Esistono ancora
i poveri in Italia? Il recente sviluppo economico, l'aumento dei consumi,
il rinnovato interesse al risparmio, (che ha dato luogo a una vera
e propria corsa all'investimento), l'ottimismo delle famiglie emerso
da una recente indagine dell'Isco, lo stato di diffuso benessere di
cui gode la popolazione e lo stesso "boom" vacanziero, che
in alcuni momenti ha persino paralizzato le strade e le città
costiere italiane, potrebbero far pensare a una risposta negativa.
Eppure, malgrado questa patina di prosperità, l'Italia è
ancora la patria di sei milioni e 953.900 poveri. Una cifra enorme,
che coinvolge il 12,3 per cento della popolazione, il cui reddito
mensile non supera le 329.000 lire. In un'Italia che cresce, al quinto
posto tra i Paesi più industrializzati, le cui ambizioni internazionali
sono state accompagnate da una corretta politica interna che ha portato
una nuova ventata di benessere, una tale realtà, che mette
in luce una specie di Terzo Mondo tutto nostro, è inconcepibile.
Lo squilibrio, ancora presente e particolarmente elevato nel Mezzogiorno
rispetto al Settentrione, è uno spettro che corrompe l'immagine
del "nuovo Eldorado" e mina la realtà di Paese civile
che, peraltro giustamente, ci compete.
Va sottolineato che dal 1973 ad oggi la situazione è migliorata.
Secondo i risultati delle indagini dell'Istat, riguardanti la spesa
per consumi delle famiglie, la povertà in Italia, in rapporto
alla popolazione, è diminuita, passando dal 13,8 per cento
all'attuale 12,3, con un reddito procapite che da 45.100 lire ha superato
di poco le attuali 329.000. Malgrado l'inflazione e la disoccupazione,
dunque, il numero dei poveri è diminuito: nel 1973 superava
la soglia dei sette milioni e mezzo. La percentuale delle famiglie
povere, infatti, tende a diminuire negli anni in cui il tasso di sviluppo
del prodotto interno lordo è elevato, e ad aumentare nei periodi
di recessione: ma la relazione tra i due fenomeni non sembra essere
molto stretta.
Molto Più significativa, invece, è quella che intercorre
tra inflazione e percentuale di famiglie povere, soprattutto se si
tratta di famiglie con più componenti (oltre il 70 per cento
in Italia). "Contrariamente a quanto si può credere -
ha affermato in un recente convegno del Formez il professor Giuseppe
Carbonaro, componente della Commissione di studio sulla povertà,
nominata dalla Presidenza del Consiglio -l'inflazione non aggrava
la povertà, ma tende a ridurla".
L'appiattimento retributivo, il fiscal drag, i movimenti dei prezzi
relativi, spiegano questa correlazione inversa tra inflazione e povertà,
già rilevata in altri Paesi. E non si può neanche affermare
che la disoccupazione incida sull'indigenza. La disoccupazione, infatti,
è per lo più diffusa tra i giovani alla ricerca di un
primo posto di lavoro, piuttosto che tra i capifamiglia di nuclei
già formati.
Ma è effettivamente questa la situazione? Purtroppo, in Italia
i dati sulla retribuzione del reddito sono piuttosto scarsi e anche
di attendibilità controversa. I dati, cioè, sono tali
che basta cambiare la fonte, pur mantenendo sostanzialmente immutate
le definizioni, per giungere a variazioni vastissime sul numero dei
poveri. Se, infatti, si tiene conto dell'indagine dell'Istat in base
al reddito e non ai consumi, il numero dei poveri viene dimezzato:
le famiglie povere risultano essere 1,15 milioni, pari al 5,9 per
cento dei totale. Sempre in base al reddito, l'indigenza è
maggiore tra le famiglie più numerose (sei e più persone),
e minore tra quelle a un componente.
Il quadro muta ancora, se si utilizzano i dati della Banca d'Italia.
Secondo questi ultimi, infatti, le famiglie povere sono 1,7 milioni
(pari all'8,5 per cento) del totale se la soglia è misurata
in base al reddito, ma scendono a poco più di 900.000 (pari
al 4,6 per cento) se la si misura in base ai consumi.
Da tutte queste ricerche, studi e cifre, il dato costante, che emerge
con chiarezza è che la povertà, anche se è diminuita
, non è stata sconfitta. Non è tutto oro quello che
luccica. Lo spettro dell'indigenza e dell'emarginazione è presente
in modo particolare nelle regioni meridionali, dove minaccia ulteriormente
anche le zone sottratte a fatica all'arretratezza. E non servono le
statistiche a dimostrarlo. Basta volgere uno sguardo alle baraccopoli
che proliferano nelle periferie delle grandi città, agli anziani
abbandonati a se stessi sui marciapiedi, alle liste dei giovani in
cerca di un'occupazione. In questa cornice di desolazione, più
adeguate prestazioni della Pubblica Amministrazione diventano un passaggio
obbligato e urgente. Senza un'efficace applicazione di princìpi
di equità e di efficienza nell'azione statale, la povertà
non potrò mai essere sconfitta.
