Minimo spazio nelle
loro prime raccolte di epigrammi, a cominciare da Meleagro, concessero
a Nosside i padri fondatori dell'Antologia Palatina: soltanto dodici
epigrammi (dei quali uno : VI 273, forse anche spurio) per complessivi
quarantotto versi. Di Nosside anche (o specialmente?) autrice di canti
lirici (secondo una vaga indicazione del lemmatista di VII 414) in rapporto
con una tradizione di poesia lasciva tipicamente locrese e famosa in
tutto il mondo greco, a noi non è avanzata nessuna traccia. Soltanto
pochi epigrammi, quindi, ci son rimasti dell'antica poetessa: quanti
tuttavia bastano a farci rimpiangere gli altri - forse i più
- andati irrimediabilmente perduti. Ma, a parte ogni pur giustificato
rimpianto, quel che abbiamo è il fiore di un itinerario poetico.
La selezione - esigua ma intelligente - racchiude in qualche modo quanto
può almeno bastare ad introdurci nel piccolo mondo poetico di
Nosside e forse anche a farci intendere sia pure vagamente il nesso
della poetessa con il suo ambiente.
Nacque nel lembo estremo d'Italia, a Locri Epizefiri, una città
ellenistica, tra la fine del IV e i primi decenni del III secolo a.C.
- l'età appunto di Nosside ricca di fervore di arte e di cultura.
La poetessa è orgogliosa della sua città natale; in un
epigramma (VI 132) ricorda con fierezza la vittoria che un giorno (circa
300 a.C.) i suoi valorosi concittadini riportarono sui Bretti dei quali
vitupera la viltà. Le armi sottratte ai Bretti vili fuggiaschi
dai Locresi e che ora sono esposte nei templi della città, nonché
rimpiangere le braccia di coloro che le abbandonarono, inneggiano alla
gloria perenne della indipendenza di Locri. Risalta nel testo il sentimento
di fierezza e di ammirazione che Nosside prova per i Locresi, difensori
della grecità contro la barbarie. Con pari orgoglio la poetessa
esprime la nobiltà del suo ceppo gentilizio in VI 265; siamo
nel celebre santuario della dea crotoniate, Era Lacinia, descritto da
Livio (XXIV, 3, 3: ... sanctum omnibus circum populis ... ): si celebra
l'offerta alla dea di una elegante veste di bisso tessuta dalla madre
di Nosside, Theuphilis, e da Nosside stessa. L'epigramma è cletico
(e inizia normalmente con l'

) ma vi riluce nitidamente
la proclamazione della aristocratica stirpe, incastonata alla fine in
posizione enfatica. Un'altra energica dichiarazione leggiamo in V 170.
Nosside afferma che l'unico significato della vita è nell'Amore;
quanto la poetessa sostiene è così lapidario nella sua
formulazione che sembra dettato apposta, in sintonia con l'originaria
destinazione del genere epigrammatico, per essere scolpito nello spazio
ristretto di una pietra. Osserva il Cazzaniga (1): "E' un precetto,
una affermazione etica, un preannuncio, un messaggio come spiritualmente
ed artisticamente riferito ad un 'qualcosa'". Da qui l'ipotesi
dello stesso studioso che il componimento "apparisse come premesso
all'inizio del volumen delle liriche

