A guardar bene,
i sintomi di crisi in Europa sono molteplici. La ripresa dell'attività
economica è molto più lenta rispetto agli Stati Uniti
e al Giappone. La disoccupazione, già a livelli storici, è
in continua crescita. Le difficoltà dei settori tradizionali
(acciaio, chimica, cantieristica) sono abbastanza note. In cinque
anni, la svalutazione delle monete rispetto al dollaro ha superato
il cinquanta per cento. Il ritardo tecnologico e gli squilibri del
settore agricolo costituiscono altri elementi di un'agenda politica
ed economica senza precedenti.
La macchina economica europea, che nel quarto di secolo dopo la seconda
guerra mondiale aveva prodotto reddito, aveva dato lavoro e aveva
acquistato mercati, negli ultimi dieci-quindici anni ha quasi smesso
di funzionare a punto. C'è chi usa espressioni colorite e in
qualche caso irriverenti: "eurodecadenza", "europessimismo",
"eurosclerosi". I nostri alleati d'oltreoceano, scettici
circa il futuro dell'Europa, disegnano nuove mappe geostrategiche.
In esse il Pacifico, assai più che l'Atlantico, è lo
scacchiere dove i nuovi rapporti di forza politica ed economica stanno
delineandosi.
C'è del vero in tutto questo. Ma c'è anche tanta paranoia.
Infatti, non tutti gli indici del barometro economico-politico europeo
indicano tempo brutto. Anzi, il presente è molto meno cupo
del passato. Il futuro sembra foriero di nuove speranze, non credibili
fino a pochi anni addietro. Vediamo le circostanze sulle quali si
basa l'"europessimismo". Poi proporremo una visione più
realistica e anche meno sfavorevole circa le prospettive dell'Europa
occidentale.
Dal primo dopoguerra fino all'inizio degli anni '70 le cose sono andate
bene per tutti, nell'insieme dell'area Ocse. E' come se a quell'epoca
i principii dell'economia fossero ancora confermati dalla realtà
dei fatti: la crescita del reddito, dell'occupazione e dei prezzi
era correlata positivamente. Le cose hanno incominciato ad imbrogliarsi
subito dopo il primo shock petrolifero, ma non solo a causa di esso.
Nel decennio 1973-82 l'Europa conosce simultaneamente recessione ed
inflazione (prima sorpresa per l'economista). Poi, nel triennio successivo,
la ripresa economica viene favorita dalla deflazione (seconda sorpresa)
e accompagnata dalla disoccupazione tendenzialmente crescente (terza
sorpresa).
Però, la lezione dell'Opec (primo shock) fu ben appresa dai
paesi Ocse. A partire dal 1980, e a differenza del periodo 1974-78,
gli effetti dell'Opec-due vengono circoscritti dalla politica del
rigore finanziario, degli aggiustamenti strutturali e della rivalutazione
del ruolo dell'offerta nell'economia. Grossi mutamenti politici avvengono
intanto nei principali paesi, portando al rafforzamento dell'ideologia
conservatrice. Nel 1983 il nuovo corso sfocia nella ripresa economica,
oggi in via di rafforzamento. E' proprio il ritorno a condizioni di
crescita non inflazionistica che offre la chiave per una interpretazione
del futuro per l'Europa meno pessimista di quanto sia dato pensare
solitamente.
Senza dubbio, gli stessi avvenimenti economici del triennio 1983-85
possono essere interpretati negativamente. In Europa, tanto il tasso
dell'inflazione (6 per cento) quanto quello di disoccupazione (11
per cento) sono stati assai più alti che altrove nell'area
Ocse. Nel 1984 la crescita del reddito è stata del 2,4 per
cento rispetto a tre volte tanto negli Stati Uniti e il doppio in
Giappone. Inoltre, fino a poco fa, le valute europee hanno continuato
a deprezzarsi rispetto al dollaro, e in misura minore anche rispetto
allo yen.
Gli indici della miseria, calcolati semplicisticamente sommando i
tassi di inflazione e di disoccupazione e sottraendo dal totale il
tasso di crescita del reddito reale, mostrano che nel 1984 il Giappone
e gli Stati Uniti (ma anche la Svizzera) hanno gravitato al fondo
della graduatoria dei paesi in relativa difficoltà. La Germania
Federale non è molto distante da loro. Ma tutto il resto dell'Europa
comunitaria soffre: e in special modo soffrono l'Italia e alcuni paesi
mediterranei.

