Prima ancora di
Ballando coi lupi, scritto da Michael Blake e portato sugli schermi
da Kevin Costner, c'era stato Inverno nel sangue, di James Welch,
incentrato sulla vita degli indiani in una riserva del Montano e sul
rapporto tra quotidiano e memoria; e c'era stato The indian Lawyer,
che raccontava la vicenda di un discendente dei Piedi Neri, più
esattamente del guerriero Yellow Calf, divenuto avvocato di successo,
difensore dei diritti territoriali di un gruppo di Sioux Ballando
coi lupi, interpretato da Sioux, in realtà narrava una vicenda
di Comanci. Nel 1863, (il 29 dicembre ci fu lo sterminio di Wounded
Knee), gli indiani più lontani dalla civiltà erano proprio
i Comanci, che ai giorni nostri sono pressoché estinti; i Sioux,
e meglio ancora i Sioux Lakota, hanno tuttora una cultura vivissima,
una identità che custodiscono gelosamente, e sono cacciatori
di bisonti, a differenza dei Comanci, come gli Apaches e i Piedi Neri,
insieme con i quali dividevano i territori immensi delle praterie
e quelli delle colline, nel cuore di una "Terra" senza nome,
prima di chiamarsi America. Era esclusivamente e semplicemente "Terra".
Oggi, gli indiani urbanizzati sono poco meno di mezzo milione. Vivono
in condizioni drammatiche, senza quasi piú retroterra culturale,
discriminati, senza potere economico, dunque senza potere politico.
Una forte percentuale è dedita all'alcol, che porta alla follia,
alla reclusione, persino al suicidio. Gli altri, e sono qualche milione,
sono stanziati nelle riserve, dove custodiscono usi, costumi, tradizioni,
la familiarità con la poesia (per motivi storici, mitici, mitologici),
e "la parola che crea, dà origine alle cose che nomina":
perché - dicono - le parole "hanno valore in sé
e per sé stesse. Esse sono ed esprimono il nulla, e dal nulla
si trasformano in essere. Sono create dall'immaginazione e danno significato
e vita alla voce". E questa parola può essere trovata
solo nei poeti, che sono pellerossa; e non negli americani, che per
questo sono dediti, o per lo meno hanno maggior familiarità
col romanzo, con la prosa.
Nel 1868 il governo americano e le tribù Lakota firmarono un
trattato che garantiva ai Sioux la sovranità sulle terre che
abitavano. Ai coloni americani era proibito insediarvisi o attraversarle.
Meno di dieci anni dopo, sulle Colline Nere (Black Hills), sacre ai
Lakota, venne scoperto l'oro. Accadde allora quel che si sta verificando
oggi per gli indios dell'Amazzonia: l'oro attirò torme di avidi
cercatori, di uomini senza scrupoli, di avventurieri pronti a tutto.
Fu allora, com'è oggi, sterminio.
Sulle Colline Nere era il "Cerchio sacro" dei Sioux, il
recinto inviolabile dei loro riti, il tempio dei loro morti, il monumento
ai foro eroi. i popoli Lakota lo difesero per dieci anni, fino al
1890, quando, in un freddo 15 dicembre, venne assassinato il leggendario
Toro Seduto. Allora incominciò l'invasione delle Chiese (cattolica,
presbiteriana, protestante innanzitutto): si volevano cristianizzare
i pellerossa; per i quali, invece, vigeva il principio dei beni comuni
e della generosità, piuttosto remoto dai "valori"
di ricchezza individuale, di proprietà e di divisione di terre
recintate in auge presso le terre dell'Est americano.
Ebbe inizio, allora, la formazione di States nell'Ovest: il territorio
che era stato dei Lakota e dei Dakota venne sezionato: nacquero il
North Dakota e il South Dakota, il Montana, il Wyoming, il Nebraska.
I popoli pellerossa furono costretti ad emigrare, portandosi dietro
donne e bambini, armi e masserize, pelli di bisonte e le profezie
di Toro Seduto e di Alce Nero: se fossero sopravvissuti fino alla
settima generazione, se fino a questa generazione avessero mantenuta
viva, come il fuoco sotto la cenere, la loro identità culturale,
avrebbero potuto ricomporre il "cerchio sacro".

I pellerossa di oggi, quelli che hanno ripetuto per cinque anni il
percorso a ritroso, verso Wounded Knee, sono della settima generazione.
