gli risponde, la contrada
col nero dei camini gli risponde, i morti, le case, i lunghi racconti
gli rispondono: passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa.
A Roca, una sera, una quasi notte della fine di agosto del novantuno,
Verri mi diede un dattiloscritto di trentasette cartelle intitolato
La salle de bain, perché gli dicessi cosa ne pensavo.
Lessi il lavoro. Lo rilessi.
Ci rivedemmo un po di giorni dopo, in unosteria.
Con quellaffetto presuntuoso che mi faceva sentire mia la
sua scrittura, così come la sua grande umiltà gli
faceva sentire sua la mia, dissi che quel racconto lungo non reggeva.
Mancava di unarchitettura narrativa; era metatestuale, metanarrativo.
In quelle pagine parlava del suo senso della letteratura senza quelle
situazioni di mediazione, di ponte verso il lettore, che invece
cerano nei Trofei della città di Guisnes e nel Naviglio
innocente, che pure erano scrittura sulla scrittura.
La salle de bain non fu mai dato alla stampa in quella versione.
Verri ci lavorò sopra, intorno, dentro. Per un anno e mezzo.
Nel maggio del novantatré mi consegnò un dattiloscritto
di settantasette pagine con il titolo di Bucherer lorologiaio
nel quale aveva fatto confluire La salle de bain.
Mi chiamò tre sere dopo per chiedermi se avessi finito di
leggerlo. Gli risposi che mi mancava qualche pagina, ma che stavolta
comunque funzionava. Questa volta sì che funzionava.
La notte alle quattro mi telefonò sua moglie per dirmi che
era andato via.
Bucherer fu pubblicato due anni dopo dalla Banca Popolare Pugliese
in 999 esemplari numerati, a cura e con introduzioni di Aldo Bello
e di chi scrive.
Nella Salle de bain, frase dopo frase, parola dopo parola, Verri
dava conto e motivazione, ragione e giustificazione di una scrittura,
di una spasmodica tensione verso la forma, di unansietà
di narrazione, della fantastica ossessione di chiudere in un libro
tutto luniverso, della disperata e fiabesca ricerca di una
lingua capace di aderire allesistenza e alle cose, di impastarsi
con esse fino a non distinguersi più, fino al punto di diventare
esistenza e cosa: albero bus fiore sospiro neve madre paura sogno
desiderio.
Voleva una lingua nuova, che fosse misura e precisione, essenzialità,
sonorità e ritmo, il risultato di una mistura di lingue che
gli consentisse di costruire il non libro, il testo che genera se
stesso, che si riproduce allinfinito, che si sbriciola, si
lacera, e poi si ricompone.
Ecco: questo era il suo Declaro.
Come tutti quelli che ogni giorno alzano altari di superflue parole
al vitello doro della letteratura, Verri sapeva bene che una
lingua così è impossibile, è solo la trappola
di unossessione, che nel corpo a corpo con lidea di
questa lingua, con il suo fantasma, a un certo punto ci si sfinisce,
si arretra, si rinuncia. Fino a non scrivere più.
Come rinuncia Lord Chandos di Hoffmansthal quando capisce che lunica
lingua che gli servirebbe non solo per scrivere ma anche per pensare
è quella in cui parlano le cose mute, con cui ciascuno un
giorno forse proverà a rispondere a un giudice sconosciuto.
Ma Verri voleva una lingua possibile e nuova. E allora pensa allinglese,
alla sua pervasività, alla sua fonia. Per questo nella Salle
de bain corrono parole e frasi in questa lingua. Materiali di risulta
dai media di massa. Materiali da speaker.
Lui che aveva dormito con Il sorriso dellignoto marinaio di
Vincenzo Consolo e con Orcynus Orca di Stefano DArrigo sotto
il cuscino, ritorna e affonda in Joyce che un tempo gli aveva soltanto
prestato suggestioni e nomi. Questa volta non è lUlysses,
però, che lo seduce; sono, invece, il Portrait e il Finnegan
Wake.
Sally sono io, dice a un certo punto il dattiloscritto. Unaltra
proiezione. Un altro smembramento. Un dare ancora una volta il proprio
sangue ai personaggi. Un prenderne da loro.
Il tempo del Declaro, il tempo del gran libro, è un istante
dandirivieni tra fantasia e memoria, è un tempo che
dura per quanto dura il narrare, è un ritmo, il giro di una
frase, lampolla di un vasaio. E lordine del caso,
il guizzo di un ramarro, vortice e vertigine, fine del racconto.
Il tempo è la ricerca del Grande Silenzio; è la Grazia
che chiede, è il giorno che batte sui polsini della camicia,
la Bellezza che geme nelle ore.
Altro tempo fu quello della vita.
