Se per il Sud c'è
una frontiera ideale, oltre la quale possono essere sviluppo e benessere,
o per lo meno l'illusione ottica di una diversa dimensione civile, per
quest'isola invece duemila anni di invasioni, persecuzioni e sfruttamenti
hanno consolidato un fiero istinto di autodifesa e una radicata diffidenza
nei confronti di chi non è espressione di una civiltá
- quella autoctona - che malgrado i codici d'onore e le cristallizzazioni
resta, nella lingua, nei riti, nei comportamenti, tra le più
originali e intatte d'Europa.

Seconda isola del
Mediterraneo, ha un'area di 23.814 Kmq, più 275 Kmq di isole
minori. La sua maggiore lunghezza, dalla Punta del Falcone a nord a
Capo Teulada a sud, è di 271 Km; la maggiore larghezza, fra i
Capi Comino ad est e Argentiera ad ovest, è di 145 Km. La distanza
minima dall'Italia - da Olbia a Orbetello - è di 180 Km. Insieme
con la Corsica, con la quale forma un tutto unico, separato da una lingua
di mare, è il resto di una terra granitica emersa nel nostro
emisfero prima ancora delle Alpi e degli Appennini. Ha clima mediterraneo.
L'idrografia è a carattere torrentizio, con il Tirso massimo
fiume. Moltissimi i laghi e gli stagni costieri. Nel cuore dell'isola,
la montagna è aspra, impietuosa e bella. Alla sua ombra si aprono,
verdi pianure, i Campidani.
Barbaria
Aldo Bello
Verso la metà
del secolo scorso corse voce che Cavour volesse cedere l'isola alla
Francia. Vera o falsa che fosse la notizia, ne rimase anche dopo un
senso di sospetto e di reciproco imbarazzo. Da una parte, l'Italia sì
interessava pochissimo alla Sardegna, dall'altra Cagliari rimproverava
al "continente" sgarbi e sfruttamenti di tipo coloniale. In
realtà, gli stranieri più che gli italiani hanno tentato
di afferrare il senso riposto della storia, della lingua, delle tradizioni
e della cultura sarda. E l' isola, il più antico lembo di terra
emersa del nostro emisfero, ha aperto il cifrario della sua civiltà
agli stranieri prima che agli italiani. Qui, tra l'altro, sono maturate
esperienze che nulla hanno in comune con quelle "continentali".
Ad esempio: nell'isola vigeva, fino ai primi decenni del secolo scorso,
la comunità dei beni rurali. Ogni paese era concepito come l'epicentro
di un mondo a sé: la terra era affidata per un terzo ai contadini
e per due terzi ai pastori. D'anno in anno avveniva la rotazione. Tutto
ciò durava da millenni, fino a che Vittorio Emanuele I, con la
legge delle "chiudende", stabili la fine del sistema comunitario.
Cosa diceva la legge delle "chiudende"? Che per diventare
proprietari della terra bastava recingerla. Ne beneficiarono coloro
che sapevano leggere, cioé i ricchi, e coloro che avevano i quattrini
per le recinzioni vale a dire gli stessi ricchi. Da allora i pascoli
si trasformarono in una ricca rendita, mentre le condizioni dei pastori
divennero disperate. Crebbero la diffidenza, l'odio, il disagio economico.
Si perpetuò la guerra dei recinti, che divampa da oltre un secolo
coinvolgendo decine di migliaia di servi-pastori, sintesi perfetta di
fierezza e di arretratezza. Può apparire strano ma il trauma
causato da quell'editto è ancora oggi molto vivo. E proprio dal
senso di umiliazione e di frustazione del pastore nascono e si acutizzano
gli stimoli alla rivolta e alla vendetta sociale, che sono alla base
dell'odierna inquietudine pastorale.
Non è la prima volta che la situazione criminale della Sardegna
consiglia l'invio di rinforzi speciali di polizia. I primi "baschi
blu" vi sbarcarono un paio di migliaia di anni fa, verso il 19
dopo Cristo. Siccome le liti fra israeliti e greco-egiziani tenevano
sulla corda l'Egitto, il Senato romano (imperatore Tiberio) deliberò
di spedire nell'isola ebrei ed egiziani di bassa estrazione, che si
ostinassero nei loro culti "superstiziosi". Il Senato (dice
Tacito) rifletté che, violenti contro violenti, se la sarebbero
vista tra di loro. E spedì ben quattromila "poliziotti".
Egitto, Sicilia e Sardegna erano i granai di Roma. I soldati dovevano
difendere solo il grano.
Ci si può chiedere come mai, in un paese ben coltivato, in fondo
più ricco di oggi, potesse fin da allora svilupparsi un brigantaggio
tale da richiedere misure speciali. La risposta è che era ormai
un luogo comune per geografi e gli storici dell'epoca, (Diodoro Siculo,
Strabone), attribuire tutti i fatti di violenza alla barbarie della
popolazione del centro dell'isola. Scrive Strabone: avevano anche loro
terre fertili, ma alla coltivazione preferivano il ladrocinio, che a
volte esplodeva e si espandeva, né era facile reprimerlo. Come
si fosse formato questo "nucleo duro" si spiegava col fatto
che i tanti conquistatori della Sardegna, fenici e cartaginesi e greci
e romani, avevano fondato colonie sulle coste, occupando i pianori più
redditizi e cacciandovi gli aborigeni. Non avevano travalicato le montagne
che coprivano in tre punti cardinali, tranne che ad est, la regione
di Nuoro. Dopo i romani, i bizantini succhiarono l'ultimo sangue dei
sardi, lasciando poi alla deriva l'isola, che si divise in quattro Giudicati
che confinavano tra loro esattamente nella regione nuorese, che finì
per diventare eccentrica e poco "governabile".
