Una volta i fondali
ionici e adriatici erano ricchi di reperti. I saccheggi, le rapine,
i recuperi indiscriminati, hanno creato il vuoto, anche se ancora oggi
è possibile localizzare numerosi "cimiiteri" di fronte
a Otranto, nell'area di San Cataldo, e in quelle di Ugento, Gallipoli
e Porto Cesareo.
I reperti archeologici sottomarini venivano in superficie casualmente,
impigliati nelle reti o nelle attrezzature della pesca. Poi, si cominciò
a ricercarli, dapprima per motivi di studio, in un secondo momento per
farne oggetto di commercio clandestino. I fondali ionico e adriatico
della penisola salentina erano ricchissimi di reperti. In particolar
modo, si trattava di anfore, anche se non era molto raro rinvenire anche
ancore, intere carene di navi da trasporto, proiettili di artiglieria
(questi ultimi risalenti a tempi ben più recenti), e inoltre
vasellame di vario tipo, colonne marmoree (anche queste!), e via dicendo.
La presenza delle àncore e delle anfore era dovuta, ovviamente,
ai naufragi delle navi da carico, frequenti al tempo della supremazia
dei greci sul mare. Schematicamente, gli studiosi ritengono che una
nave greca, di tonnellaggio medio, adibita al trasporto, avesse queste
dimensioni: lunghezza, venticinque metri; larghezza, sette metri; lunghezza
della chiglia, superiore ai sedici metri; altezza, oltre tre metri.
Le vele erano di forma quadrata o rettangolare, sviluppavano una superficie
di oltre 250 metri quadrati. La loro disposizione caratteristica "a
stendardo" non conferiva certamente alle unità marittime
facilità di manovra. E calafataggio veniva eseguito con canapa
e pece greca. La chiodatura, salvo qualche rara eccezione, in rame o
in bronzo. Una nave del genere, ritenuta - lo ripetiamo - di medio tonnellaggio,
poteva trasportare circa trecento anfore, con un carico medio che superava
di poco le cento tonnellate. Vi erano, ovviamente, navi minori ma anche
scafi di gran lunga maggiori, che potevano imbarcare fino a cinquemila
anfore. Tucidide, nella storia della guerra del Peloponneso, narra addirittura
che gli ateniesi avevano una unità marittima del tonnellaggio
di diecimila anfore.
L'anfora destinata al trasporto veniva chiamata, di norma, vale a dire
nel linguaggio comune, "olearia" e "vinaria", a
seconda dell'originario contenuto. Un altro tipo di denominazione la
ricorda come "rodia", o "italica", o, infine, "greco-italica".
Nel mare, riferisce in un suo indimenticato studio Raffaele Congedo,
un appassionato archeologo dilettante, se ne rinvenivano di ogni tipo,
di varia forma, dimensione, altezza, capacità. Si sono classificati,
in seguito, anche i diversi prototipi. Nel nostro Paese, il Lamboglia,
e poi il Roghi, hanno compiuto studi sulla nave romana di Albenga, che
giace su un fondale fangoso, alla profondità di quarantadue metri,
e su quella di Spargi, che si trova su un fondale di diciotto metri.
Le anfore olearie e vinarie prese in considerazione sono da ascrivere
al tipo "Dressel", databili al primo secolo a. C.: hanno una
capacità di venti litri, e bolli in alfabeto "osco"
di origine campana. Le recenti esplorazioni sottomarine, riferisce ancora
Congedo, hanno accertato i motivi per cui la quasi totalità delle
anfore da trasporto hanno il fondo appiattito: era una condizione imposta
dalla tecnica dello stivaggio, praticata anticamente. In altri termini,
si sistemava nella stiva uno strato di sabbia, sul quale si "piantavano"
le anfore; tra le intercapedini tra il collo e l'ansa di quelle stivate
servivano per reggere il secondo strato, poi il terzo, e via via gli
altri, allo scopo di sfruttare tutto lo spazio disponibile. Il carico
veniva completato col riempimento di tutti i vuoti esistenti tra anfora
ed anfora, tra strato e strato, molto probabilmente con l'impiego di
altra sabbia, al fine di ottenere un equilibrio e una stabilità
perfetti. La sabbia, in altre parole, esercitava le funzioni che sarebbero
state, in tempi più vicini a noi, esercitate dai trucioli e dai
tacchi di legno dei moderni imballaggi. Le anfore ricolme venivano chiuse
con un tappo di sughero o di legno, o anche di terracotta, ben aderente,
munito nel centro di una sporgenza prensile ad ombelico. Per ottenere
una chiusura ermetica, era sufficiente versare all'esterno del tappo,
che penetrava molto al di sotto del collo dell'anfora, la pece fusa.
