L'immagine fotografica,
realizzata dal progresso tecnologico, per un tempo abbastanza lungo
della sua, ancor breve, esistenza, è rimasta ancorata ai canoni
e ai valori della pittura di cui sembrava essere o un semplice strumento
o un utile ed economico surrogato.
Gli autori, non sollecitati culturalmente, non erano riusciti a motivarla
autonomamente né a differenziarla a sufficienza dalla rappresentazione
pittorica e, laddove essa esprimeva una propria originalità
- quale mezzo descrittivo e documentario di eventi, usi, costumi e
ambienti -, appariva alla fine come elemento complementare e integrativo
della narrazione soprattutto cronachistica.
La cinematografia, derivata dalla fotografia al termine del XIX secolo,
al contrario, sviluppava temi e rappresentazioni in maniera originale
e sperimentale avvalendosi della successione delle immagini, recuperando
il valore temporale essenziale per la narrazione; alla successione
di parole si sostituiva la successione delle immagini, e l'una e l'altra
erano aperte a tutte le combinazioni possibili. Il cinematografo continuava
il gioco della narrazione e come questa si prestava alle più
svariate manipolazioni.
L'immagine fotografica, fissa e sintetica per sua natura, doveva,
invece, attendere una profonda e radicale rivoluzione culturale per
prendere consapevolezza dell'assoluta novità che aveva apportato
alla rappresentazione, non essendo più solo opera della mano
dell'uomo ma, come sosteneva Talbot, anche, e soprattutto, della luce
che "disegna se stessa".
Il cinematografo, anche se derivato dalla fotografia, non aveva la
necessità di queste riflessioni riguardo l'immagine; prendeva
atto del nuovo mezzo e delle possibilità che lo stesso offriva,
adattandolo alle regole della tradizionale narrazione. Tale utilizzazione,
quindi, seguiva le innovazioni e le scoperte che si verificavano per
la fotografia in una evoluzione che sarebbe continuata anche dopo
e che ancora continua.
Il drammatico evento della prima guerra mondiale, con le distruzioni
e le conseguenti tragedie umane arrecate, risultò essere l'innesco
per quella attesa rivoluzione e fece emergere, tra gli altri, il movimento
noto come Dada, interprete e protagonista della caduta delle certezze
positivistiche e affermazione, invece, di tutte le incertezze e complessità
del mondo nel quale si manifestava la relatività e la problematica
della conoscenza, della psiche, della morale, della scienza e dell'arte.
Al di là dell'Atlantico gli eventi europei avevano un'eco lontana
e sopita, essendo così diversa la situazione della società
americana giovane nelle istituzioni, acerba e radicale nei valori,
disseminata nel vasto territorio, ma comunque culturalmente ancora
condizionata dal Vecchio Mondo, pur se nuovi germogli originali e
specifici andavano crescendo.
Il flusso, però, aveva una sola direzione e di esso si giovava
solo una limitata parte. Fu la Grande Guerra che dette inizio ad una
piccola e individuale controtendenza molto selezionata e problematizzata,
ma sempre entusiasta, giovane e creativa. In questo scenario e nel
clima di quel momento si colloca Man Ray.

Emmanue Rudnitsky, Emmanuel Rabinovich o Raymond Mandlbaum (il suo
vero nome non ènoto), ovvero Man Ray, nasce nel 1890 a Filadelfia
- Pennsylvania, USA - e dal 1897 vive con la famiglia a Brooklyn,
New York; qui nel 1904 entra nella Scuola media superiore (High School),
di cui ricorda che "al termine dei miei studi avevo una formazione
tecnica completa, seppure elementare, in architettura, meccanica e
calligrafia".
La prima formazione scolastica, tipica della società americana
di allora (ma anche di oggi), consentiva al giovane di poter offrirsi
sul mercato del lavoro ad un livello già superiore alla media
- questa essendo riferita alla prestazione prevalentemente manuale
-, anche se tale livello non dava gli elementi caratteristici di una
istruzione superiore; il ragazzo era quindi in grado di poter affrontare,
da subito, un impiego lavorativo esecutivo.
Nel 1908 si guadagna una borsa di studio per accedere ad una Università
di Architettura ma rinuncia, affermando: "L'aspetto esterno non
mi interessa. Degli edifici mi interessa l'interno. Datemi spazio,
luce e calore sufficienti e al resto penserò da solo",
manifestando da subito l'idea guida della ricerca e della sperimentazione
solitaria che si deve giovare, comunque, di buone e libere condizioni
al contorno.