Essi cavalcano cavalli senza selle e senza staffe, perché il
contatto sia diretto con la Terra, e pregano ad ogni passo, e si fermano
dove erano accampati i loro antenati. E ogni giorno è dedicato
ad alcuni uomini della loro Nazione: il primo al bambini; il secondo
agli anziani; il terzo agli ammalati; il quarto alle donne; il quinto
alla Madre; il sesto alla "wolakota", cioè alla pace
e alla comprensione fra gli uomini di tutte le Nazioni; il settimo
a tutti i morti e agli eroi indiani di Wounded Knee e agli uomini
delle prossime sette generazioni. "Con la Cavalcata andiamo indietro
nel passato, per scoprire ciò che abbiamo perso. Questo ci
serve per migliorarci, oggi, per capire il presente e per andare verso
il futuro. Avevamo e abbiamo compassione dell'uomo bianco. perché
non ha una comprensione delle cose e della vita molto profonda".
Così, i Sioux Lakota stanno ricostruendo il foro "cerchio
sacro". E' una conoscenza antica, "che ci viene dalle sorelle
nel cielo, dalla stella del mattino, dalla stella della sera; una
conoscenza che ci ha insegnato a dividere i giorni in giorni rossi,
quelli buoni e giusti, e in giorni blu, quelli in cui perdiamo l'armonia".
Dice la memoria sacra dei Sioux: "Secondo la nostra conoscenza,
vi fu prima un mondo, un'epoca dello spirito; siamo poi passati attraverso
quello che chiamiamo il mondo delle radici, in cui eravamo Wahukta
Oyate, e cioè Nazione delle radici; poi venne il mondo degli
esseri a quattro zampe, in cui siamo venuti su questa Terra sotto
forma di bisonte; infine c'è il mondo di oggi, in cui esistiamo
come esseri a due zampe.
Sono quattro parti della nostra vita che si concluderanno in un quinto
mondo, un mondo nuovamente spirituale. Da qui ritorneremo a far parte
ancora una volta del Tutto". Ballando con l'infinito tempo e
con l'infinito spazio della Terra, del Cielo, delle Stelle. Con l'infinito
della poesia.
Santo schiavista
o eroe?
L'inafferrabile
Colombo
E' probabile che
qualche vascello, prima delle caravelle di Colombo, sia stato buttato
dal caso sulle coste dell'America. Ma nessuno lo seppe o se ne accorse
e il mondo continuò ad essere quello di prima. Viceversa, tra
le date che segnano il passaggio da un'epoca ad un'altra, il 12 ottobre
1492 non è una semplice convenzione geografica, ma un cippo,
uno spartiacque che divide nettamente il Medioevo dall'Età
Moderna.
Non furono né la fortuna, né un uragano a sospingere
Colombo sulla spiaggia dell'isola di San Salvador, nelle Bahamas.
Fu la eccezionale combinazione della sua straordinaria personalità
con la cultura rinascimentale italiana e con la nascente potenza spagnola.
Se il Rinascimento segna la scoperta dell'uomo e del mondo, l'evento
di cui parliamo, a cinquecento anni di distanza, è un capolavoro
rinascimentale, come la Cappella Sistina.
E' vero che Colombo sognava di sbarcare in Oriente, navigando per
Occidente, e alle due del mattino, quando la vedetta della "Pinta"
gridò due volte "Tierra!", non si rese conto di essere
giunto in America, perché all'epoca era impossibile immaginare
un altro continente al di là dell'Atlantico; ma è anche
vero che fu il primo a metter piede su una terra sconosciuta, dove
Carlo V fondò la metà più ricca dell'impero nel
quale "non tramontava mai il sole". E' certo che ad ogni
nuova isola che Colombo scopriva si rafforzava la caparbia convinzione
di aver toccato un arcipelago giapponese, ma è altrettanto
certo che, durante il terzo dei suoi quattro viaggi, comprese che
al di là di quelle isole doveva esserci un altro continente,
o, come scrisse, un "otro mundo".
Ebbe la straordinaria folgorazione quando, giunto nel golfo di Paria,
incominciò a costeggiare il Venezuela e, osservando l'imponente
massa d'acqua dolce che fluiva dai numerosi rami dell'Orinoco, dedusse
che soltanto una grandissima estensione di terra poteva alimentare
un tal fiume. Alla stessa conclusione giunsero qualche anno dopo altri
due italiani, Pietro Martire che coniò la definizione di "Nuovo
Mondo", e Amerigo Vespucci che disegnò le prime carte
geografiche e nautiche dell'America.