Lo stivaggio risultava elastico, non sensibile al rollio né al
beccheggio; le anfore viaggiavano senza urtarsi o rompersi, perché
- con la sabbia - creavano un insieme assai compatto.
Il Majuri, a proposito delle anfore destinate ai trasporti marittimi,
quelle del tipo "Rodi", cioè dell'isola che fu per
circa tre secoli, ininterrottamente, centro di un'inesauribile produzione
anforaria, e che rappresenta una delle manifestazioni più notevoli
della vita industriale del periodo ellenico, ne descrive un tipo, costituito
da un corpo piriforme rotondeggiante, a spalle appiattite, con collo
alto, cilindrico, rinforzato da un bordo sottile, con anse a risvolto
impostate perpendicolarmente, un poco oblique, con il piede a corto
cilindretto pieno, che serviva di rinforzo e sostegno per l'appoggio
sul terreno. Altezza., da 78 a 80 centimetri; circonferenza lungo la
massima sezione, da metri 1,10 a metri 1,15.
Delle varie forme di anfore - o parti di esse - ritrovate e catalogate
nei fondali del basso Adriatico e dello Jonio, il tino più comune
è quello di "Scala di Furnu" (Scalo della Fornace).
nell'area di Porto Cesareo, ove, in corrispondenza della fascia di Torre
Chianca, sin nell'entroterra che nell'immediato tratto di mare, è
stato possibile osservare un paleosuolo costituito da grandi cumuli
di ceramica frammisti ad ammassi di scorie, ceneri, frammenti ignei
di antiche cotture. I sondaggi effettuati autorizzano ad affermare che
qui, per un lungo periodo di tempo, probabilmente durante i primi secoli
a cavallo della età cristiana, la località fosse adibita
alla fabbricazione di un unico tipo di anfora: piriforme anche questa,
dall'aspetto un pò tozzo, con la base a corto cilindro a punta,
incorporato, con manici corti, collo corto, spigoli vivi debordanti
ad angolo acuto all'esterno. Altezza intorno a 61 centimetri, circonferenza
di metri 1,20, circonferenza al collo centimetri 17, altezza del collo
all'attacco centimetri 9. Che questo tipo di anfora, afferma Congedo,
fosse fabbricato in loco, è confermato dalla presenza, nei pressi
della litoranea Porto Cesareo - La Strea, a circa due chilometri dal
nucleo abitato originario, di una "calcara": una massa scura,
informe, che dal bagnasciuga si prolunga in acqua per una decina di
metri, di roccia riarsa: evidentemente, una fornace destinata alla cottura
delle anfore, una volta interamente sulla terraferma, e in seguito,
per fenomeni di bradisismo, in buona parte sommersa dalle acque del
mare.
Il versante del basso Adriatico, invece, non ha fornito un tipo anforario
originale, ma solo prodotti anforari eterogenei, sparsi un pò
dovunque, soprattutto in corrispondenza di "secche", giacenti
sul fondo per naufragi. In compenso, questo mare ci ha offerto anche
un numero molto alto di àncore, vasellame. reperti minori. Molto
è stato salvato, molto di più è stato disperso.
Si pensi alle àncore tratte a riva, e distrutte per ricavarvi
il piombo! Tanto ha potuto l'avidità. A tanto è giunta
la disinformazione. o se si vuole, l'ignoranza, l'una e l'altra deleterie
quanto mai: bastano pochi dati, infatti, qualche reperto, anche ritrovamenti
che a prima vista possono ritenersi di poco o nessun conto. per mettere
gli studiosi in condizione di svelare un altro segreto, un aspetto sconosciuto
e originale, della nostra storia e di quella del bacino mediterraneo,
che per tre millenni fu l'"ombelico e il cuore del mondo".



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