Eppure, la bottiglia mezza vuota è anche mezza piena. Ecco
dunque gli argomenti che favoriscono una valutazione meno pessimista
circa il futuro dell'Europa comunitaria. E qui vorremmo fare particolare
riferimento all'atteggiamento dell'autorità pubblica, al comportamento
delle parti sociali e alla situazione delle imprese.
In primo luogo, si legge spesso che la ripresa americana è
endogena, e quindi indigena, mentre quella europeo è importata
dagli Stati Uniti. Polemicamente, si potrebbe dire che gli Stati Uniti
invece hanno importato l'ingrediente più importante della ripresa:
il capitale. Infatti, in termini netti, il resto del mondo ha continuato
a convogliare verso gli Usa combustibile necessario alla ripresa americana
(oltre 100 miliardi di dollari nel triennio 1981-84), dove oltre metà
del risparmio netto interno è stato assorbito dal disavanzo
fiscale. Ovviamente, l'Europa ha beneficiato della ripresa americana,
in termini di reddito (le esportazioni oltreoceano) e in termini di
prezzi (la forte quotazione del dollaro, malgrado i ribassi degli
ultimi tempi su tutti i mercati valutari occidentali). La ripresa
in Europa è in via di rafforzamento sia geografico sia settoriale.
Durante i primi tre anni della ripresa i tassi di aumento reale del
Pii sono progrediti geometricamente: 0,6 per cento nel 1982, 1,3 per
cento nel 1983 e 2,4 per cento nel 1984. Per il 1985 i conti saranno
pronti fra non molto, ma si ritiene concordemente che il tasso sarà
superiore a quello dell'84. Invece, l'inflazione è diminuita
rapidamente, e i prezzi al consumo (14,3 per cento nel 1984) si sono
dimezzati in meno di tre anni. Secondo stime molto vicine alla realtà,
nell'85 nei quattro maggiori paesi europei l'inflazione si aggirerà
sul 6 per cento, mentre in paesi quali la Germania Federale e la Svizzera
(ma anche il Giappone) è stata praticamente azzerata.
Il settore dove l'Europa (naturalmente, esclusa l'Italia) ha conseguito
il maggior successo politico-economico è quello della spesa
pubblica. Prima di entrare nel vivo, è opportuno fare una considerazione
preliminare a proposito della differenza tra la situazione fiscale
americano e quella europea. In definitiva, la situazione delle finanze
pubbliche statunitensi è il prodotto di una politica fiscale
discutibile, ma adottato al momento giusto. La politica fiscale europea
è invece quella giusta, ma sfortunatamente realizzata nel momento
sbagliato. Il tutto è dovuto alla situazione in cui le finanze
di queste due aree Ocse si sono trovate all'inizio della recessione.
A partire dal 1981-82, i governi europei, sotto l'impatto di debiti
pubblici ormai incontrollabili, si sono impegnati a riorientare le
finanze dello Stato verso l'austerità. L'incontestabile volontà
politica dei paesi europei è stata dimostrata dall'uso del
freno fiscale proprio durante la fase più acuta della recessione.
Invece, gli Stati Uniti sono entrati in recessione con un capitale
politico assai importante: conti pubblici praticamente in equilibrio.
Ciò ha permesso loro, anche per ottime ragioni politico-strategiche,
quali la sfida militare all'Unione Sovietica, di aumentare significativamente
le spese fiscali, sostenendo la ripresa.
Ora, però, gli astri del firmamento economico sono entrati
in fase di riallineamento. Con alle spalle la ripresa in via di indebolimento,
gli Stati Uniti si trovano costretti a ridurre il disavanzo pubblico,
che altrimenti dopo il 1985 potrebbe superare i 180 miliardi di dollari.
Invece, i maggiori paesi europei (esclusa l'Italia, dove, al contrario,
il disavanzo fiscale deve ovviamente essere ridotto) si trovano nella
condizione di poter allentare la stretta fiscale proprio quando la
ripresa ha bisogno di un ulteriore combustibile.
Non si può parlare delle prospettive economiche europee, senza
fare riferimento alla disoccupazione e alla situazione delle imprese.
Rispetto al 1980, oggi la grande industria europea produce il 12 per
cento in più di manufatti, con un quarto in meno di manodopera.
I forti licenziamenti Fiat e quelli della nostra grande industria
sono noti. Anche altrove, in Europa, le grandi imprese hanno eliminato
quasi metà della manodopera, pur aumentando la produzione.