Totò Toma era già andato via. Anche Edoardo De Candia
era andato via. Qualcun altro. Poi Verri, una notte di maggio: un
colpo di vento alle spalle, uno sguardo stupito ad una luna grande
appoggiata sulla fronda degli ulivi, una luna grande come palla
turca.
«Stefan volteggia, tenta il cielo. E stato facile, è
bastato aprire le ali controvento, stendersi, tagliare laria,
infilarla. E stato facile, è bastato liberarsi del
mantello, è bastato un morso al fondo schiena, perdere la
memoria, perdere tutto».
Come ogni scrittore che non sa distinguere tra la vita e la scrittura,
Verri aveva già visto oltre il suo presente, aveva già
vissuto tutto il suo futuro.
Chissà se quella notte pensò la sua scrittura, se
la morte gli somigliò alle storie profumate, al miglio stompato,
ai crateri del cuore, ai gesti teneri e scoperti del padre, ai suoi
corti avvisi, al pane sotto la neve.
Aveva un sogno Verri: un libro di parole, stupide parole, anche,
ma sonore, di quelle che deliziano o frastornano, o parole in grossa
rogna con la vita.
Vuole parole, Verri, da poterci caricare una nave, che sappiano
tessere laria, costruire una forma, dare voci alle tombe sul
mare, dire uno stupore, imitare un batticuore, raccontare di Sciaffusa,
la smania del Declaro, dei fabbricanti di armonia, di zacchinette,
del disertore, del padre, di Otranto, di Idrusa, di ansie, di candori,
di ori di poesia venduti in tanti posti.
Vuole parole Verri, che diano senso a ogni cosa, che riempiano il
pozzo dei giorni, rafforzino gli argini, sostengano il cuore che
a volte sembra spaurirsi, non reggere allassalto del tempo.
Cominciò con parole leggere, volteggianti, volitanti, semoventi,
facili da dire, da fermare. Cominciò con parole chiuse in
versi, con una lingua che avvolgeva perfetta le idee.
Erano, le parole del Pane sotto la neve, del Fabbricante di armonia,
un rapporto con il mondo regolato da un equilibrio, una consapevolezza,
un sentimento trasparente, sicuro, anche se mai rassicurante, anche
se sempre teso verso una ricerca che sfidava le profondità
e le altezze, che per metodo aveva assunto lo scandaglio o il volo.
E per oggetto i fondali dellesistere oppure il pulviscolo
dorato.
Cominciò così, con racioppi di parole messe in fila,
con parole che sciamavano sul foglio, che si fondevano quasi fossero
di neve, parole di sinopia, di sabbia, di cobalto, scoppiettanti
come quelle che Pantagruele rovesciava sul ponte dellimbarcazione.
Al tempo del Pane sotto la neve Antonio Verri scriveva con polso
fermo e passo svelto, con facilità, felicità. Poi
facilità e felicità lo abbandonarono, perché
il tempo delle parole cambia, come tutte le cose sotto il sole.
Verri si fece abbandonare.
Non volle più facili parole, non volle più che fosse
felice la scrittura, essere felice per la sua scrittura.
Aspiro forse alla mia felicità? Io aspiro alla mia opera.
Così parlò Zarathustra.
Allora creare non fu più inventare, porgere locchio,
lorecchio, essere morbido tremore, sbuffo, calore sonnacchioso.
Creare diventò spasimo e tensione, si fece ambizione e tentazione,
ricerca della perfezione.
Quel suo corpo poetico che fin dal Pane sotto la neve ha preso il
nome joyciano di Stefan si incarna o si smembra in
maschere e figure allucinate, ossessionate dallidea del gran
libro.
Stefan si perde dentro una parola, si lascia trascinare da una frase,
cerca la deriva nella digressione, si fa sedurre impudicamente,
disperatamente, da una risonanza, da uniterazione, uneco,
insegue a lungo una metafora per concludere poi che lindicibile
non si può dirlo comunque, in alcun modo.
Lambizione di uno scrittore forse non è che questa:
smarrirsi dentro il testo, non ritrovare più le proprie tracce,
scomporre il proprio io, simulare lesistenza e accorgersi,
alla fine, che la verità dellesistenza è nascosta
nella sua simulazione.
E allora Stefan simula, diserta da sé e fugge per luoghi
inesistenti, puri itinerari dellimmaginazione anche quando
hanno un nome reale, spazi senza confine e senza fondo, nominazioni
fantasiose, proiezioni verso lontananze.
La betissa, I trofei della città di Guisnes, Il naviglio
innocente, Bucherer lorologiaio, sono la lunga narrazione
di un desiderio assurdo che si riduce miseramente o si trasforma
magicamente in parola: parola che non può essere concretazione
del desiderio ma che può soltanto dire di se stessa, del
suo voler essere.
Cè un personaggio nei Trofei il guardone
che osserva il testo crescere; può solo descriverne la crescita,
senza parteciparvi. Il guardone è lalter ego del narratore.