Negli anni seguenti ha l'occasione di frequentare il Ferrer Center,
che prendeva nome dall'anarchico spagnolo e quindi ispirato da spirito
libertario, ove seguì corsi di disegno e di acquarello che,
ebbe a dire, "erano liberi e gratuiti, come libero e gratuito
era l'amore". Nello stesso tempo pratica la galleria di Alfred
Stieglitz, la "291", nella quale conosce le opere dell'avanguardia
artistica, che lo rendono sempre più consapevole della possibilità
di concretizzare le idee che andava maturando.
Il 1913 rappresenta nella vita di Man Ray una data importante per
tre eventi significativi: vede le opere di Marcel Duchamp e Francis
Picabia - artisti francesi innovatori per eccellenza della cultura
e dell'arte - esposte all'Armony Show e, per il giovane autore, stimolanti
espressioni dell'avanguardia europea; dipinge il suo primo quadro
cubista con soggetto Stieglitz che, tra l'altro, lo inizia alla fotografia
- quadro che opera la rottura, nello scenario americano, dei classici
canoni pittorici e manifesta la gratitudine nei confronti del gallerista
-; conosce e quindi sposa Donna Lecoeur (Adon Lacroix), poetessa di
cultura francese che lo spinge a leggere le opere di Baudelaire, Rimbaud,
Lautréamont, Mallarmè e Apollinaire, rivelando la propria
propensione ad un rapporto, monogamico e fondato sulla comunità
di interessi, nel quale la donna svolge anche il ruolo di ispiratrice.
Si guadagna da vivere, intanto, come disegnatore presso un editore
di carte geografiche e atlanti, lavoro che porterà avanti sino
al 1919, a dimostrazione della serietà che animava qualunque
cosa facesse.
A 23 anni sono già evidenti gli aspetti caratteriali, culturali,
artistici e, in una parola, filosofici che alimenteranno tutta la
sua vita facendolo apparire, esteriormente, come un individuo solitario
ma aperto e socievole, come una persona razionale ma, al tempo stesso,
entusiasta, sensibile, curiosa, passionale e partecipe, come un amico
generoso ma, insieme, attento e critico, come un amante appassionato
ma esigente.
In quello stesso anno assume definitivamente il nome di Man Ray, per
come è testimoniato dal registro matrimoniale, quasi a suggello
dell'avvenuta maturazione.

Lo scoppio della guerra in Europa, nel 1914, lo costringe a rimandare
il viaggio a Parigi, già programmato con la moglie, per la
quale ricopia, in maniera calligrafica, alcuni testi accompagnati
da disegni e litografie, eseguiti da lui stesso, che formeranno un
libro, A Book of Diverse Writings, pubblicato l'anno seguente.
Al fine di documentare la propria pittura, acquista una macchina fotografica,
ma rimane il dubbio che questa fosse la sola esigenza e non, invece,
il germe, che successivamente avrebbe trovato maggior consapevolezza,
di quell'arte meccanica che poneva nella ripetibilità e nella
divulgabilità dell'opera il suo fine; qualcosa di simile alla
teoria del contemporaneo Henry Ford, che identificava il progresso
nell'estensione del possesso e dell'uso di quanto derivato dalle scoperte
e dall'invenzione della tecnica e della scienza.
Il 1915 è l'anno delle mostre di pittura (Memorial Art Gallery,
Montross Gallery, Galleria Daniel) e della pubblicazione del Ridgefield
Gazook, quattro pagine redatte, manoscritte e disegnate da Man Ray,
una sorta di bizzarra gazzetta (assolutamente originale, rivoluzionaria
e anticonformista) di Riedgefield, cittadina che lo ospita e dove,
nell'autunno dello stesso anno, incontra Marcel Duchamp, con il quale
intercorrerà un rapporto che avrà la durata di un'intera
vita e la cui influenza culturale, dadaista, incomincia a produrre
i suoi effetti su Man Ray che, con l'aerografo, l'assemblaggio e la
manipolazione inventiva, crea oggetti assolutamente nuovi che vivono
poche ore per restare, poi, registrati dal mezzo fotografico. E così
egli diviene il protagonista del dadaismo americano, anche se tale
etichetta poco si addice al personaggio, quando lo si riguardi alla
luce di una valutazione globale e storica. In quel momento e sino
al 1921 la sua ricerca percorre e segna il cammino del dadaismo, cioè
di quella libertà di espressione che non intende catalogarsi
per principio.
