Questi sono i confini
della democrazia, nel
cui ambito la politica
deve avere un’anima,
questo è il più autentico
patrimonio di un
popolo, il presidio irrinunciabile
del suo vivere
democratico. |
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Due autori salentini
Uomini, libri e divagazioni
«Divagazioni», le ha definite. E forse l’evidente
sobrietà (addirittura minimale) della
definizione è in piena empatia con il suo
temperamento mai tentato dall’urlo, dall’invettiva
o dalla partigianeria. Glielo impedivano
una profonda cultura, (cultura in
atto, e coltivata senza soluzione di continuità),
e una non comune sensibilità civica,
che lo ha portato a servire il Paese con un
impegno politico durato sei decenni.
In realtà, proprio questa naturale vocazione
esclude che si tratti di pure e semplici digressioni
o di romantiche evasioni letterarie.
Percorrendo gli scritti di Storia e Storie.
Riflessioni su politica e società (1999-2006),
di Giacinto Urso, volume che raccoglie
quanto apparso negli appuntamenti domenicali
in una rubrica sul “Quotidiano”, si
coglie subito l’ampio spettro degli interessi
dell’Autore, che dispiega a tutto campo
esperienze dirette, attività pubblica, severo
lavoro di ricerca per il superamento delle
contraddizioni presenti nella nostra società.
Sicché l’unitarietà del testo emerge dalla coniugazione
di alcuni temi locali, del Salento
e del Mezzogiorno, con quelli (ovviamente
di gran lunga più numerosi) nazionali, e
dall’interconnessione della politica con la
storia (e con le storie), per politica intendendo
la vita della polis, e di conseguenza le
garanzie delle libertà e la tutela dei diritti
del cittadino.
Deputato per cinque legislature, sottosegretario
alla Pubblica Istruzione, presidente
della Commissione Sanità alla Camera, poi
presidente della Provincia di Lecce e di numerosi
enti e istituzioni nazionali, a lungo
difensore civico, infine ancora sindaco di
Nociglia, Urso ha attraversato anni decisivi
della vita nazionale con una militanza fondata
sulla concezione di una democrazia
permeata di valori forti e di profonde matrici
umanistiche e cristiane percepibili in filigrana
lungo l’intero percorso cronologico
richiamato. Ecco dunque le voci della filiera
di argomenti che hanno identificato l’arco
storico: si va dal terrorismo ai disagi del
Sud, dall’attualità della lezione di De Gasperi
alla fine della Prima Repubblica e alle
vittime della gogna – non soltanto mediatica – di “Mani pulite”, dall’indispensabilità
dei partiti alla riforma elettorale, dalle considerazioni
sulla droga alla devolution bossiana,
da Bin Laden al Grande Fratello, dall’addio
alla lira alla diaspora dei cattolici in
politica, dai problemi della sicurezza a quelli
del federalismo, dallo spoil system ai danni
del giustizialismo, dalla lezione di Moro all’Europa
allargata, da Nassirya al risveglio
della religiosità, dalle stagioni di Berlusconi
e di Prodi alla guerra civile delle parole…
 |
Nello Wrona |
Un grande e prezioso caleidoscopio, nel
quale ricorrono memorie e situazioni d’attualità,
lezioni di comportamento e testimonianze
sulle storture che hanno condizionato
la società italiana nel suo insieme e
proiettato ai nostri giorni l’irriducibile dualismo
Nord-Sud.
Materiale prezioso, utile
soprattutto perché i giovani possano rendersi
conto che il mondo contemporaneo in
realtà preesisteva, aveva già piantumato gli
alberi della modernità, era stato interprete
di un’azione politica, di politica economica
e di avanzamento civile, sociale e culturale che essi poi hanno ricevuto in eredità, non
per contemplarlo come simulacro astratto,
ma per coniugarlo ancora al futuro. Di qui,
il valore di questi scritti e della loro non comune
acribia storica: “Con profonda amarezza – afferma Urso – si assiste alla dispersione
di documentazioni e archivi soprattutto
politici. Diviene, perciò, salutare, pur nei
limiti di considerazioni soggettive sul tempo
affrontato, offrire una serie di fatti e di dati
culturali finalizzati a conservare, ad approfondire,
diffondere e valorizzare la memoria
della storia e della cronaca, che, naturalmente,
avrà bisogno di ulteriori confronti
con altre voci e con altri personaggi”.
Questi sono i confini della democrazia, nel
cui ambito la politica deve avere un’anima,
deve ispirarsi ad una genuina etica delle istituzioni
e a un forte senso della legge: questo è il più autentico patrimonio di un popolo,
il presidio irrinunciabile del suo vivere democratico.
Emerge da queste pagine il principio
secondo cui la politica deve avere una
visione del bene comune, deve esprimere e
comunicare dei valori, senza i quali non si
possono fare progetti, e meno che mai realizzarli;
e in assenza dei quali non si può
infondere fiducia nei cittadini, o motivarli a
impegnarsi nel pubblico e nel privato. Il servizio
nei loro confronti è la sola giustificazione
del potere. Di complemento, la buona
politica deve fondarsi su un processo democratico
la cui premessa è il riconoscimento
reciproco tra le forze in campo, consapevoli
che la loro legittimazione è il consenso popolare.
