In occasione dei
cinquanta anni trascorsi dal referendum istituzionale del giugno 1946,
la Edizioni Monarchia Nuova ha pubblicato il libro Dalla parte del
Re - 1946: la verità sul referendum. Il libro, ovviamente,
tende a dimostrare, con un'ampia esposizione di documenti, una dichiarata
verità-tesi riguardo al referendum istituzionale. Commenti
e riflessioni su di esso non sono oggetto di questi appunti, ma non
di meno le 38 fotografie che accompagnano il testo - il libro consta
di 201 pagine - ci stimolano ad iniziare il nostro viaggio, intorno
al mondo fotografico dei Savoia, dalla fine della storia del Regno
d'Italia.
La fotografia, e ancor più il documento fotografico, ha la
caratteristica di non rappresentare idee astratte, personaggi generici
e situazioni impossibili, bensì specifici personaggi (anche
se anonimi), determinate situazioni, qualificati moti del sentire,
e non altri, in quanto, per la sua particolare natura, riprende e
quindi rappresenta l'attimo nel quale ciascuno di essi è stato.
La fotografia è presenza e testimonianza; l'autore partecipa
all'evento tramite il medium della macchina fotografica, soggetto
alle medesime condizioni ambientali e temporali, insieme a tutto il
suo essere, e non può che registrare, pur sempre, null'altro
che quel che accade nell'istante dello scatto.

L'aura di verità
che la fotografia subito ispira si genera dalla condizione della presenza
e dalla consapevolezza della registrazione della "realtà",
intesa come traccia del vero, del vissuto, del pensato, seppure tratta
dall'apparenza, dal comportamento, dall'accaduto. La fotografia replica
l'esperienza, la testimonianza e la presenza e, registrandole, rende
possibile la loro memoria e fa sì che, in altro momento, quando
sono assenti, esse possano essere richiamate e rivissute; di nuovo
presenti quando ormai sono assenti.
La fine dei Savoia rimane, nella nostra memoria fotografica, nell'immagine
di Umberto che si sporge dal portello dell'aereo e tende la mano a
qualcuno che lo saluta, con espressione tranquilla quasi sorridente;
un'uscita di scena dignitosa e insieme borghese, quasi un respiro
di sollievo. Ebbene, tale immagine non è tra quelle presenti
nel libro citato all'inizio, nel quale invece troviamo riportato,
da Storia segreta di un mese di regno di Italicus, edizione Il sestante
1947, quanto segue: "Congedi; senza enfasi, disadorni. Par già
di vederli in istantanee un po' sbiadite
Umberto riapre un momento
[il portello, nota di chi scrive], mentre il velivolo si avvia ancora
incerto. Allunga un braccio, stringe in fretta quelle mani tese
".