Nel Naviglio il doppio viene trasferito in comparse e il narratore
si rivela e assume il ruolo di personaggio-chiave.
Quando il narratore è un personaggio è, solitamente,
un personaggio buffo o tragico. A volte è buffo e tragico
ad un tempo.
E buffo quando pretende di condurre le situazioni narrative
nellambito dei suoi schemi e di imporre ad esse i suoi ritmi;
è tragico nei casi in cui avverte, e confessa, che la narrazione
che gli era stata affidata e che doveva gestire lo sta risucchiando
in un vortice che non ha previsto; il personaggio narratore buffo
e tragico è quello che si accorge, ad un certo punto, che
la narrazione gli scorre sotto gli occhi già formata e che
lui può solo guardarla, curioso e impotente, da un bordo.
A questo tipo appartiene il narratore del Naviglio. Guarda. Ma latto
del guardare è penetrazione, scrutamento, percorrimento delle
distanze, spostamento, e lo spostamento può verificarsi verso
ma anche in un luogo.
Dunque: il narratore del Naviglio, guardando, si sposta dal bordo
ed entra nel testo.
Nel testo perde la sua componente buffa e rimane solo un personaggio
tragico: travolto dal testo, sconvolto dalla proliferazione delle
parole che non può più nemmeno descrivere nel loro
moto, che ora lo accerchiano, lo richiamano, lo seducono.
E il naufragio. Ora il narratore è parola, non altro
che parola tra tante, molte altre parole.
In principio è il brusio. Poi il brusio si fa parola, le
parole si riproducono per partenogenesi, si accumulano, si associano,
cercano cadenze, lespressione diventa sovrabbondante, straniata,
surreale, artificiosa, tesa verso la variazione rivitalizzante.
Il significato è affidato al caso. Non determinato dal caso,
ma affidato ad esso, il che vuol dire che ad unoperazione
di desemantizzazione della parola ne segue una di risemantizzazione
nellambito del costrutto e in relazione al ritmo che del costrutto
costituisce lelemento regolatore.
Il ritmo è condizione essenziale in questa narrazione: genera
immagini, scandisce sequenze, è portatore di senso, è
di per sé espressione.
Il caso è il ritmo, dunque, e il ritmo è un caso che
pretende il controllo anche del respiro.
Avrebbe voluto dire di sé il narratore, e invece può
dire solo di scritture, di modelli fantasiosi, combinazioni di sillabe,
ribollio di lessico, labirinti di frasi.
Avrebbe voluto dire del piacere che gli veniva dallaffabulare,
invece dice solo dellansia di creare un racconto dal nulla,
il mondo dal racconto, indipendentemente dal senso. Il senso poi
il creato lo troverà.
Il poeta del Pane sotto la neve adorava il racconto degli altri,
la riscrittura, la lievitazione della fabula; il narratore è
invece un feticista della sua narrazione: adora il vuoto, la forma
gigantesca e silenziosa, lincorporeo.
Ma che gli importa. Stefan ha solo un Declaro per la testa, libro
di libri, di parole e basta, un declaro che pretende il sacrificio,
la cancellazione di qualsiasi cosa.
E allora il corpo viene invaso da parole; più le parole crescono
e più il corpo si ritrae, diventa lombra di una mano
sopra il foglio.
Aveva un sogno Verri: chiudere in un libro il mondo, costruire
un universo di parole regolato dallordine del ritmo, del suono,
della modulazione. Sognava di generare un Declaro, un libro poroso,
una grande bolla, che pulsa, eccede, singrossa, sinfiamma,
che chiude dentro sé linizio e la fine, lurlo
e il silenzio, le storie che mai nessuno ha raccontato, le pagine
dei libri che nessuno ha mai scritto; pensava di assoggettare la
bufera di parole burbere tempestive idiote inattuali, comode e scomode,
umili e vanitose.
Voleva imbottigliare le parole, dominarne limpazzare e il
vorticare, catturarle, custodirle, ammaestrarle, come le rane di
Guisnes.
Il Declaro doveva inglobare, invadere, avvolgere, assorbire il mondo,
stringerlo nel suo recinto, nelle sue trame.
Doveva dimostrare la possibilità la potenza
che ha la scrittura di creare e ricreare, doveva dimostrare che
il testo è la vita, non simulazione della vita.
E Verri scriveva, organizzava il racconto, annodava i fili, compilava,
annotava. Si fece prendere dalla passione degli elenchi come ogni
scrittore che sa che il numero delle parole è maledettamente
infinito. Prendeva appunti sopra e dentro altri appunti che generavano
appunti.
(Quella domenica mattina del nove di maggio del novantatré
dalla camera mortuaria del cimitero di Caprarica portammo fuori
questo: duemila lire, il tesserino verde dellOrdine dei giornalisti,
foglietti di appunti. Moriremo prendendo appunti, diceva Flaiano.)