Per almeno quattro secoli inglesi, spagnoli e portoghesi non si sono
rassegnati all'idea che Colombo fosse genovese; così ognuno
lo ha ribattezzato secondo la propria lingua. Per negare la italianità
di Colombo sono state inventate storie fantasiose e prive spesso di
qualsiasi riscontro. Si è immaginato persino che fosse un "marrano",
cioè un ebreo spagnolo convertitosi al cristianesimo. Pur di
attribuire un po' di gloria ad altri popoli, si è detto che
fra i novanta ufficiali e funzionari che accompagnarono Colombo nel
suo primo viaggio c'erano un inglese e un irlandese, ma non è
vero: i soli "stranieri" a bordo delle tre navi erano un
altro genovese, un veneziano e un portoghese.
La tenace rivendicazione della "hispanidad" di Colombo da
parte della Spagna nasce dal fatto che il navigatore genovese, diventando
ammiraglio al servizio di Isabella la Cattolica e di Ferdinando d'Aragona,
mutò il proprio nome e cognome in Cristobal Colón. E
Colón si chiamarono i suoi discendenti.
Ciò non deve sorprendere. La scoperta dell'America avviene
nello stesso anno in cui muore, con Lorenzo il Magnifico, il delicato
equilibrio politico della Penisola, e i quattro viaggi di Colombo
- dal 1492 al 1504 - coincidono col periodo in cui incomincia quella
che oggi chiamiamo la "fuga dei cervelli": intellettuali,
artisti, scienziati, politici e affaristi vanno a cercar fortuna fuori
da una patria che ha perso la pace e l'indipendenza. La stesso fanno
i grandi marinai: Verrazzano naviga per la Francia, Cadamosto e Vespucci
per il Portogallo, Caboto per l'Inghilterra. Ma, benché al
servizio degli orgogliosi e suscettibili sovrani spagnoli, Colombo
continuò a restare cittadino di Genova che chiamava "quella
nobile e potente città in riva al mare" e che ricordò
anche nel suo testamento nominando, come esecutore delle sue ultime
volontà, il Banco di San Giorgio.
Colombo si preparò alla grande avventura a partire dall'agosto
del 1476, quando, venticinquenne, approdò fortunosamente sulle
coste del Portogallo. Era a bordo della "Bechalla", un vascello
fiammingo noleggiato dai genovesi, che fu assalito da una flotta francese
e colò a picco. Benché ferito, Colombo si aggrappò
a un remo e venne trascinato dalle correnti a riva.
Sotto l'impulso del principe Enrico il Navigatore, il Portogallo era
all'avanguardia nei viaggi di esplorazione e a Lisbona operava il
maggior centro europeo di ricerca nautica. Bartolomeo, fratello minore
di Cristoforo, già lavorava nella capitale in una "officina"
di carte nautiche. E i capitani coraggiosi che al servizio del Portogallo
si spingevano sempre più a Sud dell'Africa per circumnavigarla
e trovare la via delle Indie erano personaggi leggendari. Ascoltando
i racconti delle loro gesta, Colombo maturò l'idea di arrivare
alle Indie, ma navigando verso Occidente. Si sentiva predestinato
alla gloria, alla ricchezza e alla missione di "portare Cristo"
(come diceva il suo nome) oltre Oceano.
La cultura umanistica che aveva ereditato dalla terra natale e arricchito
in Portogallo era un misto di antiche superstizioni e di nuove conoscenze.
Osservando le fave cavalline o i tronchi di alberi mai visti che le
correnti atlantiche portavano fin verso l'Europa, si era realisticamente
convinto che al di là dell'orizzonte c'era una terra diversa,
ma nello stesso tempo credeva alla favola del Prete Gianni che vi
regnava. Conosceva già "Il Milione", dove Marco Polo
aveva descritto la Cina e accennato alla favolosa isola di Cipango
(il Giappone), forse conosceva il canto di Ulisse nel quale Dante
racconta il "folle volo" dell'eroe greco oltre lo Stretto
di Gibilterra, sapeva come tutti i suoi contemporanei che la Terra
è una sfera.
