"Se i meridionali
avessero avuto a che fare con i Longobardi ... ", abbiamo sentito
ripetere in questi anni da esponenti politici, economisti, imprenditori.
I quali intendono dire che, se avessimo acquisito l'antropologia culturale
longobarda, magari con un pizzico di lezione comportamentale celtica,
i "terroni" sarebbero "altro" da quel che poi
sono stati e sono, pigri sudditi al riparo dell'ombrello assistenziale
statale, incapaci di promuovere iniziativa privata e imprenditoria,
indotto, benessere locale. Niente è più duro a morire
del pregiudizio. Soprattutto quando è radicato nell'ignoranza
(e talora nella distorsione) della storia.
C'è stato un periodo, infatti, intorno all'XI secolo, in cui
il Sud d'Italia è stata l'area più in auge in Scandinavia.
Non a caso, la Scandinavia: gli studiosi sono ormai d'accordo sulla
tesi che i Longobardi siano giunti dalla Svezia, essendo originari
della terra dei Vinnili. Erano principalmente artigiani che, dopo
aver assimilato impulsi artistici durante le loro peregrinazioni,
accumularono un bagaglio di esperienze che poi svilupparono quando
fecero ritorno nel paese da cui si erano allontanati, dopo alcuni
secoli di assenza. E' dall'artigianato (che sconfinava allora nell'arte)
che bisogna partire, per analizzare l'influenza che i Longobardi hanno
avuto in Italia e nel Sud, e per individuare i "lasciti"
che nelle aree meridionali costoro hanno innestato nei riti, nei costumi,
insomma in quella che, sia pur genericamente, viene definita, appunto,
l'antropologia culturale di una terra.
Dunque, se l'arte carolingia erige il popolo dei Franchi al ruolo
di precursore del Rinascimento, non si può disconoscere che
questa sia stata preceduta, e pertanto è in un certo modo scaturita,
dall'arte longobarda, o lombarda. Risale infatti alla bravura dei
Longobardi il manufatto artigianale che ha per motivo conduttore la
scultura a intreccio che venne poi ripresa dall'arte carolingia. Per
quel che riguarda l'architettura longobarda, essa ha espresso gusti
prettamente nordici e scandinavi nella corte di Carlo Magno ad Aquisgrana.
E' proprio nella corte di Aquisgrana che, scaduto il latino classico,
si dà vita ad un nuovo impulso che in un certo qual modo anticipa
le correnti culturali diffuse poi in special modo nel Mezzogiorno
d'Italia e a Napoli da Federico II.
E' soprattutto tra l'XI e il XII secolo che riaffiora l'esistenza
di un filo diretto tra il Sud d'Italia e la Scandinavia. E' quanto
emerge dalla lettura di uno studio che potrebbe gettare nuova luce
sul mistero della provenienza delle opere architettoniche di stile
romanico esistenti nella regione Scania, nel Meridione della Svezia,
costruite in un'epoca in cui l'area era dominata da sovrani danesi.
Fu il re Canuto il Santo (1040-1086), assassinato nella cattedrale
di Roskilde e canonizzato nel 1101, a far costruire la chiesa di Lund,
la città universitaria situata a pochi chilometri a Nord di
Malmöe, quasi di fronte a Copenhagen. Canuto aveva sposato Adele,
contessa delle Fiandre, la quale, rimasta vedova, si unì in
seconde nozze con Ruggero Borsa, figlio di Roberto il Guiscardo e
di Sighelgeita di Salerno. Le loro nozze ebbero luogo proprio a Salerno,
ove il principe normanno viveva prima di ricevere il Ducato di Puglia
e Calabria, dopo la morte del padre e la partenza nel 1096 del fratellastro
maggiore, Boemondo, per la prima Crociata.
Nelle vene di Adele scorreva realmente il sangue più blu d'Europa,
dal momento che poteva vantare di discendere da almeno tre rami differenti
dal sovrano che era l'idolo dell'epoca: Carlo Magno. Va inoltre tenuto
presente che il fratello di Canuto, Enrico, detto il Benefattore,
divenuto re di Danimarca, effettuò nel 1098 un pellegrinaggio
a piedi, ampiamente descritto nella saga islandese di Markus Skeggjason
(morto nel 1197), dal titolo Eriks Drapa. Il sovrano, raccontano le
cronache islandesi, dopo aver raggiunto Venezia, si era recato in
visita alle grotte di San Michele, a Monte Sant'Angelo, sul Gargano,
poi a Bari, dove aveva ricevuto in dono alcune reliquie di San Nicola.