d'amore di Nosside"
(2). Anche se suggestiva, l'ipotesi non pare accettabile; si direbbe
piuttosto che è tratto distintivo dell'arte della poetessa cogliere
con forza espressiva nel breve giro del "suo" epigramma, talvolta
addirittura in un verso soltanto, come meglio diremo, un momento di
vita, uno stato d'animo. Qui dichiara con efficacia incisiva il suo
modo di sentire (3); una dichiarazione che sollecita subito nell'animo
del lettore il ricordo di Saffo - paradigmatico l'accenno alle rose
- e Nosside forse vuoi già significare nel preambolo agli epigrammi
la sua totale adesione al personaggio poetico e umano di altri tempi
e di altra terra cui vuoi legare in eterno il proprio nome. Più
apertamente Nosside lega il suo nome a quello della grande Saffo nell'epilogo
del suo canzoniere.
L'epigramma (VII 718) ha tutti i tratti caratteristici dell'epitimbio.
La poetessa, chiusa nella sua tomba, apostrofa un navigante che veleggia
diretto a Mitilene: "... riferisci che io fui cara alle Muse ...
nata da donna locrese ... il mio nome è Nosside". Risulta
riprodotto, come si vede, lo schema canonico dell'epigramma funerario.
Ma il componimento, uno del più belli della silloge, chiaro nella
sua esterna cornice, ha sempre sollevato gravi difficoltà di
interpretazione, insite nel fondo dei contenuti, specialmente perché,
sempre più manomesso via via nel corso dei secoli, è giunto
a noi sovraccarico di congetture diverse e contrastanti. Recentemente,
due nostri studiosi (4) sono riusciti a risolvere quasi tutte le incertezze
esegetiche riconducendo il testo nell'alveo della sua originaria lezione.
Eliminate le inutili incrostazioni specialmente dei primi due versi,
produttive fra l'altro di assurde ipotesi (sarebbero state due le poetesse
con lo stesso nome, una Nosside contemporanea di Saffo, un'altra recenziore)
il senso corre ormai chiaro. Nosside, a chiusura del suo libro, avverte
il bisogno di lasciare un documento della sua sconfinata ammirazione
nei confronti della incomparabile personalità poetica di Saffo.
L'ammirazione si stempera, nel breve giro di un distico, in un commosso
saluto dove in filigrana sotto sotto è da leggere anche un giudizio
acutissimo sulle singolari qualità poetiche della grande Saffo.
Un saluto immaginariamente scolpito sulla pietra a ricordo di sé
(anche Nosside fu amica delle Muse), ma specialmente a ricordo della
maestra amata e sognata che qualche secolo prima aveva con diverso vigore
fantastico esaltato nel suo canto immortale il medesimo ideale di vita:
il primato di Amore su ogni altro bene. Ma Nosside non pretende - come
a torto qualcuno ha interpretato - di proclamarsi uguale a Saffo; sa
bene di non poter reggere al confronto. Avverte soltanto l'orgoglio
della sua, quale che sia, dimensione di poetessa nell'ambito del genere
epigrammatico. Altre cose sono le qualità della poesia: qui Saffo
non ha rivali. Non risiedono infatti nelle qualità poetiche le
tangenze che la poetessa di Locri avverte quando unisce il suo nome
a quello di Saffo; il punto d'incontro che Nosside sente nel profondo
di sé risiede, semmai, nella sua condizione esistenziale vissuta
a Locri sul ritmo di momenti e aspetti di vita in qualche modo affini
a quelli di Saffo.
Dicevamo del giudizio sulla poesia di Saffo che traluce anche nel messaggio
affidato al navigante. A Mitilene, dove è diretto, egli "potrà
infiammarsi al fiore delle grazie poetiche di Saffo" (5). Una poesia
che infiamma ed incanta: la singolarità del canto della grande
poetessa è colta in un solo verso con sorprendente acutezza.
Più tardi Plutarco, forse ricordando il pensiero di Nosside,
scriverà: "Saffo dice parole veramente mescolate col fuoco
e con le sue parole manifesta l'ardore del suo animo"; e ancora:
"Non vedi quanta grazia hanno i carmi di Saffo che incantano e
ammaliano gli uditori?" (6). Plutarco s'attarda a descrivere minuziosamente
(e ricorrendo anche ad una immagine grottesca: il paragone con Caco
che getta fuoco dalla bocca!) quanto invece Nosside con singolare forza
espressiva riesce a disegnare in un verso soltanto. Disegnare infatti
(non descrivere) nel breve giro di due distici (una misura ereditata
da Anite?) e, talvolta, in un solo verso (le armi che stanno nei templi
a cantare la gloria del Locresi, la poesia di Saffo che infiamma ...)
un momento di vita, uno stato d'animo, l'intima essenza di una situazione,
la spiritualità di una figura, questo è forse l'aspetto
più indicativo della personalità artistica di Nosside.
Nosside nel gruppo degli epigrammi votivi (tutti composti per donne,
ad eccezione di VI 132) evoca l'immagine di un vivere aristocratico
ed elegante trascorso nella cerchia di poche amiche fra oggetti raffinati,
ricami, ornamenti, profumi. Il velo di bisso tessuto da madre e figlia
ed offerto ad Era Lacinia, l'indumento artisticamente ricamato, donato
da Sàmita ad Afrodite, tolto alla propria chioma e che profuma
dello stesso unguento adoperato dalla dea per aspergere Adone (VI 275),
la statuetta di legno rifinita in oro, raffigurante Afrodite, che l'etera
Poliarchide donò appunto alla dea (IX 332), mandano fino a noi
una eco soltanto - tenue e sfumata - dell'ambiente aristocratico di
Locri dove la donna, sulla linea anche di tradizioni arcaiche di vita
non ancora del tutto scomparse (il matriarcato di cui è cenno
al verso 4 di VI 265), si configura in una sua particolare dimensione
umana e sociale. Di quattro di queste donne, amiche della poetessa,
tutte dame dell'aristocrazia locrese (i nomi sono tutti aristocratici),
Nosside ci lascia il ritratto corrispondente ai