In seguito, l'isola cominciò a passar di mano: Pisa e Genova,
poi Spagna, poi Savoia. Il centro nuorese restò sempre eslege.
Quando, col Risorgimento, si cercò di far qualcosa, Sardegna
e Nuorese diventarono oggetto di studi etnologici, quasi cavie per gli
esperimenti nel laboratorio della scuola positivista di Lombroso e
Sergi, di Enrico Ferri e Alfredo Niceforo. Fin da allora l'isola risultò
prima nella graduatoria criminale per il gran numero di delitti consumati
nell'area di Nuoro. La scuola positivistica diede una spiegazione tipica
delle cause: chiuso fra le montagne, il Nuorese non aveva seguito l'evoluzione
del resto del mondo e si trovava ancora in uno stadio molto primitivo
di moralità per il quale era suprema virtù l'"aggressività".
A questa causa fondamentale andavano aggiunte quelle concomitanti: scarsa
viabilità, piccola proprietà mandata in rovina dallo sfruttamento
e dal fiscalismo, malgoverno, indisponibilità di beni civili
e servizi sociali. Ma restava come fatto determinante il "temperamento
regionale", che il Niceforo accostava al comportamento tipico del
selvaggio e del criminale. Perché i poveri selvaggi, in clima
di evoluzionismo, se la passavano male, essendo - appunto - non evoluti,
cioè inferiori in ogni senso. Perché allora il Settecento
ammirò tanto i primitivi? Perché in quel secolo si formarono
le grandi nazioni, e per formare le grandi nazioni fu necessario risvegliare
lo spirito tribale, attribuirgli l'etichetta di una morale autoctona,
renderlo guerriero ed eroico. Certo, la guerra non fu abitudine dei
primitivi, ma un'invenzione della civiltà. Tanto è vero
che, a discarico dei nuoresi, dev'essere sottolineata la non-frequenza
dei delitti d'onore, che tuttavia può esser frutto di una morale
sessuale abbastanza elastica. Della quale si occupò anche un
uomo di chiesa, San Gregorio, il quale delimitò una "zona
calda" tra Barbagia e Nuorese, fino alle propaggini meridionali
del Gennargentu: "Regione montuosa - scriveva - in cui abita gente
che vive nei boschi, senza leggi né vera religione, che si dice
sia rimasta là quando l'isola venne ricuperata dalle mani dei
barbari d'Africa. Le sue donne sono eccessivamente sensuali e impudiche,
e gli uomini lo permettono. Infatti, dato il caldo e le cattive abitudini,
girano vestite di lino bianco, e sono così scollate da mostrare
il petto e le mammelle..." In queste stesse aree si assisteva alle
corse dei cani scuoiati. Dati questi punti di partenza, la scuola positivista
non poteva che giungere ai dogmi delle strutture fisio-somatiche: poiché
i sardi sono alti tanto, mediamente; hanno la testa con misure e conformazioni
tipiche; fronte prognata collo occhi bocca che rientrano in certi nostri
parametri: non possono che essere tendenzialmente portati a delinquere!
Questo il verdetto positivista. E il socialismo coevo, che protesse
questa scuola arruffona e cialtronesca, non apri bocca: tacendo, approvo.
E' stato detto che la mitizzazione letteraria e scenica del delitto
è un vecchio male, non soltanto italiano. Perciò in Sardegna
i sequestri di persona, le uccisioni, le rapine aggravate, le evasioni,
spesso costituiscono la materia prima di una sinistra epopea. Nuorese
e Barbagia sono stati un nostro piccolo Vietnam pastorale, che nei momenti
di maggior tensione ci ha dato uno spaccato impressionante della realtà
sarda: il banditismo affonda le radici in uno società che, abbandonata
da Roma, continua ad essere un reliquato etnico, con rapporti di produzione
e sistemi di vita che sono il terreno di coltura della violenza.
La criminalità tradizionale, figlia della società pastorale,
sopravvive in quasi tutte le sue manifestazioni tipiche. Essa prorompe
dall'economia di ovile e si fonda sui reati collegati al possesso e
alla difesa del bestiame: abigeato, sconfinamento, sgarrettamento, sfruttamento
abusivo dei pascoli, macellazione clandestina, vendetta. Ha una fisionomia
precisa, origini storiche e psicologia caratteristiche. La pastorizia
rappresenta ancora uno dei cardini dell'economia sarda. Se le statistiche
registrano una diminuzione di quei reati tipici, ciò dipende
da circostanze legate alla crisi generale dell'agricoltura e degli allevamenti,
allo spopolamento delle campagne e delle montagne, all'inurbamento,
all'emigrazione. Ma finché esisterà una pecora si rinnoverà
il tentativo di appropriazione: l'isolamento dell'uomo dal mondo delle
comunicazioni civili incoraggerà l'arretratezza del costume in
un gioco tragicamente anacronistico.