Invece un'altra mano tesa in un saluto appare nella fotografia n.
1, che ha questa didascalia: "Il Re risponde all'ovazione della
folla", ma la folla non appare nello scorcio della strada. L'eliminazione
di una delle due fotografie autorizza ad avanzare l'ipotesi dell'utilizzazione
dell'immagine al fine dell'affermazione di una tesi; infatti la prima,
non pubblicata, rappresenta il commiato, ispiratore di sentimenti
dolorosi, quindi negativi, mentre l'altra, al contrario, soprattutto
per la didascalia, avrebbe richiamato e rinsaldato motivi di orgoglio
e di gioia, positivi.
Una considerazione pregiudiziale, è da supporre, ha condizionato
quindi la pubblicazione, nella quale converge qualcos'altro, oltre
lo scatto vero e proprio, che offre a priori un'interpretazione del
"documento", anche se il filtro dell'osservatore, rappresentato
dalla lente della propria soggettività, emotività, esperienza
e cultura, opererà un'ulteriore selezione. Alcune volte può
risultare difficile, se non impossibile, leggere in modo distaccato
una fotografia, soprattutto quando essa è documento, cioè
testimonianza, di un evento o di un personaggio sul quale possono
esistere differenti e non concordanti opinioni.
Ma riguardo alla foto n. 2 non esistono dubbi interpretativi sul suo
valore emblematico, perché i personaggi - i due ex sovrani
- sono di spalle e si avviano, insieme e sotto braccio, lungo "il
viale del tramonto". La sottolineatura della didascalia, "Gli
anni dell'esilio", gli abiti borghesi persino dimessi, le teste
reclinate in avanti, lo scarno paesaggio movimentato solo da alcuni
pali dell'elettricità, parlano di solitudine e di tristezza,
alle quali unico motivo di conforto è l'appoggiarsi e il tenersi
per la mano l'uno con l'altra. Epilogo di una dinastia antica di otto
secoli, sotto la cui egida si formò l'Unità nazionale.
E' ancora poco noto che tanto Vittorio Emanuele III quanto Elena,
la sua sposa, erano dei sostenitori della fotografia - il primo numero
della rivista "La fotografia artistica", dicembre 1904,
fu posto sotto gli auspici di Sua Maestà il re Vittorio Emanuele
III -, e che essi stessi erano fotografi.
L'insieme delle loro opere era molto vasto, ma a causa degli eventi
bellici la maggior parte andò perduta quando nel 1943 i tedeschi
si insediarono a Villa Savoia ove, come anche al Quirinale e al castello
di Racconigi, erano attrezzatissimi laboratori fotografici.

Del tutto nel 1911, cinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia
nelle celebrazioni di Roma e Torino, tra le molte manifestazioni dedicate
anche alla fotografia, i Sovrani presentarono ciascuno una cartella
in blu Savoia che, in tiratura limitata, vennero messe in vendita
a fine di beneficenza; ogni fotografia portava impresso il monogramma
dei reali sul margine inferiore destro.
L'espressione fotografica, come ogni altra, può nascere dalle
stesse motivazioni che inducono alla redazione e tenuta di un diario,
come esigenza gratificante di registrare per sé e per i posteri
i limitati avvenimenti personali e familiari: il vedere crescere i
propri figli, il fermare nel tempo l'emozione o la sensazione trasmessa
da un tramonto o da un paesaggio, il passaggio nella propria casa
di un amico o di un parente che si sa può avvenire quella volta
e non più ripetersi, e così via. Il transeunte non si
vuole che non lasci ricordo di sé, che non scompaia così
come il tempo vuole che scompaia.

Le fotografie dei reali possono essere considerate come appunti di
due personali diari, espressioni di altrettanto diverse personalità
che si svilupparono dal 1896, anno del loro matrimonio, sino al 1926.
La regina Elena, che si dilettava a dipingere acquarelli, in modo
particolare risentì l'influenza della cosiddetta "fotografia
pittorica" che alla fine del secolo era molto diffusa in Italia,
e non solo, e che non disdegnava, tra l'altro, il "ritocco"
e il "viraggio"; tecniche queste che tendevano a rendere
la fotografia simile alla pittura, alimentando un'anomalia paradossale
per la quale quanto più la tecnica fotografica avanzava e migliorava
tanto più venivano ricercati accorgimenti correttivi di segno
opposto. La fotografia pittorica in questo modo veniva a identificarsi
come quella che conservava, per raggiungere il fine estetico, tutti
i codici propri della pittura attraverso un ibrido linguaggio.
Coloro i quali si affannavano a realizzare tale tipo di fotografia,
erano gli stessi che amavano essere considerati "fotografi artisti",
in contrapposizione ai "fotografi meccanici", così
detti perché più vicini e conformi agli aspetti tecnici
della nuova espressione.

