L'immagine di
un Sud selvaggio e spietato esce drammaticamente ratificata da episodi
di vita istituzionale e di cronaca criminosa al centro dell'attenzione
negli ultimi mesi. Lo scontro tra i magistrati siciliani e le conclusioni
del dibattito al Consiglio Superiore della Magistratura hanno fornito
la rappresentazione di una realtà in cui la legge e la sua
applicazione sembrano ridotte al livello di optionals. I sequestri
di persona testimoniano l'efferatezza di una criminalità che
porta in sé una ferocia primitiva. Le guerre per bande e tra
bande coinvolgono metà Mezzogiorno, e l'altra metà è
terra di conquista di gruppi criminali che si aprono la strada a colpi
di corruzioni, di complicità, di affari e di droga. Di fronte
a questo scenario, torna alla mente la ferma risposta di un parlamentare
giapponese che, alla richiesta di orientare verso il Sud d'Italia
investimenti produttivi, obiettò che l'ipotesi non era neanche
da prendere in considerazione, fino a quando non fosse assicurato
nel Sud una normale condizione di convivenza civile. Sapeva tutto,
quel deputato, su delitti, faide, rapimenti, truffe, omertà
pubbliche e private, connessioni tra criminalità, mondo degli
affari e mondo della politica. E traeva la conclusione che, in fondo,
fosse meno rischioso intraprendere una qualsiasi attività nell'Irlanda
del Nord, dove la vita non è certo tranquilla, piuttosto che
nel nostro Mezzogiorno. Nessuno seppe controbattere che le mafie giapponesi,
Yakuza in testa (almeno 90 mila affiliati), si comportano allo stesso
modo, dominando lo scacchiere del Pacifico, dagli Stati Uniti alla
Malaysia, passando per l'Australia, dove sono alleate con cosche calabresi
e siciliane che vi coltivano il papavero, e danno appoggio ai pescherecci
siciliani che trasportano l'eroina thailandese, birmana, laotiana,
afghana, sulla costa orientale americana. Tant'è: il deputato
nipponico vedeva la mafia degli altri; e i nostri non hanno saputo,
potuto o voluto vedere la mafia giapponese, forse perché non
sanno, non possono o non vogliono vedere quelle che abbiamo in casa.
Da secoli.
Quando i giornalisti arrivavano per le prime, grandi inchieste sulla
'ndrangheta, il questore di Reggio, che allora era Emilio Santillo,
diceva: "Più la gente sa della nuova Calabria, meglio
può capire in che situazione siamo". Erano gli anni Settanta.
Ma allora sulla 'ndrangheta si conosceva più il folklore che
la sostanza. Eppure, Le sue origini risalivano al 1500. Il primo codice
di comportamento era stato sequestrato nel 1890: 'ndrangheta stava
per `società degli uomini valorosi'. Ma nel 1963, quando un'anonima
sequestri rapì Ercole Mendace, davvero si incominciò
a capire che rozza di delinquenti si nascondevano dietro quegli "uomini
valorosi". E quando, sei anni dopo, nell'ottobre '69, in un'altura,
tra masserizie, alberi e bestiame, la polizia scopri un summit al
quale partecipavano picciotti e boss, l'Italia ebbe una sensazione
agghiacciante. alla tradizionale mappa nazionale, in cui mafia siciliano
e camorra napoletana sembravano sole e irraggiungibili, c'era da aggiungere
la vecchia 'ndrangheta, la "mafia dalle scarpe lucide",
com'era detto. Aveva uomini e quadri. Le "famiglie' diventavano
"associazioni'. I capicosca si chiamavano "capibastone".
L'uomo più astuto assurgeva ai fasti di "consiliori superiore".
Al di là dei riti, la 'ndrangheta aveva ovunque basi operative
e una specie di "super-vertice regionale', con corrispondenti
e affiliati negli Stati Uniti, in Canada, nell'Australia. Sappiamo
tutto degli Stati Uniti e del Canada. Dell'Australia sappiamo soltanto
che ha appena 16 milioni di abitanti, e che è 23 volte l'Italia:
la più grande zona franca del mondo, per la criminalità
organizzato calabrese.