E' una verità relativa che il pastore tende ad abbandonare definitivamente
l'ovile per trasferirsi in città e che il processo d'integrazione
nella civiltà delle macchine e dei consumi non proponga alternative
sociali e psicologiche alle condizioni di pastore inurbato. Questo accade.
Solo non spiega la diffusione dei reati caratteristici della criminalità
moderna. E' vero che il pastore trasferisce nella città tutto
il suo bagaglio di mentalità tabù, costumi e bisogni,
che stanno alla base della criminalità tradizionale. Tuttavia,
sarebbe un grave errore supporre che la ondata criminale di cui sono
investite le città sia conseguenza diretta di questa tendenza
ad abbandonare i pascoli e gli ovili. Il pastore è abituato a
farsi giustizia, con i mezzi a sua disposizione: non scrive lettere,
non usa telefono, non guida auto veloci, non sa destreggiarsi fra le
insidie della psicologia urbana. E' un solitario che agisce nella consapevolezza
di trovare protezione e aiuto nel meccanismo delle complicità,
proprio del suo mondo.
Sono invece le nuove fonti di reddito, (industrializzazione, commercio,
turismo, speculazione sui terreni.), ad aver prodotto una nuova criminalità,
del tutto estranea all'antica vena maligna. A nuove risorse corrispondono
nuovi bisogni. Come la società pastorale ha generato e tiene
in vita una delinquenza primitiva e rudimentale, così la civiltà
delle macchine esprime e determina la formazione di una delinquenza
in grado di approfittarne in schemi moderni. La speculazione sull'uomo
ha sostituito la speculazione sull'animale. Spesso accade che la criminalità
di città si serva della criminalità di campagna. Ma sono
alleanze occasionali. A differenza del pastore-bandito, il ricattatore
o il sequestratario opera su un terreno che esige organizzazione e calcolo.
procede con scrupolosa preparazione tecnica, agisce con mentalità
da gangsters. Non è un solitario. Ha possibilità di mimetizzazione
nel tessuto stesso delle città, perché viene anche da
ceti insospettabili. Si adegua alle situazioni ambientali. E' tenace,
spregiudicato. Ha scoperto, attraverso i mezzi di comunicazione di massa,
gli idoli e i vizi della società contemporanea: tutto un campionari
o suggestivo di equivoci e illusioni, senza l'aiuto della morale e della
cultura. E' disponibile al rischio come alternativa alla mancanza di
valori e di prospettive, come protesta irrazionale contro la politica
(nel significato primo dell'etimo: vita del cittadino). Si converte
al crimine anche con superficialità. Solo le sue tecniche non
sono superficiali. Ciò che lo accomuna al pastore-bandito è
la ferocia. Per il resto, sono personaggi inconfondibili.
Il rapporto offesa-vendetta è il tema fondamentale dell'ordinamento
giuridico che la "società di Barbagia" si è
data attraverso i secoli, in contrapposizione all'ordinamento giuridico
statale. Questo ha origine riflessa, quello è di formazione spontanea.
La pratica della vendetta non promana da una codificazione scritta.
Si identifica in un concetto genericamente perseguito di giustizia locale,
privata, alla quale però si attengono intere comunità.
E' la giustizia barbaricina, ereditata come regolamentazione di un sistema
di vita associata e come risultato di una mentalità in ritardo.
Essa si origina da un complesso di usi, costumi, condizioni psicologiche
e ambientali che sopravvivono in aree dell'interno, in una società
rurale che ha il più fitto insediamento nella Barbagia, antica
"Barbaria", terra aspra, indocile, che ha, difeso i suoi caratteri
originari, resistendo a lungo alla penetrazione di "civiltà"
esterne.
"La vendetta barbaricina come ordinamento" è il titolo
di uno studio interessantissimo condotto da Antonino Pigliaru, intellettuale
di notevole impegno politico. Pigliaru sviluppa l'idea che le genti
barbaricine si sono imposto un codice che può essere inteso come
ordinamento giuridico sia nella sua attuazione pratica che nel suo senso
etico. L'enunciazione delle norme scaturisce dall'osservazione del costume,
dal cumulo delle testimonianze, dalla realtà dei rapporti all'interno
delle comunità pastorali. Il concetto ispiratore è identificabile
nella vendetta come metro di giustizia. Di conseguenza, non deve stupire
la constatazione che anche la vendetta è condizionata dal rispetto
della verità. Le responsabilità meritevoli di vendetta
debbono risultare chiare e ineccepibili perché la punizione sia
approvata, legalizzata dalla complicità della comunità
o del gruppo o della famiglia. Altrimenti non ha motivazione morale,
è pretesto per il sopruso. Ecco quindi scattare il rozzo meccanismo
di un processo istruttorio per l'accertamento delle colpe reali e l'individuazione
del responsabile. In questo campo la verità della giustizia legale
non fa testo.