Allora, quella che abbiamo chiamato l'anomalia paradossale può
essere così esplicata: per imitare gli effetti della pittura,
il fotografo doveva intervenire "tecnicamente" sulla pellicola
e sulla stampa, mentre utilizzando la foto per come era non doveva
compiere altre operazioni; secondo, per suscitare la sensazione della
pittura l'autore doveva ricostruire la scena, ispirarsi a temi e argomenti
già esistenti, raccontare storie di altri, tutte operazioni
che richiedevano interventi tecnici e artificiosi, mentre il fotografo,
riprendendo ciò che accadeva, naturalmente trovava il racconto
senza il bisogno di temi precostituiti.
Quindi il fotografo può essere artista, ma non perché
imita il pittore, ma perché sente da artista, esprimendosi
con l'immagine formata con il linguaggio fotografico.
D'altronde, non è da definire necessariamente appartenente
alla fotografia pittorica l'immagine che abbia accenti romantici,
sentimentali, elegiaci, eroici, simbolici, poiché se essa è
espressa fotograficamente, fotografia rimane; la qualifica di "pittorica"
viene acquisita allorquando il linguaggio vuole essere imitativo della
pittura.

E' interessante notare che nel caso di Vittorio e di Elena si instaura,
a loro insaputa, un sottile e molto raro processo di reciproca ripresa
che, dall'apparente intenzione diaristica e quasi documentaria, conduce
a una sorta di visione allo specchio, in cui l'uno ritrae l'altra
e viceversa (3, 4, 5), per giungere alla fotografia del fotografo
che fotografa (6).
Questa attitudine, che, quando c'è, si scopre nella reciproca
rappresentazione tra autori di diverse espressioni, richiede una comunanza
di vita e di sensibilità non facile da trovarsi; la vita dei
sovrani aveva molto in comune, soprattutto per forza del rispettivo
ruolo, dell'educazione, dei sentimenti, della cultura, tutti di natura
simile. Il gioco di riflessioni domina tutte le opere dei sovrani,
con una visione bi-oculare di e in un ambiente limitato, netto quanto
una scenografia teatrale e animato da poche figure.
Benché molte immagini siano riprese all'aria aperta, tuttavia
esse danno una sensazione di soffocamento e di solitudine, seppure
dorata, così come appare dall'habitat fotografico di corte
ove si consuma il tempo libero dei sovrani. Le regole che il ruolo
impone ed esige stimolano un'ansia e una ricerca di libertà
insoddisfatta che si proietta nel modo di fotografare, forse la sola
evasione consentita. I sudditi contemporanei potevano giudicare la
scena delle occasioni ufficiali; noi, i posteri, per merito della
fotografia, possiamo sbirciare il ritratto di famiglia in un interno.

La rappresentazione di momenti d'intimità dei sovrani e della
solitudine che li avvolge crea il fascino suggestivo delle loro fotografie,
soprattutto di quelle riguardanti i principini. Ma anche le riprese
dei momenti di distensione degli altri familiari o di personaggi frequentatori
della corte, a causa della quasi totale assenza di vita intorno, assumono
la dimensione della documentazione di atti e gesti rituali; sembra,
spesse volte, di assistere ad una rappresentazione che si svolge in
un mondo extraterrestre, con attori nei costumi e negli atteggiamenti
rigorosamente datati.
Troviamo allora che se il re vuole andare in bicicletta lo può
fare nell'innaturale spazio della terrazza del Palazzo Reale di Napoli
(7) ed Elena può condurre un'automobile, peraltro nel ridicolo
finale di un insabbiamento, nel solitario, e altrettanto innaturale,
luogo della deserta spiaggia di Castel Porziano (8). Istantanee che
rivelano, tra l'altro, una dose di autoironia e il divertimento che
piccole cose potevano dare.
Riprendere l'avvenimento, cogliere l'attimo nel quale la palla lanciata
dal re alla figlia Iolanda è fermata nell'aria, è l'intendimento,
riuscito, di Elena (9). Il rapporto dei reali con i figli, dei quali
rimangono diverse immagini di un certo interesse, in particolare in
quelle di Elena, rivelano l'affetto che li legava e, a posteriori,
mostrano i segni premonitori del futuro che li attendeva. Come nella
foto (10), ove il piccolo Umberto è solo su di una passerella,
che appare come un piccolo pontile, davanti alle onde del mare, vestito
da marinaretto, con all'orizzonte l'ombra di un bastimento che lascia
una scia di fumo; a dimostrazione della capacità dell'autrice,
la foto è ripetuta (11), ma con un significato diverso e proprio,
tanto da essere prescelta per la cartella del 1911, essendo, senz'altro,
più tecnicamente e simbolicamente rilevante, mentre all'altra,
la n. 10, rimane il sapore diaristico e affettivo.