Il matrimonio tra Adele e Ruggero è un episodio trascurato
dagli storici, e che invece è importante per far luce sui fenomeni
e tradizioni che spesso sembrano inspiegabili. Uno di questi può
essere considerato, appunto, la cosiddetta arte romanica, che trova
in Puglia espressioni di altissimo livello. Non va trascurato, in
questo contesto, il fatto che Salerno non è lontana da Benevento,
sede dapprima dei duchi, poi dei principi longobardi, che penetrarono
nella regione pugliese attratti, in un primo momento, dalle ricchezze
custodite nelle grotte di Monte Sant'Angelo. Essi, dunque, furono
dapprima distruttori, razziatori; e solo in un secondo momento sostenitori
del rilancio economico e sociale della Puglia.
L'architettura alto-medioevale italiana passa dalle mani dei vecchi
maestri romani a quelle dei Longobardi, che la trasformarono radicalmente.
Essi furono infatti coloro i quali determinarono il sorgere e il definirsi
del cosiddetto "stile romanico", che ha a che fare con i
Romani quanto il "gotico" ha a che fare con i Goti.
Accanto alla basilica di origine romana, dapprima centro commerciale,
sede giudiziaria o anche sala imperiale, che allora aveva fatto nascere
l'aula ecclesiale tipica, i Longobardi svilupparono un altro tipo
di edifici, quelli a torre. Si trattò di una novità
assoluta in campo architettonico, in quanto né i Romani né
i Greci avevano conosciuto torri erette a scopo cultuale. Oggi noi
siamo portati a considerare il campanile come un luogo dal quale si
può avere un'ottima vista, costruito per far sentire anche
in lontananza le campane o per darci la nozione del trascorrere delle
ore. Niente di più sbagliato, osserva Jürgen Misch. I
nostri campanili furono introdotti nell'architettura occidentale proprio
dai Longobardi, che però non ne hanno la paternità:
"Il loro illustre albero genealogico affonda le sue radici in
un passato ben più remoto, che annovera come prototipi fondamentali
quelle strutture megalitiche, nate in piena preistoria, e che prendono
il nome di menhir, pietre monolitiche erette, che spesso raggiungono
i cinque metri di altezza. Anche gli obelischi si possono considerare
come appartenenti allo stesso ceppo, unitamente alle colonne isolate
(Irmensa ülen) dei Sassoni e di altre tribù germaniche".

Quest'origine primordiale delle torri sacre ci apparirà ancora
più intrigante se consideriamo l'altra grande novità
introdotta dai Longobardi in architettura: la cripta. Con questo nome
non si deve intendere l'ambiente destinato alle sepolture, sotto l'altare,
bensì quel luogo sotterraneo e segreto, che durante l'epoca
contrassegnata dallo stile gotico si ampliò moltissimo, perdendo
però nel contempo il suo originario valore cultuale. Noi non
abbiamo oggi alcuna prova di quanto in essa si doveva svolgere, ma
in ogni modo non possiamo non vedervi un corrispettivo "femminile"
della torre. Con ogni probabilità tali ambienti avevano a che
fare con l'antico culto per i serpenti, diffuso tra i Longobardi e
testimoniato a Benevento fin sulle soglie del IX secolo. Sempre da
Benevento e da Milano ci vengono poi reperti bronzei decorati con
motivi anguiformi, risalenti a tempi antichissimi, almeno nella gran
parte dei casi. Inoltre, nell'arte longobarda il serpente ebbe sempre
un valore simbolico altissimo. Esso non ha comunque nulla a che vedere
con le torri delle chiese, legandosi piuttosto alle origini stesse
dell'umanità.
Nella mitologia della Grecia arcaica appare il titano Atlante, il
quale è padrone di un giardino al cui interno le sue figlie
Esperidi vegliano insieme a un Drago (=serpente), di nome Ladone,
i pomi d'oro. Presso i Germani è la dea Idun incaricata di
sorvegliare i preziosissimi pomi: preziosissimi, perché il
loro succo serviva a far rimanere giovani e immortali gli dei. Al
centro della terra si ergeva il possente Albero dell'Universo, il
frassino Yggdrasils, le cui radici rode il drago, ovvero il serpente
Nidhöggr.