Secondo il codice, la vendetta è "proporzionata, prudente
progressiva". Ha l'elasticità delle pene previste dal codice
penale. E proporzionata alla gravità dell'offesa ricevuta, prudente
nell'accertamento preliminare delle responsabilità e nell'esecuzione,
progressiva nel tempo e nelle modalità. Dal quadro generale si
deduce che la vendetta ha scadenza: alla stregua di una sentenza, può
cadere in prescrizione. Quella che non decade è la vendetta volta
a lavare le offese di sangue. Poiché all'impegno vendicativo
è legato tutto il gruppo di chi ha ricevuto l'offesa, la punizione
può essere realizzata da un qualsiasi componente. Inoltre, questa
vendetta è un impegno ereditario. Il che rappresenta una delle
più grosse difficoltà per le indagini su un delitto in
Barbagia: non si sa quasi mai a quando risalgano i moventi. L'evoluzione
dei tempi ha insegnato l'utilità della vendetta trasversale,
o su commissione. In un tessuto mentale di tal genere, è facile
immaginare quante deformazioni a tinta criminale possono emergere, e
quante forme può assumere l'attività criminale.
Se l'evoluzione economica e sociale della Sardegna avesse raggiunto
prima o poi i risultati che si speravano, forse oggi non parleremmo
ancora di un banditismo sardo protagonista di casi clamorosi. Le cose
sono andate diversamente. Oltre tutto, gli scarsi interventi dello Stato
hanno trovato in risposta da parte dei dirigenti locali non una vera
pianificazione, ma programmi frammentari e indecisi, abbozzi di iniziative
o troppo timidi o insensatamente grandiosi. Si è auspicato con
frenesia uno sviluppo economico realizzato solo dai sardi, ma i tentativi
hanno avuto il respiro corto. Quando si è visto che non servivano
a mutare la situazione, si è chiusa l'esperienza e ci si è
consegnati agli imprenditori del Nord e d'oltralpe, senza aver nemmeno
predisposto i piani per convogliare le iniziative in un programma organico.
Ad Orgosolo, antica capitale del banditismo sardo, il vecchio fuorilegge
si modella sul giovane gangster. Vi perdurano tutte le forme di delinquenza
tradizionale, le faide tra dinastie di pastori, le sanguinose lotte
tra latitanti. Vi si rispecchia la Sardegna immobile degli uomini dal
viso duro, che indossano stivali e giacche di velluto, immersa in una
delinquenza apparentemente statica, che ha traversato i secoli senza
consumarsi. Il cimitero sorge su un alto sperone bieco e freddo. E le
tombe, le nicchie, i sacelli, i monumenti funebri sono rivolti in giù:
i morti guardano in faccia il palazzo di città ove ha sede l'autorità
costituita. A leggere certe lapidi, pare di trovarsi di fronte a martiri
del Risorgimento. E sì tratta dei più sanguinari fuorilegge,
braccati per anni dietro ai loro delitti, e uccisi in conflitto con
le forze dell'ordine. Circonda Orgosolo una natura ferma, pietrificata.
Il sole è nemico delle colture. I monti, spopolati, sono montagne
crepate, sventrate dalle forre, butterate dalle bocche di mille cunicoli.
Unica forza dirompente, il delitto, l'omertà, la latitanza. Tra
le montagne più tenebrose biancheggia da alcuni anni un collegio
per ragazzi. E' il primo del Nuorese, e persegue lo scopo di sottrarre
all'ambiente le nuove generazioni. Non lo gestisce lo Stato, bensì
i camaldolesi, giunti qui da una terra lontana e straniera: da Arezzo.
Questo Stato, venuto in Barbagia travestito da frate, riassume le condizioni
che consentono alla criminalità sarda d'avere nuove morfologie.
Orune è nel cuore della più vasta e intatta "repubblica"
di pastori" isolana. Appare tra i monti scheggiati, tra i grandi
spazi della Barbagia, tra le solitudini immense. E' più tristemente
famosa della stessa Orgosolo come roccaforte del sardismo immobile.
Il paese è tra i meno poveri dell'area, ma il mondo pastorale
non ha rinunciato al suo terribile codice. Qui si cantano i "muttos",
le lunghe, dolcissime lamentazioni funebri accanto al corpo del bandito
ucciso, le poesie che tessono le lodi del caduto. E' un canto che ha
origini remote e misteriose. Dice: "Ciò cantiamo di te,
a vergogna dei vili". Vile, a Orune, è chi non si fa bandito.
Oliena, Mamoiada, Fonni, Cabras. Sembrano paesi senza tempo. Tutta la
Barbagia è una terra verticale,. alza al cielo colline e picchi.
Ma dentro c'è il vuoto, e più che terra di banditi sembra
terra di asceti. Bitti è un villaggio che genera fuorilegge a
catena. Sono aree stupende, dominate dal massiccio azzurro del Gennargentu,
sui cui contrafforti si aprono l'Ogliastra e le tre superbe Barbage,
Ollolai, Belvì e Seulo, boscose e selvagge oggi, una volta culla
della civiltà protosarda e cuore della più autentica Sardegna.