"'U Costanu" è un uomo di 61 anni che non si è
ancora stancato di fuggire. Sulla camicia, all'altezza del cuore,
porta disegnato un fiore, simbolo del "capo 'ndrina", il
copocosca. E' la stimmate del potere in Aspromonte. Lo descrivono
come un rissoso e un violento. Da pastore gli piacevano gli animali
altrui. Per io legge era abigeato. E non si diventava ricchi rubando
pecore e vacche. 'U Costanu, o "Cicciu 'u Spiritu", o ancora,
per l'anagrafe, Francesco Barbaro, decise allora di mettere a frutto
un prezioso patrimonio, accumulato stando per anni a custodire bestie:
la conoscenza perfetto di quell'impossibile terreno che si inerpica
attorno a Platì. Quattromila abitanti, Platì è
uno dei vertici del triangolo della morte aspromontina. gli altri
due sono a Ciminà e a San Luca. Da queste alture giroscopiche,
Barbaro vede dove altri sono ciechi. Fiuto da lontano l'arrivo di
intrusi. Se sceglie un nascondiglio è perché è
inviolabile. La sua cosca è quella dei sequestri di Paul Getty
e di Giovanni Bulgari. Cominciò la carriera come affidabilissimo
carceriere. Poi, dei capibastone dell'area, l'"Area del Vento",
come la vuole la tradizione, qualcuno è passato a miglior vita,
altri (pochi) abitano le patrie galere. A regnare nell'Aspromonte
è rimasto solo lui, 'U Castanu. C'era stato un periodo, qualche
anno fa, in cui in Colabrio non c'era più rispetto neanche
per i boss. Anzi, neanche per il boss dei boss, Antonio Macrì,
ucciso nel'76 perché si opponeva ai rapimenti nel suo territorio,
Siderno. A Nirta, per lo stesso motivo, uccisero il figlio Bruno,
quarantenne. Barbaro ha visto lentamente decimarsi le file dei vecchi
compari. E si è ritrovato con i giovani rampanti, quelli che
vogliono guadagnare molto e subito, sufficientemente temerari, e pronti
da un pezzo a passare da carcerieri a sequestratori attivi. E intanto
continuano le faide, che contrappongono in un'alternanza macabra famiglie,
cosche, paesi e territori.
Lo sfascio calabrese, di cui l'Aspromonte è il simbolo minaccioso,
turba ora i sonni dei politici. Eppure, sono decenni che dalla punta
dello Stivale giungono segnali allarmanti. Reggio Calabria, la metropoli
col più stupendo - e desolato - lungomare del mondo, è
da tempo una città libanizzata, nella quale si muore di malamorte.
Per le vie, nelle cose, nelle campagne; per coltello, per bomba, per
cartuccia a lupara. Il racket usa parole antiche e metodi nuovi. Un
negozio su cinque ha conosciuto l'esperienza del fuoco "per cortocircuito":
non tra fili dell'energia elettrica, ma tra proprietari e taglieggiatori.
Questione di pizzo. Chi si rivolge ai carabinieri è delatore
per vocazione. Chi risponde a una qualsiasi domando rivolta da uno
sconosciuto è delatore per debolezza. Chi è testimone
di un crimine di sangue è un possibile delatore a carico, dunque
va messo a tacere: per lupara. Chi "si pente" e rivela vicende
mafiose so in partenza che prezzo pagherò: lo sterminio di
famiglia, parenti e amici. L'Aspromonte, allora, non è una
montagna. E' una mentalità. Contro questa mentalità
l'Italia dei benpensanti, degli uomini d'ordine, dell'ottusità
assurta a metodo politico, reclamo l'invio dell'esercito.
Il nostro ordinamento non prevede l'impiego delle forze armate con
funzioni di polizia; riservare un trattamento da stato d'assedio,
al di là della legge, ad un'area del Paese, significherebbe
assegnarle un privilegio odioso, e, nello stesso tempo, ammettere
l'incapacità dello Stato a fronteggiare con gli strumenti specifici
un branco di delinquenti.
La teoria delle supplenze fra i poteri e gli organi dello Stato ha
già prodotto parecchi danni. Al di là dell'ordine pratico
(che cosa dovrebbero fare i soldati che non possono comportarsi come
i carabinieri e gli agenti di polizia: i bersagli dei killer mafiosi?),
c'è anche una ragione di fondamentale sensibilità politica.