L'istantanea dell'approdo
della barchetta nella spiaggia deserta, foto n. 12, con i principini
distolti da un richiamo al loro gioco, assume un significato che trascende
l'azione per via dell'atmosfera dell'inquadratura, atmosfera che si
riverbera anche nella n. 13, nella quale, nonostante la posa, l'espressione
dei bambini è quanto mai naturale.
I vari ospiti dei Savoia dovevano trovare un fatto singolare e originale
il venir ritratti dai sovrani-fotografi, con il risultato, forse,
di metterli a proprio agio, fuori dagli obblighi dell'ufficialità.
Così Elena può riprendere i genitori, Milena e Nicola
di Montenegro, insieme al marito all'interno del Quirinale, allestendo
due scene: con la suocera Vittorio appare come sottomesso, sdraiato
su di un tappeto di pelle (14a), mentre con il suocero, ricomponendo
il proprio contegno, concede alla naturalezza e alla stravaganza la
posizione delle gambe allungate (14b).

La visita del 1909 dello zar Nicola II di Russia, registrata in una
passeggiata di caccia a Racconigi (15), e una passeggiata nella carrozza
trainata da due cavalli bianchi (16) sono la prova della mancanza
del normale e frequente imbarazzo che suscita la macchina fotografica
e, inoltre, rivelano la sapiente scelta, per l'illuminazione e le
inquadrature, professionale dei sovrani, derivata dalla frequentazione
di fotografi e dallo studio dei problemi fotografici.
In tutte le fotografie che si riferiscono all'ambiente familiare e
di corte, i sovrani-fotografi non rivelano, se non inconsapevolmente,
i loro sentimenti e le loro fantasie, cioè non si esprimono
per raccontare di sé; semmai, nel gioco della riflessione reciproca
delle immagini, ognuno dei due tenta di scoprire l'altro, ma con grande
riservatezza e discrezione.
Nelle fotografie di paesaggio - qualcuno ha voluto definirle "artistiche"
-, sempre in maniera rigorosamente controllata, sia per ragioni di
educazione che di ambiente, si dispiega un'espressione meno rigida
con notazioni elegiache e quasi poetiche, con accenti di stretta natura
fotografica di luci e ombre, interpretazioni corrette del mezzo fotografico
seppure con molti dei condizionamenti del tempo. In queste opere si
manifesta una più marcata differenza tra i due, anche se non
manca nel diverso modo di fotografare i familiari e gli altri personaggi
di corte.

Rispetto all'epoca, le immagini dei sovrani mostrano un'inattesa innocenza
- conseguenza di non aver la necessità di piacere e compiacere
a tutti i costi e di non doversi scontrare col mercato - e una sensibilità,
quasi una delicatezza, che, pur se rasentano l'oleografico e il calligrafico,
riescono a conservarle genuine. Le fotografie (17 e 18) di Vittorio
e (19 e 20) di Elena possono offrire l'idea sia del loro modo di riprendere
che delle relative differenze. La rappresentazione della vegetazione,
che nella 17 e 19 è quella insediata dall'uomo, mostra in generale
l'ansia di uscire ed evadere dal chiuso mondo dei ristretti spazi
di corte, di distendere l'animo e la vista verso orizzonti lontani,
con la differenza che nell'uno sono rispettati i rapporti geometrici,
anzi cercati - come è dimostrato dalla verticalità dei
tronchi vivificati, in contrasto, dal sentiero curvilineo -, mentre
nell'altra i pini sono estrosi nelle loro linee, ancora più
astratti rispetto ad altre presenze.
Le barche, nella foto di Vittorio (18), completano l'inquadratura
conferendole un sapore nuovo e originale, quasi moderno, equilibrando
le linee fratte della costa riflessa, quindi doppiata, dall'acqua
con le loro sagome nette e pure.
Lo stesso tema viene trattato con animo e sensibilità diversa
da Elena nella 20, nella quale il soggetto prevalente sono le due
barche a vela che, con taglio pittorico, navigano con i pescatori
a bordo, mentre la linea della costa indistinta fa solo da fondale;
l'immagine è più morbida e umana, meno rigorosa e suggestiva
ma più viva.
Questa ricerca della vivacità dell'immagine, Elena la esprime
appieno nel riprendere il fienile incendiato (21), ove compare la
curiosità e, diremmo, quel gusto di registrare l'insolito e
l'eccezionale che è proprio del fotografo, cogliendo l'evento
e l'azione dell'uomo di fronte al fatto inatteso.