Ovviamente, dire che in pochi anni i poveri nel nostro Paese sono
diminuiti non è una constatazione che ci lascia soddisfatti,
e tanto meno in pace con la coscienza. Sapere che lo spettro della
miseria ci accompagna tuttora nelle sue infinite sfaccettature, insieme
con fenomeni in ben altro tenore, come la ripresa economico-industriale
e un più diffuso benessere, è qualcosa che inevitabilmente
mette in discussione molte delle nostre convinzioni, facendo vacillare
le più complesse teorie economiche e sociali. Qualcosa non
funziona del tutto, se una larghissima fetta della popolazione italiana
sopravvive ai margini di una società che, volente o nolente,
l'ha messa al di fuori del sistema.
Che significato ha affermare, anche con una certa presunzione, che
l'Italia è fra i Sette Paesi industrializzati del mondo, se
poi non riesce a risolvere una delle piaghe più antiche del
globo, quella appunto della povertà?
Esiste ancora un convincimento diffuso (che sarebbe molto utile sfatare)
che vuole unire in un binomio indissolubile ricchezza e povertà.
Quasi che la povertà sia il parto illegittimo, ma inevitabile,
della stessa ricchezza. Semmai, la crescita economica costituisce
la condizione necessaria, anche se non sufficiente, della riduzione
della povertà. Attorno a questa convinzione hanno preso le
mosse gli studi compiuti, tempo fa, dalla Commissione di indagine
sulla povertà.
Ma vediamo di mettere un poco di ordine in una materia complessa e
su cui è facile cadere in errore. Innanzitutto, può
essere importante sapere ciò che attualmente si intende per
povertà. Chi rientra nella categoria dei poveri? E secondo
quali canoni o quali limiti può essere considerato tale?
La Commissione definisce povero colui il quale "non è
in grado di soddisfare in misura adeguata quel complesso di bisogni
- in termini di beni, servizi, stili di vita - che sono ritenuti essenziali
in un dato periodo storico e in un determinato tipo di società".
La povertà è un fenomeno dinamico, cumulativo e multidimensionale,
in cui all'insufficienza di reddito monetario si accompagnano per
lo più carenze di altre risorse provenienti dal mercato, dallo
Stato, dall'economia informale, spesso essenziali per un tenore di
vita adeguato o quanto meno accettabile.
A queste realtà preesistenti si sommano inoltre altri fenomeni
che nascono come conseguenza di nuovi stimoli creati dalla società
moderna: queste sono le cosiddette "nuove povertà",
che non vanno sottovalutate per peso e dimensioni; elemento costante
nell'individuazione e definizione di entrambi i fenomeni è
la centralità dell'elemento reddituale.
Per quanto riguarda le possibili vie da battere nel tentativo razionale
e organico di sconfiggere la povertà, il rapporto è
assai preciso, delineando alcune tendenze di intervento da attuarsi
su due fronti distinti, quello nazionale e quello locale. La politica
a livello nazionale dovrebbe esplicarsi nelle seguenti direzioni:
- redistribuzione e riequilibrio delle risorse fra le diverse aree
territoriali;
- sviluppo dell'occupazione in funzione dell'accesso di tutti al lavoro,
con priorità per chi versa in condizioni di maggior bisogno;
- adozione di misure atte a favorire la piena fruizione dei servizi
sociali da parte dei cittadini più svantaggiati;
- attuazione di interventi economici di base mediante la razionalizzazione
delle agevolazioni fiscali e dei trasferimenti di reddito;
formulazione di normative generali, alle quali le politiche locali
devono riferirsi. Tali politiche dovrebbero essere integrate con iniziative
a livello locale. E questo con un duplice scopo:
a) utilizzare indicatori della povertà meno approssimativi
e meno grezzi di quelli disponibili a livello nazionale (quali i livelli
di reddito a fini fiscali oppure autoaccertati);
b) elaborare un sistema di interventi tagliato, per così dire,
su misura rispetto ai molteplici e peculiari aspetti che presenta
ogni specifica situazione di povertà.

Anche dal punto di vista dell'entità del fenomeno "povertà"
è difficile dettare delle regole precise e valide in assoluto.
La Commissione di Palazzo Chigi ha scelto di utilizzare come indicatore
la spesa per consumi delle famiglie rilevata dall'indagine campionaria
dell'Istat, "che è al momento la fonte più ampia
e attendibile". Viene quindi considerata povera una famiglia
tipo di due persone, il cui reddito complessivo sia uguale al reddito
pro-capite della nazione in esame.
TerritoriaImente, invece, il rapporto mette in evidenza che la povertà
è nettamente più grave nel Mezzogiorno, dove sia le
famiglie che le persone povere rappresentano oltre il 18 per cento
della popolazione residente. Ma è preoccupante - afferma la
Commissione - anche la presenza di due milioni e mezzo di poveri nel
Centro-Nord.
La fonte più immediata di povertà è rappresentata
senza dubbio dai disoccupati che esprimono "la rottura più
drammatica col reddito". La disoccupazione può agire a
più livelli: disoccupazione implicita ed esplicita. Quella
implicita agisce da freno preventivo alla presentazione di alcuni
soggetti (donne, giovani e anziani) sul mercato del lavoro, facendoli
sparire dagli attivi e riducendo la possibilità sia individuale
sia familiare di avere accesso alla risorsa lavoro; quella esplicita
colpisce i membri attivi di una famiglia.