Fra il 1860 e il 1870, l'esercito ebbe già modo di operare,
in Calabria e altrove nel Sud, in quella sporca guerra civile che
seguì la proclamazione dello Stato unitario, lasciandovi una
scia di lacerazioni, di odio, di risentimento di contadini dal cuore
gonfio diventati "briganti" per fame e per rapacità
fiscale, per disprezzo e per normalizzazione. Schierare le forze armate
alle soglie del Duemila significherebbe evocare i fantasmi e le suggestioni
torbide degli antichi moti secessionisti. Il sentimento nazionale
è stato una conquista lenta e difficile. Sarebbe assurdo incrinarlo
(in tempi, per di più, di razzismo tutt'altro che strisciante)
solo perché la nostra classe politica è sprovvista di
memoria storica. lo Stato che si presentasse in Sicilia, in Sardegna,
in Calabria o in Campania nella divisa del bersagliere sarebbe ritenuto
oggi più ingombrante, ostile e lontano dei lontani giorni delle
rivolte contadine del Sud. E' lo Stato di diritto che occorre riaffermare,
senza ambiguità, nella vita civile e amministrativa, nelle
Usl, nelle banche, nelle macchine politiche e sindacali, nelle organizzazioni
produttive e commerciali, nel milieu torbido e minaccioso delle ditte
appaltatrici e subappaltatrici. Occorre frugare tra le pieghe delle
ricchezze improvvise, tra i risvolti delle vite da nababbi. Molti
segreti mafiosi, diceva Carlo Alberto Dalla Chiesa, sono decifrabili
nei conti correnti bancari. Allora non servono i bersaglieri. Serve
la Guardia di Finanza.
Come si è organizzata la mafia siciliano dopo il maxi-processo
di Palermo? La "Cupola' o "Commissione" di Cosa Nostra
siciliana non esiste più. Al vertice c'è solo una "famiglia",
forse addirittura una sola persona. Lo fanno sospettare i delitti
degli ultimi tempi: i cosiddetti "vincenti", i corleonesi,
vogliono estendere il loro controllo su tutte le attività dell'organizzazione,
eliminando i vari capifamiglia o coloro che ne hanno preso il posto.
Quest'operazione di "assestamento" è interamente
affidato a uomini fedelissimi, picciotti cresciuti sotto l'egida corleonese.

Con questo termine, corleonese, fino alla sentenza del più
grande processo celebrato contro la mafia, sono state indicate periodicamente
le cosche che avevano vinto la guerra di mafia degli anni Ottanta.
Quelle, sostanzialmente, che facevano capo alla vecchia "commissione"
di Michele Greco (il "papa' di Cosa Nostra), Luciano Liggio,
Pippo Calò e compagni. Ora, invece, ed è questa la grosso
novità, i corleonesi avrebbero riassunto la loro identità
di "famiglia", riconoscendo come unico capo il super-latitante
Totò Rijna, l'unico boss della mafia di cui nessuno, fra gli
inquirenti, conosce il volto, perché l'unica foto segnaletica
esistente è vecchia di trent'anni. Insieme con questo nuovo
assetto di vertice, Cosa Nostra ha anche modificato l'indirizzo delle
proprie attività. Non più soltanto mafia dell'eroina,
ma anche della grande finanza, dell'imprenditorialità e, quindi,
della politica.