Il Declaro cresceva, prendeva corpo. Era corpo. E come ogni corpo
si nutriva: del corpo di Verri, della sua vita, del suo pensiero.
Stefan non poteva più riuscire a dominarlo, non riusciva
più a resistere al suo incanto.
Aveva un sogno Stefan, e nel sogno una paura: non riuscire a creare
il mondo con un libro. Verri sapeva che il grande libro è
impossibile, che la grande forma non esiste, che esistono solo abbozzi
di forma, solo frammenti del libro.
Al tempo dei Trofei e del Naviglio Antonio Verri era stanco, spossato
di scrittura.
Scrivere, trascrivere, compilare, annotare, elencare non era più
un gioco.
Daltra parte non lo era mai stato. Quando aveva detto chera
un gioco aveva mentito sapendo di mentire.
Scrivere era esistere. Esistere era scrivere.
Per questo non era facile smettere di credere al gran libro. Né
fingere di smettere di crederci.
Così continuava a innalzare la sua torre, giorno dopo giorno,
parola su parola, frase dopo frase, illusione su illusione.
Ma sapeva che il gran libro è soltanto una stupida balena,
che la scrittura è cera dIcaro, un trabiccolo in volo
verso il cielo, che alla fine del conto, alla fine del gioco non
resta altro che il ricordo di una meraviglia, uno stupore, non restano
che quaderni di svuotate parole. E poi, come scrive Alessandro/Stefan
alla madre, «il correre stolto, e il correre continuo, con
ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero doro,
verso il solito vecchio profumato eldorado».
(Lestate maturava in un paese che ha il nome dalbedine,
dalbasia, di chiarità, dalbòre, forse
dalba.
Lei disse: ritornare vuol dire riprendersi la scrittura, ritrovare
quel senso che ti manca.
Lui avrebbe voluto rispondere che non era quel senso che gli mancava.
Come Stefan avrebbe voluto rispondere che era triste faccenda correre
ancora dietro al suono delle campane delle Scalze, che tutto era
così untuoso, a volte, sciroccoso, e a volte così
fosforescente e lucido.
Avrebbe voluto dirle dei giornali di poesia fatti per passione e
per azzardo, delle notti che arrivavano sulle righe di un racconto;
avrebbe voluto dirle che adesso sospettava il cattivo odore di cipria
sudata nei salotti delle storie patrie, la nausea per le poesie
recitate dai poeti di corte e di cortile, il ritorno dei commedianti
di marine e di oratori.
Come Stefan avrebbe voluto parlarle delle buffe università
silenziose che si aprono a celle dombra, della muffa che si
spande, del chiacchiericcio, del mercato.
Invece le parlò di Magna Grecia, dellalbero della vita
di Pantaleone, del Santo dei voli, di nuvole bianche, delle molte
razze passate per queste contrade, di accademie e monaci sapientissimi,
di Verri, di Vittore e di Tommaso Fiore, di Toma, De Candia, Bodini,
Pagano.
Lei conosceva solo i nomi. E il volto del padre silenzioso che lo
guardava da un ritratto sul comò.
Non disse nulla. Ma pensò che avrebbe avuto memoria lunga.
Lunga.)
Ma chi era Antonio Verri.
Allora. Era un bambino alto, con la barba, che camminava lento ma
che è arrivato dove molti altri non sono mai arrivati, dove
molti altri correndo non arriveranno mai.
Era un uomo curioso di ogni fiaba, smarrito nel bosco di letture
e di scritture, che aveva cuore di vecchio contadino e pensiero
di raffinatissimo intellettuale.
E stato il padre di una generazione stupenda che non ha vinto
nulla, né cattedre, né premi, né mortadella
alla cuccagna, perché non ha saputo vendere parole al mercato
dellusato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo
ingrassato.
Racconta Aldo Bello: «Viaggiava con unutilitaria catastrofica
ma un giorno decise di prendere la littorina per andare in nessun
luogo: un percorso adolescenziale, si giustificò. Arrivò
fino a Gagliano del Capo, gli passavano per gli occhi immagini di
terre sassose e di stazioncine rosse, il tam tam delle rotaie e
la brezza di collina gli rimescolavano il sangue, chissà
che mari e che pianure avrà sognato quel giorno, mentre dalla
geografia minima del viaggio estrapolava reperti di storie e di
poesia».
Di mestiere faceva lo scrittore.
Soprattutto ha scritto: Il pane sotto la neve; Il fabbricante di
armonia; La cultura dei tao; La betissa; I trofei della città
di Guisnes; Il naviglio innocente; Bucherer lorologiaio.
Ha fondato e diretto Caffè Greco, Pensionante
de Saraceni, Quotidiano dei poeti, On
board. Ora Antonio Verri è racconto.
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