Anche la Bibbia dice: "E il Signore Iddio piantò un giardino
nell'Eden... e al centro pose l'Albero della Vita e della Conoscenza
del Bene e del Male... ed il Serpente era il più astuto di
tutti gli animali della terra". Nella cultura degli Indiani Delaware
esiste la tradizione di un'Età dell'Oro che avrà fine
allorché gli uomini adoreranno un serpente, mentre dai manoscritti
maya apprendiamo che ci sarà una colossale catastrofe cosmica
" ... quando dal Cielo piomberà sulla Terra il Grande
Serpente". La divinità principale degli Atzechi era Quetzalcoatl,
che nella loro lingua significa "Serpente Piumato". Assai
simile ad esso è il Serpente Volante dei Cinesi, chiamato anche
"Drago dei Cieli".
Come si vede, pur con aspetti diversi, si tratta fondamentalmente
dello stesso mito, comune ai Cinesi e ai Sumeri, così come
ai Germani e agli Indiani d'America. E ciò sta a testimoniare
della sua origine archetipica. Allo stato attuale, sostiene Misch,
"non abbiamo alcun dubbio sulla derivazione di questi miti: il
pomo, l'albero, il serpente, come scrive F.B. Long, sono solo i simboli
di un più grande e tremendo arcano". I Longobardi furono
condotti dal loro naturale spirito di tolleranza a tentare una conciliazione
del nuovo credo con il vecchio, mediante un'operazione culturale assai
feconda, che rifondò dalle radici la loro stessa spiritualità.
Dall'Italia settentrionale questa nuova concezione del mondo si irradiò
in tutto l'Occidente e fu poi conosciuta come "spiritualità
romano-germanica".
Merito indubbio dei Franchi fu quello di non interrompere questa spiritualità.
Infatti, dopo la caduta del regno longobardo, furono lasciate in vita
la sua organizzazione e la sua cultura. Persino i vari duchi longobardi
poterono conservare per molti anni ancora le proprie funzioni e il
proprio prestigio, perché l'apparato statale dei Franchi si
affermò in tempi e modi assai graduali. L'opera iniziata non
fu dunque interrotta. Essa anzi continuò a produrre splendidi
risultati, poiché i vincitori furono in realtà a loro
volta vinti dai Longobardi in campo culturale.
Contemporaneamente, nelle città dell'Italia settentrionale
si sviluppava una nuova e più alta nobiltà, assieme
a un ceto dominante di estrazione cittadina e aristocratica insieme,
all'interno del quale, ancora nell'XI secolo, i nomi erano per quattro
quinti longobardi, come si nota dalla trasformazione di certi nomi
propri (Alberich diviene Alberico o Alberigo, Roderich diviene Roderigo
o Rodrigo, ecc). Nella ricca ed orgogliosa "borghesia" prendono
piede in quest'epoca anche conflitti razziali; tuttavia, sono confermate
largamente le ipotesi di un rigoglioso sviluppo economico e civile
nel cui ambito si trovano ad acquistare un peso determinante gli elementi
di origine italiana. Questo impetuoso sviluppo delle città
si ha quasi esclusivamente nei territori che furono del regno longobardo,
mentre a Roma e nell'Esarcato bizantino esso si ridusse a poca cosa.
Nessuna prova comunque testimonia della vivacità culturale
delle città dell'Italia centrale e settentrionale in modo più
netto e inequivocabile della nascita che vi si ebbe delle prime università
d'Europa. Quando nel 1303 fu fondata l'Università di Roma,
nel corpo di quello che era stato il regno longobardo ne esistevano
già dieci, mentre al di là delle Alpi se ne contavano
solo tre: Parigi, Oxford e Cambridge. Possiamo dunque affermare senza
esagerazione che la culla della scienza e della cultura occidentale
all'epoca fu proprio l'Italia settentrionale. Da qui partirono gli
impulsi vivificatori dell'intero Medioevo europeo; qui trovarono le
loro radici esperienze i cui sviluppi si rivelarono poi di fondamentale
importanza. E non si può disconoscere che furono proprio i
Longobardi a promuoverli e a sollecitarli.
Ebbe il nome di "Longobardia minor". Fu ducato molto esteso,
comprendente la zona interna della Campania, il Molise, la Marsica,
parte dell'Abruzzo, parte della Puglia (dapprima fino all'Ofanto)
e il cosiddetto Bruzio Superiore. Geograficamente decentrato, lontano
dal potere centrale, il Ducato di Benevento godette di particolari
privilegi, quali quello di una zecca autonoma, e coltivò sempre
tendenze centrifughe, malgrado gli sforzi di controllo da parte dei
re. Con l'avvento al potere di Arechi II, queste tendenze si accentuarono.