Gli anni tra il 1916 e il 1919 lo vedono impegnato a conoscere e a
farsi conoscere sia frequentando salotti, dove si riunivano intellettuali
e artisti americani come Demuth, Bellows, Stella, Williams e alcuni
francesi espatriati (quali Duchamp, Picabia, Varèse e Crotti),
sia intervenendo a mostre come il "Forurn Exhibition of Modern
Painters", le "personali" alla Galleria Daniel, la
"Collettiva della Società degli Artisti Indipendenti",
o partecipando alla rivista The Blind Man o pubblicando la rivista
di ispirazione anarchica TNT. Sono anche gli anni in cui produce quadri
e aerografie - The Rope Dance, Revolving Doors, Suicide, La volier
- mentre nell'attività fotografica si limita a riprendere opere
sue e di altri; nel 1919 rompe il rapporto con Donna.
Nel 1920 Man Ray è in corrispondenza con Tristan Tzara e, avvenimento
altrettanto rilevante, realizza delle fotografie con Duchamp con il
quale prova a girare un film tridimensionale (anaglifico) usando due
macchine da ripresa; la collaborazione tra i due è sempre più
stretta tanto che, con Katherine Dreier, costituiscono la "Société
Anonyme Inc", alla cui mostra di inaugurazione Man Ray espone
Lampshade.
Nell'anno seguente partecipa al "15th Annual Exhibition of Photographs"
vincendo un premio di 10 dollari, pubblica con Duchamp New York Dada
e con lui gira il film "Madam la baronne Elsa Von Freytag-Loringhoven
se rase le pubis"; a giugno Duchamp parte per Parigi e finalmente
il 14 luglio - anniversario della presa della Bastiglia, straordinaria
coincidenza - può anch'egli imbarcarsi verso l'Europa aiutato
economicamente dalla propria famiglia e da Ferdinand Howald che, dal
1918 collezionista delle sue opere - in qualche misura, quindi, suo
finanziatore -, diventa da questo momento per l'emigrante Man Ray
il punto di riferimento in patria.
La formazione culturale era avvenuta, le idee guida si erano sviluppate,
le creazioni germinavano e incominciavano a trovare la propria espressione,
l'atmosfera e il "calore" di Parigi dovevano fare il resto.
Duchamp lo accoglie e lo introduce nell'ambiente dei dadaisti presso
i quali, annunciato come il rappresentante del movimento in America,
egli si presenta come "regista di brutti film". Conosce
nell'autunno dello stesso anno Paul Poiret, stilista di moda, e Jean
Cocteau; quest'ultimo ha una larga cerchia di amicizie alla quale
Man Ray viene presentato autorevolmente e dalla quale è accolto
con la curiosità e la simpatia che ispirava la sua provenienza
e, soprattutto, il rappresentare l'avanguardia artistica di oltre
Atlantico.

In quei mesi esegue numerosi ritratti fotografici di personaggi eminenti
del mondo artistico e culturale parigino e internazionale e, tuttavia,
ciò non gli impedisce di realizzare le prime rayografie e di
partecipare alla mostra nella libreria "Six", dove viene
presentato, secondo il modo dada, come "il signor Man Ray, nato
non si sa più dove, commerciante di carbone, più volte
milionario e presidente del trust della gomma da masticare. La sua
evoluzione dimostrerà la prepotente e impellente necessità
di dare espressione alle sue idee, seguendo quello stesso impulso
che lo aveva fatto accostare ai movimenti d'avanguardia, avendo constatato
e considerato che la tradizione classica aveva ormai esaurito la sua
corsa, non essendo più adeguata all'attuale situazione che
era frutto degli eventi e conseguenza della dinamica umana.
Stupisce, però, constatare che, dopo pochi anni di maturazione,
egli vada oltre le esigenze d i mutati tempi e della semplice ricerca
di valori estetici per approdare, quasi da subito, all'idea di una
sorta di materializzazione automatica -che egli chiamava ,,meccanica"
- del pensiero, prodotta dalla luce, non mediata da alcun mezzo o
strumento. La sua concezione oltrepassa persino l'attuale significato
del "virtuale", con il quale si raggiunge una grande possibilità
espressiva ma, pur sempre, attraverso la complessa tecnologia e la
conoscenza informatica. Le rayografie non richiedono mediazioni materiali,
la loro realizzazione avviene solo per opera della luce.
Così il rivoluzionario silenzioso ed educato, civile e insieme
ironico, simpatico e ben accetto da chiunque, pacifico e discreto,
vanitoso ma modesto, conquista Parigi.