Le immagini fotografiche ci hanno restituito le fattezze somatiche
dei sovrani, in particolare quelle del re che ritroviamo in una sorta
di doppio nelle sue riprese fotografiche; sia le dimensioni fisiche
e gli atteggiamenti dell'uomo, sia le sue fotografie hanno la peculiarità
di essere discrete, sussurrate, appartenenti ad un silenzioso e introverso
osservatore. Se si dovesse, con lo stesso metro, esaminare e giudicare
la persona dalla sua immagine, l'opinione su Vittorio Emanuele II
sarebbe di ben diverso genere.

La foto n. 22 del 1860 ce lo mostra entro una scena ridotta all'essenziale
- un tavolo e una poltrona Settecento, il fondale teso e a tinta unita,
il pavimento di moquette a quadroni -, nel tentativo di meglio far
emergere la figura del Re che, però, appare impacciato e goffo
in una divisa troppo larga, con l'evidente imbarazzo per come disporre
la mano destra mentre la sinistra trova il suo appoggio sull'elsa
della sciabola, con il cappello impennacchiato calato sugli occhi
sornioni socchiusi e la giacca a due file di bottoni decorata con
gran numero di medaglie. Ne risulta l'immagine di un re contadino,
che fu però capace di realizzare l'espansione del regno sabauda
e l'unità d'Italia; immagine emblematica del nuovo regno che
doveva avere lo scopo di tranquillizzare la maggior parte dei nuovi
sudditi.

Le citate e succinte considerazioni intorno al mondo fotografico dei
Savoia, parte limitata di quelle che potrebbero trarsi da tutte le
immagini disponibili, sono comunque sufficienti per alcune riflessioni.
La fotografia non può offrirci un quadro completo storico dei
personaggi oggetto della presente analisi, come ogni altro documento
giunto sino a noi, ma presenta il vantaggio di possedere un rilevante
potere evocativo e suggestivo che le dà i connotati della testimonianza
diretta e vera, apparendo priva di elaborazione e interpretazione
successive e consapevoli.
Il mezzo che la fotografia usa non modifica le condizioni ambientali,
non trasfigura la figura, non cambia le azioni e i gesti rispetto
alla capacità di percezione e di conoscenza, così come
verrebbero rilevati nella "visione" dell'esperienza diretta.
Può apportare, al più, elementi integrativi alla descrizione
tradizionale, portata da testimoni non esenti da influenze soggettive,
per verificarla e confermarla, soprattutto quando i personaggi riguardati
sono anche gli autori delle immagini testimoniali.

Nel caso della fotografia documentale, esistono maggiori limitazioni
all'eventuale invenzione dei personaggi, delle situazioni e dei luoghi
cosicché ciò che potrebbe apparire un difetto di espressione
diviene invece un pregio. Come già sostenuto, non deve concedersi
un valore assoluto all'oggettività del mezzo fotografico, dipendente
pur sempre dall'operato umano, bensì attribuirgli la validità
del prodotto di uno strumento registratore poco o niente influente
sull'evento.