Questo grande aumento della produttività è una svolta
importante, anche se costa cara in termini di occupazione. Naturalmente,
le finanze delle imprese sono oggi relativamente solide e il rafforzamento
della ripresa dovrebbe portare con sé un certo miglioramento
dell'occupazione. E' da tener presente, però, che tutto dipenderà
dal costo del lavoro, dal comportamento delle parti sociali, dal rafforzamento
del processo di accumulazione delle imprese, dalle politiche macroeconomiche
e dalla continua, progressiva liberalizzazione del mercati. In ciascuna
di queste aree la situazione è migliorata parecchio nel biennio
1983-84 rispetto all'intero decennio precedente.
Incoraggiante è il comportamento delle parti sociali. Infatti,
la pressione salariale si è attenuata ovunque in Europa, inclusi
quei paesi dell'area mediterranea dove i partiti della sinistra moderata
sono al potere. La crescita annuale del costo del lavoro per unità
di prodotto in Italia, per esempio, crebbe del 16 per cento nel decennio
1972-82. Nel biennio 1983-84 quella crescita si è ridotta al
9 per cento, (in Europa lo stesso indice è passato dal 13 per
cento nel decennio scorso a circa il 3 per cento negli anni 1983-84).
Al tempo stesso, la proporzione del valore aggiunto assorbito dal
fattore lavoro è scesa di oltre tre punti di percentuale, con
una ascesa concomitante dei profitti. E così l'accresciuto
saggio di accumulazione delle imprese ha portato ad un aumento degli
investimenti. Negli anni '70, la formazione di capitale in Europa
ha ristagnato. Invece, nel 1984 gli investimenti netti in Europa sono
aumentati in termini reali di oltre il 4 per cento, una tendenza che,
assai importante per ridurre la disoccupazione, dovrebbe rafforzarsi
nel suo complesso nel biennio 1985-86.
Dunque, le fondamenta della ripresa economica in Europa sembrano buone.
La disoccupazione rimane un dramma serio per venti milioni di persone,
tra le quali un quarto dei nostri giovani. I problemi dell'agricoltura
e della tecnologia sono ancora in cerca di soluzione. Lo stesso processo
di integrazione economico-finanziaria dell'intero continente ha urgente
bisogno di ricevere nuovo impulso dai governi, che invece vedono in
esso una diminuzione della loro sovranità. Ma non c'è
neppure ragione di esagerare in fatto di pessimismo.
Più realismo, anzi "eurorealismo", pare appropriato
nel descrivere il futuro del Vecchio Mondo, ora che governi e parti
sociali stanno dimostrando di voler affrontare problemi economici
e strutturali un tempo definiti intoccabili, problemi che sembravano
sospingere l'Europa occidentale verso un futuro assai tetro.
Ma l'"altra Europa", quella dell'Est, come procede? Con
singolare coincidenza con il vertice milanese della Comunità
economica europea di metà '85, Mosca ha risposto con la convocazione
a Varsavia della quarantesima sessione del Comecon, alla quale hanno
preso parte i dieci paesi membri (i sette europeo-orientali, più
Cuba, Vietnam e Mongolia), l'"associata" Jugoslavia e "osservatori"
di paesi del Terzo Mondo a regime filocomunista (Afghanistan, Laos,
Yemen del Sud, Angola, Mozambico, Etiopia e Nicaragua). Protagonista
del vertice, ovviamente, l'Unione Sovietica, che ha delineato la strategia
dell'alleanza per il quinquennio 1986-90, anche nella prospettiva
dell'ultimo decennio del secolo.
Temi discussi: il coordinamento dei piani quinquennali dei paesi del
Comecon e degli investimenti nelle strutture e nei settori concordati;
programmi di più stretto collaborazione nel campo delle nuove
tecnologie e nell'impiego delle risorse; istituzione di rapporti verticali
Cee-Comecon; aiuti ai paesi più deboli dell'alleanza e a quelli
su citati del Terzo Mondo.
Al centro delle future attività del Comecon, l'Urss, con i
suoi piani, con le sue disponibilità e necessità, con
i suoi esempi, con la rivendicazione di quella "divisione del
lavoro" che Mosca da tempo cerca di imporre ad alleati recalcitranti.
Ai quali è stato chiesto, innanzitutto, di "economizzare"
materie prime (in particolare, il petrolio, che gli alleati importano
dall'Urss a prezzo politico). Questa richiesta si collega, evidentemente,
ai risultati negativi dell'Urss nel campo dell'estrazione del petrolio
(impoverimento dei pozzi occidentali), dei minerali ferrosi e del
carbone.