Secondo il ministero americano della Giustizia, l'Fbi e il "New
York Times", il boss dei boss di Cosa Nostra in America appartiene
alla "famiglia' Genovese. Si chiama Vincent Gigante, soprannominato
"Il Mento" per la sua mascella enorme, e dirige un giro
d'affari che solo a New York tocca i cento milioni di dollari . Gigante,
60 anni, è l'unico capomafia sfuggito alle inchieste e ai processi
che il magistrato Rudolph Giuliani e i suoi uomini stanno accumulando
contro Cosa Nostra. Pochi mesi fa, quando Giuliani mise sotto indagine
il Sindacato Camionisti, chiedendone lo smembramento per collusione
con la mafia, sembrava di essere vicini alla sconfitta definitiva
della criminalità organizzato italo-americana. Tutte e cinque
le "famiglie' che dominano New York, quelle dei Lucchese, dei
Genovese, dei Bonanno, dei Colombo e dei Gambino, erano sotto inchiesta,
molti capi in galera. Donnie Brasco, un agente federale, era riuscito
a infiltrarsi per anni dentro il network mafioso, rivelandone antropologia
e tic (la mafia non lavora il giorno della Festa della mamma). Computer,
fibre ottiche, rivelazioni foniche grazie alla vibrazione del vetro
in una stanza dove si tenevano contatti clandestini, avevano permesso
di registrare anche i sospiri dei mafiosi. La partita, comunque, non
è chiusa. In tempi di magistrati incorruttibili, di spie ovunque,
di fine dell'antico "rispetto", di Triadi, cioè dell'organizzazione
della mafia cinese che ruba il commercio dell'eroina, di colombiani
e di boliviani che cominciano a fare a meno della mafia per smerciare
la cocaina, e persino di "mulignani", cioè di spacciatori
neri dei ghetti, che brontolano sulla parte che spetta loro nello
spaccio del crack, Gigante e gli altri "padrini" hanno il
fiato grosso. Dice Giuliani: "Se togliamo loro i sindacati, come
stiamo facendo con l'inchiesta sulla International Brotherhood of
Teamsters, il Sindacato Camionisti, e gli affari nelle città,
li riduciamo a quel che i mafiosi sono sempre stati, una banda di
strada".

Nell'ultimo decennio, il business mafioso in America è diventato
colossale. Cinquanta miliardi di dollari l'anno almeno, un fatturato
superiore a quello di corporations celebri nel mondo, pari all'1,1%
del prodotto nazionale lordo Usa. Avvocati di grido al servizio di
Cosa Nostra, consulenti finanziari di Wall Street chiamati al telefono
dalle limousines nere che sfrecciano per Manhattan, Las Vegas, Miami,
San Francisco, Los Angeles. Il portafoglio di Cosa-Nostra registra,
secondo Giuliani, 14 miliardi dal fronte del porto, 9 miliardi dal
racket dell'industria tessile, 5,5 miliardi dal controllo dell'aeroporto
internazionale Kennedy, 4 miliardi dall'edilizia, oltre 1 miliardo
dai mercati generali, dai trasporti e dal racket della spazzatura.
Miliardi di dollari, s'intende. Una marea di dollari gestiti da mafiosi
sempre meno legati al quartiere, alla famiglia e alla tradizione,
gente che ama la pubblicità, il fine-settimana in Florida,
le ville in California. Un uomo attento e scrupoloso come Giuliani
ha potuto con i processi alla "Commissione" e alla "Pizza
Connection" colpire l'onorata società nel suo snodo vitale,
dove gli affari clandestini emergono nell'attività finanziaria
legale. la mafia sarebbe vittima di una mentalità da nuovo
ricco: troppo sfoggio dei propri gioielli. O, come dicono all'Fbi,
'high profile', eccesso di sicurezza. Stretta d'assedio, Cosa Nostra
ha prima tentato la strada delle faide, Gotti contro Della Croce,
tutti contro Gotti, e così via. Poi, quella della corruzione
politica, che ha fatto dire allo scrittore Nicholas Pileggi: "Per
orientarsi tra i nomi della nuova mafia, bisogno leggere l'elenco
telefonico interno del Comune di New York". Non è bastato.
La mafia si è accorta di essere cresciuta al di là della
propria cultura, di essere incapace di contrastare il dinamismo dei
nuovi arrivati, soprattutto sudamericani, poi cinesi. Così,
è tornata a un boss dei boss, intorno al quale sta costruendo
una macchina impenetrabile di autodifesa: lo squilibrio mentale. Ma
Gigante e i suoi sono sempre meno "modelli" insuperabili.
In quel che resta di Little Italy, a Brooklyn, a Queens, nel pittoresco
rione di Ozone Park, per un ragazzo italo-americano di buone ambizioni
e di pochi dollari una pistola in tasca non è più l'unica
via di successo. Il magistrato Giuliani, il ministro Carlucci, il
governatore Cuomo, il manager Jacocca offrono modelli alternativi
al Padrino.