A Lisbona trovò e studiò le opere dei cosmografi maggiori,
in particolare di Tolomeo che, nel secondo secolo dopo Cristo, aveva
misurato e diviso in trecentosessanta gradi la circonferenza del globo,
anche se si era sbagliato per difetto, perché secondo lui un
grado corrispondeva a 50 miglia marine, e non a 60, come in effetti
è.
La spinta decisiva a tentare l'impresa - peregrinando per anni, prima
di riuscirvi, dal Portogallo alla Spagna e alla Francia - venne al
genovese da un altro italiano, il medico e astronomo Paolo Toscanelli,
che nel 1474 aveva scritto a un amico portoghese perché convincesse
il re a raggiungere, navigando verso Occidente, il Giappone, "fertilissimo
in oro", e la Cina. Aveva accluso alla lettera una mappa con
la quale dimostrava che il viaggio da Lisbona al Giappone era di sole
3.000 miglia, e di 5.000 fino alla Cina.
Venuto a conoscenza della lettera e della mappa, Colombo si mise in
contatto con Toscanelli e ricevette altre informazioni e una nuova
mappa. Ma quelle informazioni non sarebbero bastate a garantire il
successo dell'impresa; per tentarla e riuscirvi, occorreva una fede
rocciosa nell'aiuto divino, insieme con una volontà ferrea,
con un vigile senso degli affari, con l'attitudine al comando e, ovviamente,
con una profonda esperienza marmara. Colombo possedeva tutte quelle
doti, e le perfezionò navigando a lungo sotto la bandiera portoghese,
dall'Islanda alle Azzorre, dall'Irlanda a Lisbona.
L'ammiraglio americano Samuel Eliot Morris, che nel 1942 ha scritto
una monumentale opera sui viaggi di Colombo, dopo averne ripercorso
le rotte, giudica il genovese "il maggior marinaio" del
suo tempo, un'epoca che, oltre ai grandi navigatori italiani, conobbe
quelli portoghesi come Bartolomeo Diaz che doppiò il Capo di
Buona Speranza e sarebbe arrivato in India se l'equipaggio non si
fosse ammutinato, e Vasco De Gama che ci arrivò e vi fondò
la prima colonia del Portogallo.
Nel libro dell'ammiraglio Morris si incontrano spesso espressioni
come "meraviglia che Colombo abbia trovato quel passaggio tra
la scogliera [ ... ]; non si riesce a capire come sia approdato proprio
in quel punto [ ... ]", e simili. La meraviglia nasce anche dal
fatto che i calcoli di Colombo e il "punto" che regolarmente
faceva in navigazione usando i rozzi strumenti del tempo erano sempre
approssimativi o addirittura sbagliati. Diminuendo le già scarse
misure di Tolomeo, si era convinto (o forse lo diceva ad arte per
non spaventare i finanziatori e la ciurma) che il grado fosse addirittura
di 45 miglia marine. Sulla base di questi conteggi, Tokio si troverebbe
dove c'è L'Avana; e infatti Colombo, arrivato a San Salvador,
fu certo di essere sbarcato in Giappone, e si confermò nel
suo equivoco perché aveva stimato la distanza dalle Canarie
in 2.400 miglia, cioè meno del trenta per cento della realtà.
Ma Colombo prima si accaniva sui calcoli errati, poi si affidava al
suo formidabile istinto che aveva affinato nella cosiddetta "navigazione
e stima". Gli esempi sono innumerevoli. Ne citiamo tre: prima
della partenza fece modificare la velatura delle tre famose caravelle,
riuscendo in questo modo a raggiungere col vento favorevole i 10-12
nodi all'ora, una velocità quadrupla della media di allora
e notevole anche per un velista moderno; i pochi navigatori che avevano
osato spingersi oltre le Azzorre erano partiti da queste isole, a
un terzo di strada fra l'Europa e l'America, ma erano tornati indietro
oppure erano scomparsi. Invece Colombo decise di salpare dalle più
arretrate Canarie perché nei suoi viaggi precedenti si era
accorto che a quella latitudine gli alisei soffiavano con buona regolarità
verso occidente; durante la sua terza traversata del 1498-1500, Colombo
aveva avuto ordine dai sovrani spagnoli di non sbarcare a Hispaniola
(oggi Haiti), dove, al posto suo, era stato nominato viceré
il nobile Ovando. Ma, giunto in prossimità dell'isola, Colombo
"sentì" che stava per arrivare un uragano, sebbene
nulla lo lasciasse presagire, e chiese perciò di potersi rifugiare
nel porto di Santo Domingo (che considerava doppiamente suo, sia perché
l'aveva scoperto sia perché l'aveva battezzato col nome del
padre, Domenico). Inoltre, consigliò il viceré di non
mettersi in mare con la sua flotta, come stava preparandosi a fare.