La donna, nell'ambito del problema, occupa una posizione di rilievo,
rappresentando il 53,4 per cento delle persone povere, una percentuale
- precisa il rapporto - superiore al loro peso sull'intera popolazione.
Anche i giovani con meno di quattordici anni occupano una larga fetta
di povertà, costituendo il 20 per cento dell'intera popolazione
povera.
Tutti i dati presi in esame dagli studiosi e dagli esperti che hanno
contribuito alla stesura del rapporto confermano inoltre che esiste
una stretta correlazione tra povertà e basso livello di istruzione,
"correlazione che si rivela più marcata nel Mezzogiorno".
Nel complesso, oltre un terzo delle persone povere è analfabeta
o senza alcun titolo di studio, mentre un altro 40 per cento ha soltanto
la licenza elementare. Un altro dato che invita olia riflessione è
quello riguardante i "lavoratori poveri": oltre il 28 per
cento dei poveri appartiene alle forze di lavoro. Per circa due terzi
si tratta di operai, subalterni o figure assimilate, per il 20 per
cento di lavoratori in proprio, per il 16 per cento di impiegati e
di intermedi. Questo dato mostra la disomogeneità del fenomeno
"povertà", introducendo figure professionali che
in passato erano considerate forti e perciò immuni da simili
rischi.
Infine, è possibile prefigurare un buon 50 per cento di poveri,
i quali non appartengono a nessuna delle figure professionali prese
in considerazione, "in quanto ritirati dal lavoro, casalinga,
minore, ecc." Due sono, infine, le categorie principali che si
pongono all'attenzione dell'intero rapporto: gli anziani e gli invalidi.
Ma per questi sarebbero necessarie altre due Commissioni.
L'altra faccia
dell'Europa opulenta
Alle soglie del
Duemila, circa un terzo della popolazione europea non gode di un reddito
tale da permettere condizioni di vita accettabili. Soltanto nella
Comunità Economica Europea il numero dei senza-tetto supera
il milione, e il fenomeno della disoccupazione ha raggiunto cifre
preoccupanti anche nei Paesi tradizionalmente considerati ricchi.
Se dal 1973 ad oggi la situazione dei poveri in Italia è notevolmente
migliorata, lo stesso non si può affermare per quanto riguarda
i Paesi della Comunità europeo. L'ingresso della Spagna e del
Portogallo, se da un lato si è tradotto in un importante successo
politico e istituzionale, dal punto di vista economico ha contribuito
all'aumento di ulteriori elementi di disparità. I dati del
terzo rapporto periodico sulle regioni della Comunità economica
europea, presentato alcuni mesi fa, dimostrano infatti che le divergenze
economiche fra le diverse aree invece di ridursi tendono ad allargarsi.
Il divario tra ricchi e poveri, sia all'interno sia all'esterno della
Comunità, sensibilmente ridotto durante gli anni Sessanta,
a causa della forte e generalizzata crescita economica, dopo la crisi
petrolifera del 1973 è nuovamente aumentato. A Paesi tradizionalmente
ricchi, dove il numero delle famiglie povere è relativamente
basso, si accompagnano zone di povertà quasi da Terzo Mondo.
La scarsa incidenza economica di queste aree, l'insufficiente coordinamento
con gli altri fondi strutturali e comunitari e i tagli generalizzati
dagli strumenti di intervento pubblico sono solo alcune delle cause
che hanno prodotto indigenza ed emarginazione. La situazione si aggrava
ulteriormente in vista dell'apertura del mercato unico europeo del
1992, che presumibilmente verrò a premiare i gruppi e le aree
economicamente più forti, senza risolvere il problema "povertà"
nei Paesi a più basso livello di sviluppo.
Dal paragone tra le regioni degli Stati Uniti e quelle della Comunità
europea emerge chiaramente l'esistenza di un problema regionale comunitario.
I divari che esistono nella Comunità, infatti, sono il doppio
di quelli registrati negli Stati Uniti per quanto riguarda i redditi
e tre volte maggiori per quello che concerne la disoccupazione. In
alcune regioni europee la situazione sfiora addirittura il paradosso:
in alcune aree più povere gli stipendi sono più elevati
di quelli riscontrati nelle zone più ricche.
In presenza di tali divergenze, l'impegno finora mostrato appare inadeguato
e insufficiente. Ma se è difficile attuare dei radicali interventi
a livello nazionale, pur avendo il contributo di strumenti monetari,
economici e fiscali, è fin troppo facile immaginare i limiti
di un intervento per un'istituzione sovranazionale, come la Comunità
economica europea, priva di strumenti monetari e fiscali. Da tutto
ciò, l'importanza dei tentativi fatti alla ricerca di un aumento
delle risorse proprie della Comunità e l'intento di avviare
azioni integrate comunitarie, nazionali e locali, per la soluzione
dei problemi delle aree più sfavorite o in fase di riconversione
industriale.