Il programma autonomistico del duca era già in atto ancor prima
della caduta del regno longobardo nel 774, a seguito della quale Arechi
trasformò il Ducato in Principato e assunse il ruolo di erede
e difensore della nazione longobarda contro Carlo Magno.
Il modello era pur sempre l'Impero; la sua corte ricalcava quella
bizantina. I cronisti ce la descrivono al tempo dell'arrivo degli
ambasciatori di Carlo, che rimasero stupefatti di fronte al lusso,
al cerimoniale messo in atto dal duca-principe, il quale aveva voluto
fra l'altro che i suoi ritratti fossero appesi nelle chiese, al modo
di quanto accadeva a Bisanzio. Dopo di lui, i successori si volsero
alla sua opera nell'intento di imitarla. Lo spirito indipendentistico
della Longobardia minor si sintetizzò visivamente in una costruzione,
a Benevento: Santa Sofia, eretta nell'area del Sacrum Palatium (il
Palazzo ducale), che richiamava già nel nome la celebre chiesa
costantinopolitana di Giustiniano I. Cappella palatina, e nello stesso
tempo chiesa di Stato, accolse ad opera di Arechi, col chiaro intento
di dar vita ad una coscienza religiosa "nazionale", fortemente
colorita di elementi dinastico-cortigiani, le reliquie di dodici martiri
e santi locali, da molti secoli oggetto di culto nell'Italia meridionale.
Seguì, infine, la "traslatio" di San Mercurio, uno
dei sei grandi santi militari bizantini.
Ad Arechi e alla sua opera politica fu strettamente legato il più
grande intellettuale dell'epoca, il "gramaticus" Paolo Diacono,
l'autore dell'Historia Langobardorum, che lasciò un'impronta
profonda nella rinata abbazia di Montecassino, dove diede impulso
ad uno "Studium" che fu uno dei centri culturali più
vivi d'Italia per molti secoli, dove si trascrissero i codici con
la cosiddetta "scrittura beneventana", l'unica che resistette
alla riforma della scrittura attuata da Carlo: un conservatorismo
collegato alla necessità della difesa dell'autonomia politico-culturale,
contro l'invadente egemonia carolingia.
Riassumendo: la dominazione longobarda, estendendosi su quasi tutta
la penisola, creò paradossalmente una sorta di unità
sotto un'occupazione straniera. Non durò moltissimo, perché
i Franchi già premevano ai confini, contendendo le ricche province
italiche ai sovrani longobardi. Durò più a lungo, quel
dominio, proprio a Sud, dove imposero le loro leggi e soprattutto
i loro costumi.
Ora, ritornando alla domanda iniziale, se cioè il Mezzogiorno
d'Italia avesse conosciuto un dominio longobardo e assorbito un'antropologia
politica e culturale longobarda, e stabilito che l'ha conosciuta e
assorbita, emerge un secondo, inquietante quesito: dobbiamo ammettere
che esista nei popoli un atavismo storico, parallelo a quello dei
singoli individui?
Certamente l'Italia, sottomessa per secoli ai più diversi invasori,
ha risentito di varie influenze; ma è opinione diffusa - e
per tanti versi suffragata da indizi e prove - che quella dei Longobardi
fu forse più profonda e più duratura, prolungandosi
anche dopo il loro dominio effettivo con talune usanze ad essi proprie,
e di effetti perversi: come i "giudizi di Dio", sia quelli
che tendevano a dimostrare l'innocenza o la colpevolezza di un accusato,
sia quelli che - sotto forma di duelli - riconoscevano nel vincitore
colui che si trovava dalla parte della ragione.
Il duello, ripreso verso l'epoca della cavalleria con nuove norme
(per esempio, quella delle armi uguali tra i due contendenti), si
irradiò in seguito, tramandandosi in tutta Europa, fino a un
passato assai recente, sia pure perdendo la sua caratteristica originaria
di giudizio divino, per divenire una sorta di vendetta o di riparazione
tra privati. Oggi anche il duello è uscito dal costume civile.
Ma perdurano, soprattutto nell'Italia meridionale, le "vendette
a catena", che gruppi di famiglie nemiche perpetuano con l'uccisione
alternativa di membri dell'una e dell'altra parte in causa.