Ovando gli rifiutò il permesso di sbarco e lo derise per le
previsioni meteorologiche. Il risultato fu che Colombo, rifugiatosi
in un altro porto, salvò le sue navi, mentre Ovando perse la
sua flotta.
Fino al 1792, nelle colonie americane il navigatore genovese era semplicemente
ignorato. Da allora, Colombo e il termine "Colombia" designarono
la nuova nazione liberatasi dalla corona d'Inghilterra. A New York,
John Pintard e la Tammany Society furono i registi della prima commemorazione
colombiana. Cento anni dopo, l'Esposizione Colombiana si tenne a Chicago,
diventata la capitale culturale del Nuovo Mondo. A New York le manifestazioni
durarono cinque giorni, con parate notturne, fuochi d'artificio dal
ponte di Brooklyn ad imitazione delle cascate del Niagara, con l'erezione
di un monumento a Columbus Circle.
Non si conoscevano le accuse, rilanciate con grande enfasi dai giovani
storici americani (K. Sale, A. Carpentier, A. Posse, G. Elliot, R.
Means, e via dicendo) di saccheggio, massacri, stupri, sessismo, affarismo,
inettitudine amministrativa? E' difficile sostenerlo.
In realtà, tutto ciò viene considerato poca cosa, e
dunque cosa ininfluente. Prevale il desiderio degli ex sudditi di
Giorgio III d'Inghilterra, diventati finalmente americani, di legittimarsi,
definendo se stesi e dandosi simboli di riconoscimento.
Ricorda John Noble Wilford, autore ella "Storia misteriosa di
Colombo" (pubblicata da poco): "Dal tempo della Rivoluzione,
Colombo è stato trasformato in una icona nazionale, un eroe
secondo soltanto a George Washington". Dopo il trecentesimo anniversario
dello sbarco, si discusse se chiamare Columbia (il termine alla fine
venne circoscritto al King's College e al distretto di New York) l'intero
Paese, rinchiudendosi dietro un totem. "In Colombo - continua
Noble Wilford - la nuova nazione trovò un eroe apparentemente
libero di ogni macchia di complicità con le potenze coloniali
europee. Il simbolo di Colombo deve agli americani una mitologia immediata
e un posto unico nella storia ... ".
Mai, con tale determinazione, il gruppo dirigente di uno Stato aveva
usato la storiografia non solo per ratificare, ma soprattutto per
glorificare il presente. Dall'inizio del XIX secolo, quando pure cominciava
a circolare la documentazione sulla figura di Colombo, e sulle azioni
delittuose (dalla tratta degli schiavi allo sterminio della popolazione
locale) da lui ordinate o avallate, la santificazione del povero marinaio
genovese non ha avuto soste. Nelle sue ambizioni e nell'ampiezza di
orizzonte dei suoi progetti, storici come Washington Irving, Daniel
J. Boorstin, James Russel Lowell ecc., esaltarono le virtù
di cui aveva bisogno la rivoluzione industriale, l'espansionismo coloniale,
le grandi esplorazioni geografiche: la fiducia nel progresso come
motore della storia, la forza di rompere la catena della povertà,
la grandiosità dei programmi.
Questo spartito storico alla fine dell'Ottocento può contare
ormai su una platea più ampia. Colombo diventa un eroe etnico
per compensare la domanda di identità dei milioni di immigrati,
la schiuma della terra del continente europeo, che dopo la guerra
civile americana si riversano su Ellis Island.
Lo storico di Kennedy e del sistema presidenziale, il liberal Arthur
SchIesinger, oggi studioso della ricchezza etnica degli Stati Uniti,
ha reagito aspramente contro gli storici neorevisionisti ai quali
per molti aspetti è assai vicino: "Si falsifica la storia
negando le origini essenzialmente europee della cultura americana".