Striano i monti calanche orride, precipizi micidiali. Lungo la costa,
da Orosei in là, non c'è banditismo. Ma dicono che gli
uomini migliori non sono qui. Sono nelle terre orientali, quelle che
hanno dato il novanta per cento della "Sassari", la più
celebre brigata dell'esercito italiano: quella che aveva cancellato
dal suo linguaggio, per sé e per gli altri, la parola pietà.
Ollolai, Orotelli. E' scritto sui muri: "Pro che rughere in manos
de sa zustiscia, mezus mortus". Piuttosto che cadere nelle mani
della giustizia, meglio morto. Gavoi, Sa Caletta: vi si parla l'antico
latino, quello dei trovatori. E' la stessa lingua del codice non scritto:
"Furat chie furat in domo o chie venit dae su mare". Ruba
chi ruba in casa o chi viene dal mare. Gli abitanti sono quasi tutti
imparentati fra di loro, e divisi in pochi cognomi fondamentali: un
delitto o un furto, qui, scatenano vendette che sono un'ecatombe.
Nuoro fu promossa capoluogo per motivi di ordine pubblico, perché
ci fossero prefettura, questura, tribunale, carcere; perché i
briganti che allora popolavano i suoi monti sentissero più vicina
la mano dello Stato, che allora non temevano. che oggi - sulla scorta
del pensiero separatista di Asproni - disprezzano. Gli orli marini hanno
aspetti molto vari: rocce a picco sulle acque e spiagge aperte mutano
ad ogni passo, le coste sono vigilate dalle torri di guardia erette
da Filippo secondo. All'interno, splendidi resti della civiltà
protosarda.
Il cammino che l'isola deve ancora compiere si misura volando a bassa
quota sulle piane dei Campidani: dalle rughe sconvolte della Barbagia
e dell'Iglesiente scendono al mare distese secche e nude, avvolte di
riverberi rossi e viola, con gli improvvisi scacchieri verdi delle aree
fertilissime raggiunte dalle irrigazioni.
All'orizzonte meridionale si staglia Cagliari, capitale che non ha rimpianti
di antiche grandezze.
Logudoro, Anglona, Gallura. Povere terre occidentali dell'alta Sardegna,
con tanta acqua che si potrebbero creare le più vaste risaie
d'Italia. Vi si diffonde un turismo costoso, elitario. Nuovi faraoni
ripropongono la cronaca dell'invasione costiera. Ai villaggi fenici,
cartaginesi, romani, si sostituiscono quelli consumistici del Club Mediterranee.
Ai nuraghi succedono le ville dei nuovi ricchi. Una cortina di tufi
bianchi, status symbol del benessere altrui, cinge d'assedio la millenaria
povertà dell'altra Sardegna: quella più vasta e più
vera, terra forse più chiusa, ma certamente meno colpevole al
giudizio della storia.
Letteratura di
Sardegna
Ada Provenzano
Documenti scritti
in volgare sardo, provenienti - oltre che dall'isola - anche dalle biblioteche
di Pisa, Genova e Marsiglia, risalgono al secolo XI: sono carte di donazioni
patrimoniali, franchigia o immunità, regesti di compravendita,
lasciti, sentenze, che illustrano una vivace attività economica
di chiese e monasteri. A questa funzionalità "civile"
della lingua sarda non corrisponde però un uso propriamente letterario.
Anzi, la cultura isolana si rivela singolarmente chiusa e quasi refrattaria
ad ogni influsso esterno; e la stessa situazione linguistica ha caratteri
di fortissima autonomia e si differenzia profondamente dai dialetti
italiani contemporanei. Il latino, dunque, continua ad essere la lingua
colta per la letteratura agiografica e didattico-religiosa.
Ad esso si aggiunse, dopo l'occupazione aragonese, lo spagnolo, che
sopravvisse fino al secolo XVII, secolo in cui cominciò a prender
piede l'italiano, consolidato e ufficialmente riconosciuto lingua delle
popolazioni urbane colte solo nel secolo successivo. Fino al Settecento,
dunque, fu pressoché nullo il contributo dei sardi alla letteratura
italiana. Il primo, e si può dire unico nome di rilievo è
quello del cagliaritano Carlo Buragna (1634-1679), che, peraltro operando
lontano dalla terra natia, si inserì nel quadro della letteratura
meridionale.
Anche nel secolo dell'Illuminismo, sulla scia delle scarse riforme innovatrici
e del costante sfruttamento della Sardegna, il moto rinnovatore della
cultura passò come un debole vento sulla testa dei sardi. Sono
da ricordare insigni figure di riformatori: G. Cossu e un piemontese,
Francesco Gemelli; il giurista sassarese e fondatore del diritto marittimo
Domenico Azuni, il quale poi, nostalgico esule a Parigi, illustrerà
le tradizioni e i costumi della sua regione, pubblicando opere che costituiscono
gli incunaboli della storiografia locale, (Essai sur l'histoire de Sardaigne,
Histoire géografique, politique et naturelle de la Sardaigne).
La sua opera sarà poi ripresa e sviluppata, anche se con diversi
intendimenti e disposizioni d'animo, nel Risorgimento, da sardi d'alto
ingegno, cui va il merito di avere inserito la regione nella vita nazionale.