E qui si rimane perplessi quando, leggendo sulle cronache dei giornali
fatti del genere, si pensa alle radici oltremodo lontane di questa
barbara consuetudine, che ricorda fin troppo da vicino die Fehde,
la faida, che tanta importanza aveva per le leggi longobarde e che
può essere definita la vendetta che l'offeso era tenuto ad
esercitare sopra l'offensore. Ma poiché allora questi a sua
volta diveniva l'offeso, era tenuto a continuare la serie delle vendette,
perpetuandole così, alternativamente, nel tempo.
E' necessario ricordare che per i Longobardi la faida non era una
semplice consuetudine, ma un dovere sacro, tramandato di padre in
figlio insieme con l'eredità. In mancanza di eredi diretti,
essa si estendeva ai congiunti fino al settimo grado. Si può
anzi dire che la faida regolava le successioni, dalle quali erano
escluse le donne e i bambini, i quali, non potendo fare uso delle
armi, non erano in grado di esercitare vendette di sorta. Le eredità
passavano direttamente a colui che, per vincoli familiari, aveva l'obbligo
e la possibilità di praticare le vendette tramandate dagli
avi.
La conversione dei Longobardi al Cristianesimo, nei primi anni del
secolo VII, indusse a un ripensamento, che culminò nel 644
nel celebre "Editto di Ròtari": il quale, tenuto
conto dei crudi costumi dei popoli "germanici", fu uno dei
sovrani più illuminati dell'Alto Medioevo. In una sorta di
codice, Ròtari raccolse tutte le leggi e le usanze dei Longobardi,
inserendo tra esse qualche reminiscenza del diritto romano, e, quanto
alle faide, propose, invece dell'uccisione membro per membro, offesa
per offesa, le cosiddette "composizioni", vale a dire un
compenso in denaro o in altri beni che alleviasse il danno dell'offeso
e ne disinnescasse l'impulso alla vendetta.
Nelle composizioni, i prezzi concordati tra le parti divenivano leggi
e abolivano la prosecuzione della faida. Il codice di Ròtari
contiene una lunga lista delle diverse offese che potevano colpire
le persone o le sostanze altrui, con i prezzi delle rispettive composizioni.
Il valore corrispondente alla vita di un uomo libero si chiamava Wergeld,
o, in italiano, guidrigildo.
Fin qui ci accompagnano le conoscenze storiche, e molto ci aiuta a
capire il testo fondamentale di Paolo Diacono. Ma dopo? Come e quanto,
ad esempio, venne applicata la legge voluta da Ròtari? E d'altra
parte, era sufficiente una legge per sradicare un costume che, in
virtù del suo carattere di dovere sacro, faceva vibrare le
corde più profonde nell'animo di un popolo? E di un popolo
divenuto cristiano da poco, con una di quelle conversioni collettive
imposte dai sovrani dell'Alto Medioevo che non escludevano la nostalgia
delle credenze ancestrali da parte della gente comune?
Qualcosa di più intimo e radicato continuò evidentemente
a legare i Longobardi a questa loro tradizione, nonostante l'Editto
di Ròtari; qualche cosa che, dopo quattordici secoli, stranamente
sopravvive nell'inconscio delle popolazioni tra le quali essi passarono,
proprio restandovi più a lungo, e dunque lasciando la propria
impronta duratura.
Ed è un pensiero, questo, che sgomenta, perché mostra
il sopravvento di una componente emotiva e crudele sulle qualità
civili e nazionali del Sud d'Italia.
Pura e semplice suggestione? Non proprio, o non del tutto. Perché,
fra le tante usanze portate più tardi da altri invasori, arabi,
normanni, francesi, spagnoli, proprio questa norma, la più
barbara di tutte, riaffiora ancora oggi in un mondo ormai così
completamente diverso da quello medievale? E quando l'unico tratto
comune tra quel lontano passato e la realtà attuale è
proprio il Cristianesimo, che ha mitigato e ingentilito tanti altri
aspetti della vita di allora, e che ha tentato inutilmente di far
rientrare nella memoria storica anche questo, fin dal lontano 644?
Sono interrogativi che dobbiamo porci, al di qua della linea di displuvio
fra le due Longobardie. Sono domande che attendono una risposta, nella
speranza di un decisivo progresso della cultura dell'Europa cristiana.