Gli irlandesi, nel 1882, costituirono a New Haven i "Cavalieri
di Colombo". A questa lobby si deve il Columbus Memorial, fatto
costruire di fronte all'Union Station di Washington. I cattolici francesi
premettero su Pio XI per santificare il navigatore genovese. Gli italiani
raccolsero i fondi per piazzare all'angolo di Central Park una statua
in cima ad una colonna di marmo. Colombo venne dunque celebrato come
il primo degli emigranti in America. Non si potrà più
dire che la storia di questo continente ha avuto inizio con il suo
sbarco (una dozzina di luoghi, da San Salvador all'isola di Concepción,
si contendono questo onore). I libri di testo dovranno essere, da
questo punto di vista, riscritti, tenendo conto che è esistito
un popolo precolombiano al quale si devono restituire un profilo e
un ruolo. Dice l'archeologo Gerard Milanich: "Siamo di fronte
ad una correzione di rotta; dalla celebrazione di Colombo e dal trionfo
della civiltà europea si sta passando ad un nuovo tema: il
popolo che Colombo ha scoperto. Vi sono ormai numerose ricerche che
mettono a fuoco l'impatto avuto sugli americani nativi". Sono
stati per secoli gli ospiti non invitati al banchetto dell'eurocentrismo.
La necessità di una severa contestazione di questa storiografia
dei vincitori non può tradursi nell'accettazione passiva della
storiografia dei vinti. Negli Stati Uniti l'alternativa verte tra
e gran i istituzioni: da un lato c'è il Lawrence Hall of Science.
E' un museo e contemporaneamente un grande centro di ricerca dell'università
di California, a Berkeley, che demonizza platealmente Colombo, screditandone
ogni apporto scientifico e facendone un epigono, ben più feroce,
di Attila e un precursore di Hitler. Dall'altra, c'è il National
Museum of Natural History, di Washington, che ha allestito la più
grande esposizione mai conosciuta sui "Semi di cambiamento",
cioè sul trasferimento di conoscenze scientifiche dal Nuovo
al Vecchio Mondo. Per quanto possa sembrare paradossale, tra Europa
e Americhe non c'è stato un contrasto di paradigmi ideologici
tra civiltà e genocidio, tra progresso e ciclo immobile delle
stagioni. Forse, com'è stato scritto, la realtà dei
rapporti intercorsi fra i due continenti si capisce meglio studiando
gli scambi tra peperoni, paprika, pomodori, patate, fichi d'India,
cavalli, zucchero, mais, uso della tecnica, divisione del lavoro,
e via dicendo. il mondo moderno è nato su queste basi.
Il volto ignoto
della storia
The invisible
man
La letteratura
storica ci illumina poco o nulla sulla vicenda personale di Cristoforo
Colombo. Chi era veramente? Paolo Emilio Taviani osserva giustamente
che di Colombo è stato scritto tutto e il contrario di tutto:
"Si è detto che era un criminale, che era un santo, che
era un donnaiolo, che aveva Preso il voto di castità, che era
un uomo meschino, che morì senza un soldo, che morì
carico di ricchezze". Di Colombo non solo ignoriamo fatti importanti
(Per esempio, gli eventi della sua giovinezza e della prima maturità),
non solo conosciamo poco delle sue vicende private e familiari (la
moglie, l'amante, i figli), ma non sappiamo neppure quale fosse il
suo aspetto fisico. Tutte le raffigurazioni che troviamo nei libri
e nei musei risalgono a un'incisione di Tobias Stimmer del 1575, ritenuta
la più fedele e documentata, sebbene pubblicata 74 anni dopo
la morte del navigatore, mentre i ritratti più famosi, come
quelli attribuiti a Sebastiano del Piombo, a Lorenzo Lotto e a Girolamo
Parmigiano, sono opere di fantasia per le quali i modelli furono gentiluomini
dell'epoca. Perfino la salma di Colombo è al centro di un mistero:
si trova nella cattedrale di Siviglia oppure a San Domingo?
A dispetto di tanta enigmaticità, la figura di Colombo ha ispirato
moltitudini di artisti e di scrittori. Secondo le ricerche di Kirkpatrick
Sale, solo nell'800 e solo in lingua inglese sono state dedicate al
grande navigatore centinaia di poesie, quattordici lavori teatrali,
sette opere liriche e nove romanzi. "Non posso provarlo - dice
Sole - ma sono convinto che Colombo ha eccitato la fantasia degli
europei e degli americani più di qualsiasi altro personaggio
storico, con l'eccezione di Gesù Cristo". Ma tanta dedizione
non ha prodotto quasi nessuna vera opera d'arte: la sola cosa buona,
secondo Sale, è la Sinfonia numero 9 di Antonin Dvorak, "Dal
nuovo mondo", composta per la Mostra Colombiana di Chicago nel
1893.