Per citare i maggiori: Giuseppe Manno e Giovanni Siotto Pintor.
Il volto dell'isola, però, si riflette meglio nella letteratura
dialettale, già nata sullo scorcio del secolo XVI come affermazione
di indipendenza dagli spagnoli. Poesia religiosa e civile, storiografia,
saggio, favolistica, trovano cultori di rilievo, soprattutto nel secolo
XVIII, da G. Araolla a M. Madau, R. Congiu, G. Delogu Ibba, G. Pes,
G. P. Cubeddu, P. Pìsurzi, F. I. Mannu, E. L. Pintor. Con i poeti
dell'Ottocento si ha un'adesione più intensa all'animo popolare.
Ne sono esponenti maggiori A. Canu, P. Pasu, P. Calvia,
e soprattutto A. Casula, detto "Montanaru". E la tradizione
poetica in vario vernacolo sopravvive anche nel nostro secolo, con toni
e spiriti sostanzialmente immutati, restando la voce più autentica
e l'espressione più compiuta dell'anima sarda.
A questo patrimonio preziosissimo consapevolmente si ricollegano quegli
scrittori che tra la fine dell'Ottocento e il Novecento danno alla letteratura
nazionale opere di primo piano: Salvatore Farina, Sebastiano Satta,
Annunzio Cervi, Grazia Deledda, che diede al nostro paese un premio
Nobel, e ancora Giovanni Moi, e il più vivo degli scrittori sardi
contemporanei, Giuseppe Dessì, e Tonino Ledda poeta della repubblica
pastorale di Ozieri, e il ciassicista (come poeta e come narratore)
Francesco Zedda, e il robusto Emilio Lussu, e infine Gramsci, che con
Gobetti diede all'Italia una nuova, moderna coscienza critica, e aprì
ampi varchi nella muraglia dello storicismo crociano.
Storia di Sardegna
Pino Orefice
Largamente rappresentata
è la civiltà neolitica, in grotte naturali e artificiali
e in resti di villaggi all'aperto. Nell'epoca del bronzo la civiltà
sarda ha un cospicuo sviluppo, soprattutto con i nuraghi (vi si è
rinvenuta suppellettile industriale e guerriera), e con il culto dei
morti (seppelliti nelle "tombe dei giganti", che sono uno
sviluppo dei dolmen, o nelle "domus de janas", grotte scavate
artificialmente).
Verso il secolo VIII a. C. si ha l'espansione fenicia, proseguita dai
Cartaginesi. Entrano poi in scena i Greci, e verso la metà del
secolo VI il dominio dell'isola è conteso da Cartagine e dalle
poleis elleniche. Gli africani ebbero la meglio, anche se estesero il
dominio e il controllo solo sui litorali, mentre gli indigeni si ritirarono
all'interno, restando liberi, e scatenando, senza soluzione di continuità,
fino alla metà del secolo scorso, una serie di rivolte. L'isola
fu provincia romana nel 226 a. C. Assunse in questo periodo una notevole
importanza strategico-navale e fu centro di rifornimento granario per
L'Italia continentale.
L'occupazione dei Vandali, avvenuta intorno al 455, segnò l'inizio
di una rapida decadenza delle città sarde e della civiltà
dell'isola: si ebbe all'interno una ripresa dei Barbaricini, e il paganesimo
vi resistette almeno fino ai tempi di San Gregorio Magno. Tra la fine
del secolo V e il principio del VI l'isola fu forzatamente centro di
cultura ecclesiastica: vi erano stati inviati ripetutamente in esilio
vescovi africani dai re vandali persecutori del Cattolicesimo. Nel 534,
con la conquista di Belisario, la Sardegna tornò sotto l'Impero
romano. Ci fu poi una brevissima occupazione di Totila. La dominazione
bizantina si distinse soprattutto per il suo oppressivo fiscalismo.
I Longobardi non si stabilirono mai nella Sardegna. Iniziarono invece
già nei primi decenni del secolo VIII le incursioni musulmane,
provenienti dall'Africa e dalla Spagna, che durarono fino alle soglie
del secolo M. Abbandonata a se stessa, l'isola si difese da sé,
sviluppando un'organizzazione locale fondata sui Giudicati, che dopo
il Mille furono quattro: Cagliari, Arborea, Logudoro e Gallura. Poi
intervennero le repubbliche marinare di Genova e Pisa, che sconfissero
i musulmani, ma inaugurarono nello stesso tempo una lunga epoca di reciproche
lotte per il predominio sull'isola. Solo nel 1326 Pisa rinunciò
ai suoi interessi sardi in favore della casa d'Aragona. Dopo diverse
rivolte di indomabili capi locali (soprattutto nel giudicato d'Arborea,
con la leggendaria Eleonora), si ebbe l'ispanizzazione dell'isola, con
la diffusione di un feudalesimo aragonese-catalano che, nonostante alcuni
buoni provvedimenti, tuttavia aggravò la decadenza dell'isola.
In questo periodo la popolazione subì perdite enormi e massiccie
emigrazioni.