Il coordinamento nei settori tecnologicamente più avanzati
(elettronica, informatica, robotica) è stato chiesto nel quadro
di cicli completi che vadano dalla ricerca alla produzione, fino agli
sbocchi di mercato. L'Unione Sovietica ha poi chiesto agli alleati
(soprattutto alla Repubblica democratica tedesca e all'Ungheria) di
esportare in Urss i loro prodotti tecnologicamente migliori. Ma Repubblica
democratica tedesca e Ungheria sembrano avere più interesse
a venderli in Occidente, per accrescere le entrate di valuta forte,
indispensabili per le loro importazioni dalla Cee. E proprio in questa
prospettiva, Mosca ha sottolineato la necessità di privilegiare
i rapporti verticali fra Comunità economica europea e Comecon,
rispetto a quelli bilaterali tra i singoli paesi dell'Est e i paesi
euroccidentali. L'invito non ha trovato echi positivi a Pankow e a
Budapest. Tuttavia, è già un gran passo avanti la proposta
di allargare i rapporti tra le due Europe, che in prospettiva possono
avere sviluppi anche politici di notevole rilievo.
Il termine "eurosclerosi", secondo quanto riferisce l'economista
Samuel Brittan, fu coniato per la prima volta dal professor Herbert
Giersch, di Kiel, per descrivere i mali che hanno sopraffatto l'economia
europea in questi ultimi anni. Dice Brittan: "La condizione,
in un certo senso, ha carattere assoluto. Ma il termine viene anche
usato in via comparativa per dimostrare come l'Europa sia rimasta
indietro rispetto agli Stati Uniti per quanto riguarda la produzione
e I' occupazione.
Dunque: il concetto di eurosclerosi nella sua globalità è
stato ora criticato da un illustre francese, il professor Robert Marjolin,
nell'ultima edizione dell'"Amex Bank Review". Secondo l'analisi
di Marjolin, in breve, gli europei hanno finito col preoccuparsi troppo
dei due anni di boom di cui ha goduto l'America sotto l'amministrazione
Reagan, dal 1982 al 1984: si è trattato di uno slancio temporaneo,
reso possibile dalla peculiare capacità degli Stati Uniti di
finanziare il proprio deficit di bilancio e quello estero con afflussi
di capitale. Su un arco di tempo più lungo, è l'Europa
ad avere una riuscita molto migliore.

Il grafico dimostra
le tesi di Marjolin: se si tiene conto delle notevoli differenze di
tempo a cui si riferiscono i segmenti del grafico, egli sembra avere
ragione a proposito della produttività, mentre i teorici dell'eurosclerosi
hanno la meglio sul tema della crescita.
La produttività è aumentata molto di più nei
paesi dell'Ocse che negli Stati Uniti in tutti gli altri periodi esaminati,
tanto che la leggera superiorità degli Stati Uniti nel biennio
1982-84 non basta a compensare la differenza. D'altro canto, la crescita
verificatasi negli Stati Uniti tra l'82 e l'84 è gigantesca;
e - dice Brittan - nei periodi precedenti c'è poco da scegliere
fra le due aree. Così, almeno dal momento della crisi petrolifera
del 1973, la crescita media degli Stati Uniti è stata di gran
lunga superiore.
Ma perché gli Stati Uniti dovrebbero essere al primo posto
nello sviluppo , ma non nella produttività?
La grande differenza sta nel fatto che gli Stati Uniti sono riusciti
molto più dell'Europa a creare posti di lavoro: così,
gli inferiori aumenti di produttività di cui l'America ha potuto
godere sono stati pienamente utilizzati e non sono andati perduti
nella disoccupazione.
In effetti, gran parte della crescita della produttività in
Europa non è stato di carattere tecnologico, ma ha rappresentato
una risposta all'eccessivo aumento del salario reale e di altre componenti
del costo del lavoro, e così (sostiene Brittan) ha contribuito
ad accrescere la disoccupazione. Forse il problema è quello
di un mercato del lavoro artritico, piuttosto che quello di un'economia
generale sclerotica.
Salari reali eccessivi hanno favorito il sorgere di ulteriori problemi
di vincoli di capacità e specializzazioni produttive, come
è dimostrato da un nuovo rapporto del Centro Studi di Politica
Europea, di Bruxelles (Rapporto dei quale il professor Giersch è
coautore); anche le politiche fiscali troppo conservatrici della Germania
federale (ma non quelle della Gran Bretagna) possono aver aggravato
le difficoltà esistenti.
Tuttavia, sostiene Brittan, ci sono segnali di speranza. Quando un
primo ministro socialista italiano è in grado di lottare e
di vincere un referendum sull'adeguamento dell'aumento della scala
mobile - conclude l'economista - riducendo in effetti i salari reali,
ci sono quanto meno segnali di buon senso. E forse più nell'"area
latina" che in quella "settentrionale" del frammento
occidentale del nostro continente.