E' stato definito "l'unica multinazionale di successo" dell'America
Latina. Produce, raffina ed esporto in tutto il mondo cocaina. Un
giro d'affari da 250 miliardi di dollari l'anno. La sede centrale
è nella città colombiana di Medellin, dove è
il "cartello" della coca. Concorrenziale, è la cittadina
meridionale di Cali. I due gruppi che fanno capo a Medellin e a Coli
controllano il 60-70% della produzione e della raffinazione latino-americana.
I tentacoli della multinazionale si estendono in Perù, in Bolivia
e nella foresta amazzonica brasiliana.
A capo del cartello di Medellin ci sono due famiglie: gli Ochoa e
gli Escobar. Fabio Ochoa, il patriarca, è da decenni sulla
breccia. La gestione dell'impresa ora è affidato a suo figlio
maggiore, Jorge Luis, e ai due minori, Fabio e Juan David. Ma l'artefice
della creazione del cartello è Pablo Escobar, 38 anni, ma giù
con esperienza da centenario. Fu lui, dieci anni fa, a capire per
primo che la produzione della cocaina doveva assumere caratteristiche
industriali e ambizioni multinazionali. Vive nel suo ranch, l'azienda
Napoles, vicino a Medellin, 25.000 ettari di superficie. Ha un aereo
privato e un automobile degli anni Venti che appartenne ad Al Capone.
Ha messo su uno zoo privato con ippopotami, giraffe, elefanti nani.
Ha una stazza di cento chili. Non fa uso di cocaina. Del cartello
faceva parte anche Carlos Lehder, prima che fosse catturato dalla
polizia ed estradato negli Stati Uniti, in una prigione di Miami.
I boss del cartello hanno realizzato un'"industria ad integrazione
verticale", nel senso che finanziano la coltivazione delle foglie
(tre raccolti l'anno nel Chapare, due nello Yungas boliviani, ad esempio)
nei Paesi satelliti, e ne controllano la prima raffinazione. A prodotto
finito, provvedono alla spedizione, assoldando piloti Usa: 5.000 dollari
a chilo di cocaina, 300 chili di carico medio, sugli aerei della compagnia,
forniti di sofisticatissimi apparati elettronici per sfuggire all'intercettazione.
Porto di destinazione, la Florida, attraverso basi intermedie, create
in Panama, Nicaragua, Cubo, Honduras, e nelle infinite isole del Caribe.
La fase finale del "giro coca" è affidato al "dipartimento
finanze" dell'impero: quello che provvede al riciclaggio dei
narco-dollari, tutti in tagli piccoli, massimo 20 dollari, difficilissimi
da controllare negli spostamenti incrociati in oltre duemila banche
di piccole dimensioni, sparse negli arcipelaghi del Caribe. Poche
le alleanze con Cosa Nostra americana. Stretti legami commerciali
con l'altra piovra italiana, la camorra della Nuova Famiglia', che
controlla l'intero mercato della cocaina in Italia, dopo la distruzione
dell'avversaria Nuova Camorra Organizzato di don Raffaele Cutolo.
Grandi banchieri della cocaina, ma anche dell'eroina, i giapponesi
delle Hawaii, della California e di New York, quelli delle mafie Yamaguchi
e Yakuza. La ditta Yamaguchi controlla metà del mercato, e
pubblica una rivista venduto nelle edicole con gli "indicatori'
dei prezzi delle armi, dei tassi per prestiti, del costo dei "gorilla",
della borsa della drogo. La ditta Yakuza (termine che in giapponese
significa 8-9-3, la peggiore combinazione che possa capitare a un
giocatore di dadi) è il gruppo mafioso più numeroso
e organizzato del mondo: 2.230 bande federate, che dominano imprese
di costruzione, compra-vendite immobiliari, editoria e spettacolo,
mercato dello strozzinaggio, gioco d'azzardo, servizi, riciclaggio
e investimenti in attività pulite.
Risorte negli Stati Uniti, infine, vecchie mafie, e nate nuove organizzazioni:
ebraiche, irlandesi, cinesi, terzomondiste, quartomondiste (fornitrici
di "corrieri"), russe, portoricane, iberiche, polacche.