Il trattato di Utrecht (1713) assegnò la Sardegna all'Austria
che, col trattato dell'Aia (1720), la passò a Vittorio Amedeo
II di Savoia, in cambio della Sicilia. Alla fine del regno del terzo
Vittorio Amedeo, l'isola fu coinvolta nella prima guerra di coalizione
contro la Francia rivoluzionaria. Si ebbero poi vari tentativi di occupazione
da parte francese. Seguirono tempi difficili, con malcontenti, moti,
rivolte. Dopo la restaurazione, il viceré Carlo Felice effettuò
alcune riforme amministrative e legislative, riprese poi più
radicalmente da Carlo Alberto. Nel 1835 si ebbe finalmente l'abolizione
del feudalesimo. Dodici anni dopo fu abolita l'autonomia dell'isola.
Da allora, la storia della Sardegna fece parte di quella del Piemonte
e dell'Italia.
A. Gramsci
Claudio Alemanno
Nacque ad Ales nel
1891, mori a Roma nel 1937. Figlio di un povero impiegato del registro,
sperimentò fin da piccolo l'indigenza familiare e la miseria
del contadino e del pastore sardo, e a un tempo visse a contatto con
una natura selvaggia e favolosa che molto contribuirà, più
tardi, alla sua umana ricchezza d'animo. Nel 1911 partì per Torino,
dove seguì le lezioni di Cosmo, Farinelli ed Einaudi, entrò
in contatto con l'ambiente operaio, avviò le collaborazioni ai
giornali. Nel maggio '19, con Togliatti, Terracini e Tasca, fondò
L'Ordine Nuovo. Durante il XVII Congresso del Psi, a Livorno, guidò
la scissione che portò alla nascita del Pci. Nel '22 fu a Mosca,
nel '23 a Vienna, nel '24 a Roma. Due anni dopo fu arrestato e condannato
a cinque anni di confino a Ustica. Il Tribunale Speciale mutò
la pena, portandola a 22 anni e 4 mesi di carcere. Fu trasferito nella
casa penale di Turi, presso Bari, dove, dopo nove anni, ebbe la prima
emotisi. Per le pressioni internazionali (Gorkij, l'Arcivescovo di Canterbury),
fu trasferito prima a Formia, poi a Roma, dove mori nella clinica Quisisana.
La cognata riuscì a sottrarre all'Ovra 2.800 pagine dei 32 quaderni
nei quali per un decennio Gramsci aveva lasciato il segno del suo pensiero.
Sulla questione meridionale Gramsci scrisse diverse pagine. Al di là
di quanto lasciò nei "Quaderni", il suo pensiero fu
espresso a più riprese -e in differenti sedi - con "Il Mezzogiorno
e la guerra", con "Clericali ed agrari", con tre articoli
su "Operai e contadini", con "Il Mezzogiorno e il fascismo",
con "Alcuni temi della questione meridionale". Gramsci impostava
la "questione" come un ponte che garantiva una sostanziale
unità politica al Paese nei suoi effettivi contenuti (blocco
industriali-agrari), da ribaltare con la rivoluzione, frutto di un'alleanza
operai del Nord contadini del Sud. Ecco l'analisi gramsciana: la società
meridionale è un grande blocco agrario costituito da tre strati
sociali: la grande massa contadina, amorfa e disgregata; gli intellettuali
della piccola e media borghesia rurale; i grandi proprietari terrieri
e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento,
ma come massa essi sono incapaci di dare un'espressione centralizzata
alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali
riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività
politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi
intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima
analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Secondo Gramsci,
il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella
misura in cui riuscirà ad organizzare in formazioni autonome
e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri,
ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito
anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco
intellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima
del blocco agrario. In questo modo, Gramsci prendeva le distanze da
Salvemini (che aveva anticipato l'alleanza tra operai del Nord e contadini
del Sud, ma in una visione di larga solidarietà nazionale), e
nello stesso tempo attaccava i due massimi esponenti del mondo politico
e intellettuale del Sud, Giustino Fortunato e Benedetto Croce, definiti
"in un certo senso, le più grandi figure della reazione
italiana".
PROFILI DELLE
REGIONI DEL MEZZOGIORNO
5. - Sardegna
Guglielmo Tagliacarne
Una Regione in
via di sviluppo specialmente per l'industria e il turismo.
La Sardegna è
una regione povera rispetto alla inedia nazionale, ma, insieme all'Abruzzo,
è la "più ricca" nel Mezzogiorno. Infatti, posto
uguale a cento il reddito medio pro capite prodotto nel complesso nazionale,
abbiamo per la Sardegna un valore di 81,1, contro 65,1 in Molise, 68,0
in Campania, 71,6 in Puglia, 66,8 in Basilicata, 57,7 in Calabria, 70,6
in Sicilia. Solo per l'Abruzzo si constata un valore di 82,8, lievemente
superiore a quello della Sardegna.
Anche se consideriamo un gruppo di consumi e di spese non alimentari,
abbastanza rappresentativo delle condizioni di vita della popolazione,
troviamo la conferma dei dati precedenti. Posto uguale a cento la media
dell'Italia dei consumi pro capite, gli indici per le regioni del Mezzogiorno
pongono la Sardegna al di sopra delle altre regioni con la sola eccezione
dell'Abruzzo, che di poco supera la Sardegna; ecco i dati: Sardegna
76, Molise 57, Campania 71, Puglia 71, Basilicata 52, Calabria 52, Sicilia
73, Abruzzo 78.