Di maggiore interesse è forse la produzione narrativa, che
è già notevole come numero di titoli: accanto ad opere
già note (per esempio, "L'arpa e l'ombra", del defunto
Alejo Carpentier, in cui si descrive un immaginario processo di beatificazione
di Colombo da parte di Pio XI che si conclude con una bocciatura per
mancanza di miracoli, oltre che per le malefatte dei "conquistadores"),
oggi figurano alcune novità americane di qualche interesse
antropologico e sociologico, se non proprio letterario.
Michael Dorris e Louise Erdrich (in "The crown of Columbus")
raccontano la storia di una ragazza indiano di oggi, insegnante a
Dartmouth, la quale si imbatte in una lettera inedita di Colombo e
attraverso questa riesce a recuperare una corona che il navigatore
avrebbe regolato a un capo indiano dopo lo sbarco del 1492: un romanzo
archeologico-sentimentale per il quale gli autori avrebbero incassato
la bella somma di un milione e mezzo di dollari. Curiosamente, il
romanzo contiene un grave errore storico: la lettera inedita di Colombo,
che sarebbe stato scritta nell'Isola di Isabela - e dunque dopo la
scoperta del Nuovo Mondo - reca la dato del 28 gennaio 1492, quando
Colombo non era neppure partito da Palos.
Ancora più fantasioso e irreale è"The heirs of
Columbus", dello scrittore "indiano" Gerald Vizenor,
che insegna letteratura "native american" all'università
di Berkeley. Dando credito alla leggenda secondo la quale gli antichi
greci non sarebbero altro che immigrati americani delle civiltà
maya, Vizenor ci presento Colombo come un discendente europeo degli
antichi abitanti della Sierra messicana e guatemalteca. Il suo viaggio
diventa allora non tanto una scoperto, quanto un "ritorno"
alla terra degli avi, nella quale il suo spirito inquieto - disprezzato
dagli europei - potrà finalmente trovare pace. E' un romanzo
bizzarro, che mescola antichi miti tribali e tecniche narrative d'avanguardia
In ogni caso, la grande opera d'arte su Colombo non c'è, ed
è improbabile che venga fuori alla vigilia delle celebrazioni:
non c'è in musica, né in prosa, né nelle arti
figurative. Si potrebbe allora pensare, visto che Kirkpatrick sostiene
che tra Colombo e gli artisti non scocca la scintilla, che sia più
facile la vita dei curatori di mostre e degli storici i quali lavorano
su una materia prima già esistente e più reale. Ma forse
neanche così è. Anche costoro, a quanto pare, soffrono
la sindrome dell'inafferrabilità di Colombo. Restano gli storiciarcheologi.
Che cosa ci diranno di nuovo? Nelle librerie circolano per ora ristampe
o edizioni condensate di biografie colombiane classiche, come quelle
di Morison o di Taviani, e alcuni testi divulgativi, Varie spedizioni,
poi, stanno battendo scrupolosamente i Caraibi, alla ricerca di relitti
che possono ,gettare nuova luce su una vicenda nella quale i fatti
noti sono rimasti sostanzialmente gli stessi per alcuni secoli.
Ma c'è da chiedersi quale differenza faccia stabilire che Colombo
sbarcò sull'una o sull'altra isola delle Bahamas o trovare
le fondamenta di quello che potrebbe essere stato il primo fortino
costruito nel Nuovo Mondo. Alla domando su quale immagine di Colombo
ci verrà imposta nel quinto centenario (eroe? invasore? trafficante
di schiavi?), David Duncan, sulla "Washington Post", ha
risposto che l'assenza di nuovi documenti e la propensione politica
degli studiosi ad evitare giudizi troppo positivi o troppo negativi
ci darà del grande navigatore l'immagine che già conosciamo,
tanto astratto, scolorita e sfocata che non può dirsi neppure
un'immagine. Colombo resterà, come tutti i patrimani dell'intera
umanità, "the invisible man". L'uomo invisibile.
Cioè l'uomo.
Colombiane
& Affari
Genova per
loro
A vevano cominciato
a chiamarle "Colombiadi". Poi qualcuno ha suggerito che
non era il caso, meglio parlare allora di "Colombiane".