Man Ray è, infatti, il tipico esempio dell'artista la cui opera
e vita non sono classificabili né catalogabili entro alcun
movimento o circolo; questi, infatti, tendono a conformare chi ne
fa parte a regole, prassi e comportamenti rispondenti a schemi sociali
e culturali tipici e tendono, inoltre, a definire ruoli e riferimenti
gerarchici. L'artista non ama, per sua natura, tali lacci ma, come
qualunque altro uomo, è immerso nel suo tempo, nel suo ambiente
e, quindi, nella cultura del tempo e dell'ambiente. E per non essere
un visionario sradicato dal contesto umano ha la necessità,
comunque, di riferirsi ad un qualsivoglia movimento scegliendo, però,
tra quelli possibili, contesti maggiormente congeniali alla propria
visione o, per lo meno, più stimolanti e vicini. La formazione
dell'uomo e dell'artista attraverso il cubismo, l'astrattismo, il
dadaismo e il surrealismo, e l'ambiente di Parigi - che per lui si
identificava nel suo studio e nei cafés, poco o quasi affatto
interessandogli la città e il paese - ma anche, per altri versi,
quello di New York, hanno rappresentato stimoli, occasioni, supporto
- a favore e contro - delle idee che in lui si formavano.
La rappresentazione non è oggettiva ma neanche soggettiva,
essa è un'altra cosa operata dalla qualità, punto d'incontro
tra il razionale e l'irrazionale, la luce e l'ombra; la rappresentazione,
l'immaginazione, è libera, è creazione che deve essere
diffusa, come bene comune, e tornare ad essere di chiunque secondo
una modalità priva di altre mediazioni. Le rayografie si avvicinano
a tale concetto: l'oggetto, la luce e l'autore operano l'atto creativo
assoluto, libero, essenziale e vero.
La ricerca appassionata è, allora, di "come fare"
e non di "cosa fare", di come superare il medium e dare
forma all'idea. Così lo stesso Man Ray sintetizza: "Se
questo desiderio è sufficientemente grande, il modo di realizzarlo
viene da sé. In altre parole, l'ispirazione, e non l'informazione,
è la forza che genera ogni atto creativo". Tutti i ritratti,
i nudi, gli oggetti e le costruzioni di oggetti, le manipolazioni
con la luce, sono la creazione dell'altra cosa, autonoma, libera,
riproducibile seppure unica e originale.
L'incontro, la conoscenza e la convivenza con Kiky rappresenta un
altro tassello del mosaico culturale, artistico e umano dell'Artista.
La sensibilità di questa donna di origini popolari educatasi
al seguito delle sue frequentazioni nel mondo artistico parigino del
dopoguerra, colmava la solitudine dell'uomo e dell'esule, anche se
volontario, e apportava quella pienezza che sa dare la dedizione più
completa, e, inoltre, generava nuovi stimoli che si trasfondevano
nelle opere che la vedevano come soggetto.
Nel 1922 ritrae, tra gli altri, Gertrude Stein, George Braque, James
Joyce, Jean Cocteau, Marcel Proust sul letto di morte; in seguito
dirà: "nel 1923 ero un fotografo affermato", e noi
possiamo aggiungere che era un artista affermato.
Le mostre di pittura e di fotografia, le pubblicazioni, i films e
tutta la sua attività si sviluppano intensamente e incessantemente
finché, nella primavera del 1927, approda alla Galleria Daniel
di New York dove espone "Recent Paintings and Photographic Compositions".
Sino al maggio del 1940 rimane a Parigi, continuando a produrre opere,
a sviluppare idee: in una parola, a creare.
Alla fine degli anni Trenta, con il modificarsi del clima politico
e sociale, nell'addensarsi di nubi minacciose sull'Europa da lui avvertite,
il suo umore muta ed è portato a considerare la fotografia,
specie quella di moda, come un ripetitivo mestiere e a riversare nella
pittura tutte le sue ansie e angosce.

La guerra e i tedeschi sono alle porte, lascia Parigi e torna negli
Stati Uniti. Quando la nave che da Lisbona lo riportava nella sua
terra d'origine stava per raggiungere il porto, al sicuro e lontano
dalla tragedia che stava incombendo sull'Europa, fu "sopraffatto
da un senso di profonda depressione. Lasciandomi alle spalle venti
anni di sforzi ininterrotti provai la sensazione che dovessero tornare
i giorni delle mie prime lotte ... ".
Famoso in Europa, la sua produzione artistica era conosciuta da pochissimi
negli Stati Uniti, da coloro i quali avevano apprezzato le sue fotografie
di moda su Harper's Bazar e su Vogue; per Man Ray, autore di fotografie
così innovatrici e raffinate, c'era un futuro assicurato e
promettente, mentre per quello di fotografie d'arte e di Arte le prospettive
non erano delle migliori. Dovette lottare per il resto della sua vita
per avere in America il pieno riconoscimento del suo stato di "artista".