votivi (opera forse
di illustri coropiasti) tutti esposti nei templi della dea dell'amore.
Di ciascuna la poetessa disegna con leggiadria, e puntualizza, più
che i tratti somatici, la carica psicologica che gli antichi chiamavano

la florida bellezza
di Callò (IX 605) che è anche il segno della sua interiore
serenità, l'altera amabilità di Taumareta (IX 604) che
"brilla nella luce delle sue pupille", la dolcezza di Melinna
(VI 353) che trova tutti i suoi umori nella affettuosità, la
saggezza di Sabetide (VI 354) che anche da lontano pare riflettersi
nella maestosità della figura. Il tema - il ritratto - non nuovo
nelle lettere greche - è di sapore tipicamente ellenistico ed
è ricorrente nell'Antologia; spessissimo si riduce ad una monotona
e fredda descrizione dei connotati esterni (la famosa

dei retori) con
l'immancabile elogio finale della figura descritta. Nosside invece,
nel trattare lo stesso tema, elimina ogni fronzolo descrittivo, tesa
soltanto a disegnare con una tecnica adatta al suo gusto ed alle sue
dimensioni il tratto caratterizzante delle amiche raffigurate, sull'onda
del suo sentimento ammirativo.
VII 414 è l'epitaffio per Rintone. Il poeta di Siracusa, morto
da poco, parla dall'aldilà nella sua tomba: reclama la gratitudine
dei viventi, lui che tante volte li fece sonoramente ridere col dono
dei suoi

"Se mai vi
feci ridere, dite ... una parola amica in memoria di me". Ciò
che più di ogni altra cosa risalta nel testo è l'originalità
del "piccolo usignolo delle Muse", la sua
Nosside condivide
con commossa partecipazione l'ideale raggiunto dal poeta nel suo genere,la
fabula rinthonica forse perché essa stessa, cara alle Muse, ha
la sensazione di aver lasciato nel genere epigrammatico una sua piccola
traccia nel segno della originalità.
NOTE
1) I. Cazzaniga, Nosside; a cura di M. Gigante. Calabria-Cultura 1977,
p. 21
2) Ibid.
3) L'immediatezza del sentimento prosasticamente sillabato ("dalla
mia bocca sputo anche il miele") risponde ad un bisogno dell'anima;
ed un bisogno dell'anima è anche la suggestiva autocitazione
con quel che segue subito dopo:
"e chi da Venere non fu baciato
ignora quali rose siano i fiori di lei"
Le rose di Venere; ma è stata sollevata anche un'altra ipotesi:
i fiori cui si riferisce Nosside non sono le rose della dea, sibbene
le proprie: cfr. A.S.F. Gow - D.L. Page, The Greek Anthology, Hellenistic
Epigrams, Cambridge 1965, I-II comm. ad loc. Comunque l'ipotesi rimane
tale, come l'altra conseguente: an Nossis publica fuerit.
4) I. Cazzaniga, Critica testuale ed esegesi a Nosside A.P. VII 718.
La Parola del passato, 25, 1970, pp. 431-445. E C. Gallavotti, L'epigramma
biografico di Nosside Studi di filol. e stor. in onore di Vittorio De
Falco. Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1971, pp. 241-250.
5) Il verso 2 che contiene il giudizio è così denso nella
sua carica semantica (specialmente il verbo enanw = ardere, bruciare,
che regge anqoV) che sembra quasi intraducibile in altra lingua; si
spiegano così le stesse manipolazioni e correzioni cui il verso
è stato continuamente sottoposto: cfr. specialmente Gallavotti,
cit.
6) Plut., Amat., 18, Orat. Pyth., 6.
|