E di "Colombiane" si è discusso nei meandri ovattati
del Palazzo, quando si è trattato di "varare" un
programma di celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della
scoperta del Nuovo Mondo. Bene, ci eravamo detti; ecco l'occasione
buono per imparare a spendere con oculatezza i soldi dello Stato,
e a tener lontani profittatori e mestatori e affamatissimi peones
e astuti pezzi da novanta che tenteranno l'approccio alla gran torta
di circa 6.500 miliardi di lire destinati alla commemorazione di un'impresa
che cambiò il corso della storia umana.
Ecco il momento giusto per smetterla di polemizzare con i fustigatori
dei (mal)costumi meridionali, sempre dietro l'angolo, col gatto a
nove code, pronti a menar colpi ad ogni stormire di fronda. Ecco la
possibilità decisiva di far tesoro degli esempi che vengono
dal Nord onesto, sano, produttore, sfruttato, tartassato, ma che ha
perso la pazienza e che non ci sta più al gioco al massacro
del Sud, che rifiuta gli sprechi assistenziali, le truffe, le malversazioni
del Sud.
Doveva partire da Genova la Superba, questo esempio. Così,
almeno, pensavamo. E ci eravamo sbagliati. Non per colpa di Genova,
che si è trovata praticamente a secco, sebbene abbia dato casa,
antenati e natali all'esploratore dell'Atlantico; ma per colpa della
lingua italiana. Genova e noi stessi, infatti, non avevamo fatto i
conti con una di quelle locuzioni in apparenza insignificanti, (e
infatti non significherebbero niente, se ad esse non dessero dignità
di significato coloro che ne sono direttamente interessati), e persino
innocenti, almeno nell'apparenza, che sono i grimaldelli preferiti
dai roditori umani di questa Repubblica. La locuzione in oggetto è
bacino di utenza. Brutta, di per sé. Con quel "bacino"
che sta a metà strada tra un diminutivo e un pudico sinonimo;
con quell'"utenza" che è uno dei peggiori esiti filologici
che abbia potuto darci la lingua madre latina. Ma tant'è: il
bacino di utenza è stato l'asso nella manica, il passepartout
grazie al quale nel nome delle Colombiane si è consumata una
spartizione legalizzata.
Genova celebra Colombo con pochi spiccioli, mentre il bacino di utenza
ha colto al volo l'occasione per portarsi via il malloppo.
Qualcuno ci deve spiegare, infatti, che significato hanno gli stanziamenti
iscritti a favore dello Stelvio, o quelli (arcimiliardari) ci favore
di Brescia e provincia, collegio elettorale del ministro dei Lavori
Pubblici che ha presieduto e diretto la spartizione; o la montagna
di miliardi stanziati in favore delle province lombarde, toscane,
trivenete e persino emiliano-romagnole.
Qualcuno ci deve pur dire quanto è realmente grande questo
bacino di utenza di Genova, e quanto è storicamente, economicamente,
e se vuole anche strutturalmente, rapportato all'austero capoluogo
ligure. Perché a noi non risulta che Brescia rientri nel bacino
genovese, né che Genova tragga utenze da quel di Reggio nell'Emilia;
né risulta che, per far festa a un genovese. si debbo far la
festa alla suo città natale, nel senso di metterla nel sacco,
come se c'entri appena di straforo.
Ma neanche ci risulta che qualcuno abbia mosso un dito, (genovesi
a parte, che si sono moderatamente lamentati); che un opinion-maker
di quelli che ce la fanno vedere senza peli sulla lingua abbia scritto
un solo capoverso; che un corsivista di quelli che considerano le
parole pietre e che lapiderebbero il padre e la madre anche nelle
feste comandate abbia posto mano alla macchina per scrivere e abbia
buttato giù un "incorniciato", magari un po' tisico,
larvale, per tener fede all'immagine di intransigente castigatore
del costume; che un politico, magari di impasto casareccio e di cultura
magliara, abbia attivato la catena di Sant'Antonio dei mass media
per gridare al ladro al profittatore allo sprecone, risvegliando sopite
emozioni in esangui silfidi bergamasche o dimenticati furori dialettici
nei pettinati bocconiani dell'entroterra milanese. Nulla di tutto
questo.
Nulla perché non è il Sud e non si tratto dell'Irpinia.
Nulla perché si tratta del Nord. Nulla perché le mafie
e le loro connessioni sono cose al di qua del muro di Ancona. Nulla
e nulla più. Perché così è. E così
sia.