Ora gli "immigrati" che destavano l'interesse e la curiosità
a New York erano i francesi Duchamp e Breton o lo spagnolo Dalí,
non certo "l'americano di New York". Questa considerazione
non gli permetteva di vivere a New York; scartata New Orleans, città
americana dall'atmosfera francese ma priva di un contesto stimolante
e gratificante, restava Hollywood, immagine ed emblema dell'America
del cinema, cioè di quella America dei sogni dove, però,
i sogni potevano avverarsi.
Inizialmente è portato a ritenere che vi fosse per lui, come
era avvenuto per Buñuel e Fritz Lang, uno spazio da occupare,
forte come era delle sue precedenti esperienze. Ma quello di Hollywood
non era il cinema della sperimentazione e delle idee; rendendosene
conto, nell'Autobiografia così scrive: " ... ho messo
in disparte la cinepresa, sapendo che il concetto di cinema è
nettamente in contrasto con quello che l'industria e il pubblico si
aspettano".
Così, in quel periodo, si dedicò quasi interamente alla
pittura nella quale e con la quale esprimeva tutto il suo disagio
di "estraneo" del suo tempo e di quei luoghi, nonché
le ansie e le angosce del futuro adombrate dalla nostalgia del passato.
L'attività silenziosa di Parigi diviene negli Stati Uniti loquace,
scaricando tutte le sue frustrazioni nella sua prosa paradossale e
provocatoria.
La fotografia risulta, e tale la considera, quasi esclusivamente una
fonte di reddito; ma gli "oggetti di affezione", un ritorno
ai motivi dadaisti e surrealisti, rivelano ancora una volta la carica
creatrice di Man Ray nell'evidenziare il "mistero delle cose".
Nel 1947 il suo ritorno a Parigi, con la nuova moglie Juliet, gli
consente di ritrovare, con insperata fortuna, stampe, disegni, fotografie
e quadri, ma soprattutto ritrova se stesso e si sente rinascere.
Tornato negli Stati Uniti, la vecchia ritrovata produzione e la nuova
ripetizione-variazione di temi già trattati, costituita da
pitture e composizioni di oggetti, gli consentono di partecipare a
mostre dedicate al dadaismo e al surrealismo.
Negli anni Cinquanta e successivi, la sua biografia è un rosario
di mostre e apparizioni in tutto il mondo che, ormai, lo ha consacrato
"grande artista". E tale egli fu.
Così - se è vero che l'immagine descrive, cioè
esprime, e la parola racconta, cioè spiega -, Man Ray riuscì
a legare l'immagine di oggetti riuniti e accostati al titolo dell'opera,
così realizzata, a sua volta fatto di parole riunite e accostate.
"Dipingo quello che non riesco a fotografare, qualcosa che viene
dall'immaginazione o da un sogno o da una pulsione dell'inconscio.
Fotografo le cose che non intendo dipingere, cose che esistono giá".
Al giorno d'oggi verrebbe considerato un creativo a tutto campo, pur
se le sue immagini fotografiche restano le opere più originali
e profonde anche oltre la considerazione che aveva di esse.
L'anno prima della sua morte è a Roma per presenziare alla
mostra antologica al Palazzo delle Esposizioni dal titolo "Man
Ray, l'occhio e il suo doppio". Giovanni Semerano, direttore
de Il Fotogramma, riuscì in quell'occasione ad intervistarlo
in esclusiva per il giornale Il Tempo, intervista pubblicata nell'edizione
del 24 luglio 1975 e che così l'Artista conclude: "L'individuo
fa parte dell'opera, l'individuo è il più forte e la
massa segue sempre come le pecore. Io non cerco ma trovo. Io immagino.
La libertà e il piacere sono le cose che cerco nell'arte. Il
lavoro non è mai tale quando esso è espressione delle
proprie idee".
Il 18 novembre 1976 si spegne a Parigi. Non poteva essere diversamente,
così doveva essere. Parigi era per lui il luogo che aveva,
negli anni della sua giovinezza e delle prime esperienze artistiche,
tenacemente sognato, che poi lo aveva accolto e formato, del quale,
una volta tornato nel suo Paese, aveva la più lacerante nostalgia.
Non luogo geografico, dunque, ma il territorio dove l'uomo trova l'atmosfera
che alimenta la propria creatività, lo fa sentire vivo e libero,
attore e spettatore, insieme, della rappresentazione della vita.
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