Esistono però forti divergenze fra le province sarde: Cagliari
è quella più favorita, mentre Nuoro è la più
depressa.
La regione sarda lamenta una forte emigrazione sia verso le altre regioni
italiane, sia verso l'estero; ma è da notare che questo fenomeno
di perdita demografica si sta rapidamente attenuando.
Pochi decenni orsono la popolazione attiva era prevalentemente occupata
in agricoltura, ora presenta invece una prevalenza nelle attività
industriali e in quelle terziarie e dei servizi.
Nell'intervallo
fra il censimento del 1951 e quello del 1971 la popolazione addetta
all'agricoltura è diminuita del 58,8 per cento, mentre quella
occupata nell'industria è aumentata del 26,5 per cento.
Secondo l'ultima indagine sulle forze di lavoro effettuata dall'Istituto
Centrale di Statistica, riguardante la situazione nel luglio 1976, è
risultato che le persone occupate in tale data erano 23.000 nel settore
agricolo e 143.000 nel settore industriale.
Anche nell'occupazione in complesso la Sardegna presenta uno sviluppo
considerevole, molto superiore a quello delle altre regioni del Mezzogiorno.
Infatti fra luglio 1975 e luglio 1976, contro un incremento del numero
di occupati del 2,4 per cento in tutta Italia e del 2,3 per cento complessivamente
nel Mezzogiorno, la Sardegna ha conseguito un aumento del 6,8 per cento
(+3,5 per cento in Campania, +4.9 per cento in Puglia, -0,4 per cento
in Sicilia, -2,7 per cento in Abruzzo, +1,5 per cento in Basilicata
e in Calabria).
L'analfabetismo non è ancora debellato in molti comuni che presentano
quote superiori ,al 10 per cento della popolazione al di sopra dei sei
anni di età. Nonostante l'elevata quota di analfabeti, la Sardegna
figura in buona posizione riguardo a vari aspetti culturali, come risulta
dai tassi di scolarità e dagli indici di lettura.
Le carenze che si lamentano in questa regione sono ancora notevoli,
sebbene esse vadano di mano in mano restringendosi. Sui 356 comuni della
Sardegna, si può stabilire quanti dispongono di certi servizi
essenziali e quanti ne sono sprovvisti.
Recentemente è stata creata la quarta provincia della Sardegna,
Oristano, in aggiunta a quelle di Cagliari, Sassari e Nuoro.
La nuova provincia ha 149.285 abitanti con 75 comuni e una superficie
di 2.630,57 Kmq (densità 57 abitanti per Kmq).
A causa dell'emigrazione, molti comuni hanno accusato una diminuzione
del numero di abitanti. Nei venti anni fra il 1951 e il 1971, solo 30
comuni di questa provincia hanno registrato un aumento di popolazione,
mentre 45 hanno accusato una diminuzione.
La dinamica demografica è importante perché rivela, in
sintesi, le possibilità e risorse economiche presenti in loco.
Il capoluogo, Oristano, ha conseguito fra il 1951 e il 1971 un incremento
di popolazione del 60 per cento, mentre i comuni di Bauladu e di Boroneddu
hanno avuto una perdita di oltre il 30 per cento.
Si può avere un indice abbastanza rappresentativo dello sviluppo
dell'industrializzazione in Sardegna, conseguito negli ultimi anni,
con taluni indici come ad esempio il consumo di carburante per gli stabilimenti
industriali. Nel 1975 detto consumo è stato in Sardegna il 9,2
per cento del totale del consumo nazionale, pari all'incirca alla quota
riguardante la Puglia, mentre per la Sicilia esso è solo del
3,1 per cento e in Campania del 3,3 per cento di tutta Italia.
Un'attività in forte incremento in Sardegna si riscontra nel
settore turistico, che trova in questa regione elementi nettamente favorevoli:
1) ottimi alberghi, 2) magnifiche spiagge, 3) panorami di eccezionale
bellezza, 4) gente cortese e accogliente, 5) numerose attrattive sportive,
di caccia e di pesca, 6) clima piacevole, 7) buone strade, 8) facili
collegamenti con il Continente.
Nel 1974 i clienti ospitati in Sardegna sono stati 95.701 con 714.961
giornate di presenza negli alberghi e 16.641 negli esercizi extralberghieri
con 174.214 giornate di presenza.
La permanenza dei clienti ospitati negli alberghi della Sardegna è
assai superiore a quella della media nazionale: contro una media per
tutta Italia di 4,5 giornate, la media per la Sardegna è stata
di 7,5 giornate (nel 1974). Il maggior numero di ospiti è stato
registrato nella provincia di Sassari, tanto per gli alberghi quanto
per gli esercizi extralberghieri.
Rispetto alla nazionalità degli ospiti è da rilevare una
notevole prevalenza per la Germania e il Regno Unito. Pure notevoli
sono le provenienze dalla Svizzera, dalla Francia, dal Belgio e dagli
Stati Uniti.
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