Terminali, anche, di mafie che operano a Hong Kong, in Malaysia, in
Corea, a Singapore, nell'australiana Griffith (al cento per cento
elementi di 'ndrangheta, con nomi che stanno entrando nella leggenda
criminosa: Sergi, Virgara, Ferraro, Perre, Barbato, Ciccarelli, Tiscineri,
e gli eredi Trimboli), e persino in Birmania e in Laos, in Turchia,
in Libano, a Cipro, in Siria, in Bulgaria.
Mafia è certamente un termine che ha avuto una fortuna planetaria.
Per questo è identificata con quella italiana, che diventa
Cosa Nostra Siciliana per i collegamenti strettissimi, di sangue e
d'affari, con Cosa Nostra Americana. Quel che è certo, comunque,
che non è un male solo siciliano, o calabrese, o - con nome
diverso - napoletano. E' un fenomeno che interessa ormai l'orbe terracqueo.
Ovunque i suoi commerci sporchi sono combattuti e tollerati. Dappertutto
gode di alte complicità. In ogni angolo della terra "produce",
occupa e sfrutto, taglieggia e arricchisce, uccide e protegge. Ovunque:
e in Italia. Forse da noi non più che altrove. Non si può
combatterla, a Catania e nell'Aspromonte o nell'agro sarnese, se non
si tien conto di tutto ciò.
Quel cancro
tra i monti
Luigi Compagnone
"Io sono
l'imperatore dell'Universo - mi disse Giuseppe Musolino, il famoso
bandito d'Aspromonte, e amico mio di un'ora -. A me ubbidiscono Dio,
gli Angeli, gli Arcangeli, la Tigre, il Ragno, l'Albero dello Vita
e l'Oceano del Fuoco". Ero andato a Reggio Calabria per il mio
giornale, e volti vedere anche Musolino, non per curiosità,
ma perché era stato un mito della mia infanzia, alimentato
da racconti favolosi che mi faceva un mio parente di Condofuri, provincia
di Reggio, andato o fare il medico a Napoli.
Andai dunque a trovare il bandito d'Aspromonte, ricoverato da molti
anni in manicomio, e vidi una stupendo stampa popolare: un vecchio
cito e magro, nobilmente altero, avvolto in un tabarro nero come notte,
in testo un cappello a falde smisurate, un bastone in pugno.
Sedemmo su una panchina nel cortile del manicomio. Musolino mi teneva
una mano tra le sue, mi diceva: "Amico, sappi che non sono calabrese
io, ma di sangue di un Principe di Francia. Quando mi condannarono,
fu lo stesso che pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Il
governo mi aveva perseguitato con le sue corazzate ... ".
Era dunque a quel modo che lui comunicavo con lo gente. Non con lo
gestualità e il linguaggio dei mass-media aspromontini (rapimenti
di bambini, tagli d'orecchie e di genitali, ammazzamenti di "sgarratori"),
ma con uno rete di altri simboli della suo mente massacrata di delitti,
fughe, nevi d'Aspromonte, tra le quali aveva sofferto lunghi inverni,
nascosto tra rovi e grotte come bestia. Ma quella bestia non era appartenuta
a nessuna cosca, non avevo mai ucciso per denaro o per rapina, si
era vendicata a 27 anni (1899) di falsi testimoni che gli avevano
aperto la galera. Accanto a lui, sull'Aspromonte, soltanto Angiola,
la fedele e "sconfidata" compagna per la sua infelice vita
di brigante non "organico" ma "inorganico", vale
a dire di brigante solitario.
Al contrario, accanto alla 'ndrangheta che, solo dopo tre giorni dalla
liberazione di Marco Fiora ha sequestrato i due industriali o Portici,
c'è sempre tanta e tanto gente. Tutti insieme, non sanno che
tagliare. Tagliano anche, come ha raccontato lo scrittore calabrese
Saverio Strati nel suo romanzo "Il selvaggio di Santa Venere",
"giovani giardini di bergamotto, di mandarini, 'sti mafiosi,
'sti coraggiosi ... ".
Lassù, ora, propongono di mandare l'Esercito. Ma che almeno
una pattuglia, una solo, sia mandato o perlustrare anche nella pubblica
amministrazione: l'Aspromonte non è, infatti, soltanto una
montagna calabrese. E' un'infezione pubblica e privata.