In questo contesto, non bisogna
stancarsi di tener fermo il sestante delle regole
del buon governo, prima fra tutte quella – inderogabile – secondo cui il luogo privilegiato
per l’incontro fra le forze politiche è solo ed esclusivamente il Parlamento, cuore
della democrazia reso vitale dall’esercizio
nel Paese della libertà d’opinione e da un
corretto pluralismo dell’informazione.
In Parlamento si confrontano – non si fronteggiano
per scontrarsi – maggioranza e opposizione,
ciascuna con i propri diritti, in
un dialogo che è l’essenza stessa della democrazia,
il cui sale è la “concordia discors”
tra le istituzioni.
È questo – ci sembra – il messaggio fondamentale
che emerge dalla crestomazia di argomenti
che formano trama e ordito di Storia e Storie. Non a caso: la formazione
umanistica rende Urso consapevole che l’idea
di democrazia parlamentare nacque nel
Mediterraneo, e che da tre millenni quest’idea
si è dimostrata la dottrina migliore per
far convivere pacificamente le tendenze e le
opinioni diverse che da sempre esistono nelle
società e negli Stati. La democrazia è la
base della prosperità dei cittadini e delle loro
istituzioni. Senza democrazia, la stabilità è effimera, il progresso economico è una
meta sfuggente, la libertà («la talpa che scava
da millenni», come l’ha definita Hegel) e
la dignità della persona sono valori astratti,
disancorati dalla civiltà dei diritti umani.
La lunga militanza politica, infine, esercitata
con l’esemplare onestà, con la lealtà e
con la passione che contraddistinguono gli
autentici testimoni della Res publica, e riflessa
in queste splendide pagine a loro modo “annalistiche”, rivela che il tempo non
ha consumato la sua capacità di concertare
emozione e ragione; non ha affievolito la
schiettezza del suo stile narrativo; non ha
smarrito le certezze dei suoi sentimenti e dei
valori da condividere, che sono parte costitutiva
dell’etica civile; non ha mutato le
coordinate della sua propria vocazione.
Semmai, gli fa sentire nella testa e nel cuore
il dovere del ricordo: un dovere per se stessi
e per le nuove generazioni, nella speranza
che la forza della memoria aiuti a non esser
costretti a rivivere storie che sono state più
tragiche che grandi, e guidi verso un mondo
più giusto, dove il coraggio del progresso
prevalga sulla paura.
Una lunga citazione, per riassumere in
qualche modo l’humus variegato, fecondo, e
per tanti versi profetico dei contenuti del libro.
Riassumiamo da un articolo comparso
nella seconda metà del 2005, d’una attualità
sorprendente. Scrive Urso: «È accaduto anche
a me, sprovveduto e curioso, di riflettere
su quanto ho raccolto per iscritto e nei
discorsi, rivolti al compimento dei miei 80
anni di età e di quasi 60 anni di attività
pubblica. Per l’occasione, inevitabilmente,
con la parola si è attraversata, in lungo e in
largo, la memoria del passato, corrispondente
in particolare al secondo mezzo secolo
del Novecento trascorso». Gli argomenti
citati dall’Autore: gli anni 1940-‘50 contrassegnati
da una guerra perduta, dalla dissoluzione
della Nazione, dalla fame, dalla caduta
di un sistema dispotico, dal timido avvento
della libertà e della democrazia; lo
scontro ideologico tra le forze politiche dell’epoca;
il richiamo ai livelli di rispetto e di
tolleranza di quei tempi, la partecipazione
popolare, l’ansia di imparare, gli incontri
associativi, il controllo sociale collettivo
(cioè la partecipazione della gente) basato
sull’incontro, il raffronto, il dialogo e anche
la critica; l’antico buon livello della politica
dell’ascolto, della ricerca del bene pubblico;
la saldatura del talento di chi aveva cultura
con la fecondità di chi aveva istintivi pregi
di buon senso.
Sostiene l’Autore: «Stranamente, questi e
altri argomenti sono apparsi più che graditi
alle generazioni di oggi, ricavando entusiasmo,
riflessione, scambi di idee, curiosità,
meraviglia, anche incredulità, confessioni di
sconoscenza e ricerca di assimilazione. È
sembrato, insomma, di scoprire una diffusa,
anche se sconsolata, presa d’atto di cose
perdute, che si vorrebbero ravvivate perché
presenti nel sottofondo dell’anima».
Ed è questo “travaglio dell’attuale società”
che, per Urso, (il quale lascia aperto un varco
alla speranza, valore, sì, politico, ma soprattutto
profondamente umano e cristiano),
va interpretato e affrontato, prima che
sia tardi, tenendo conto che ora come ora
seduce e attrae il non-bene, più che il bene,
e l’apparire e l’avere più che l’essere; e che è
su questo dualismo che si giocherà la partita
decisiva per lo smarrimento o per la riconquista
della ragione, del discernimento e
della coerenza.
ltra ricostruzione storica, questa
volta sotto il profilo più squisitamente
religioso, o meglio, di un
contenzioso religioso, che – caso forse unico
al mondo – ha avuto come esito la creazione
di una confraternita gemella di titolo analogo
(per la Madonna dei Dolori), come conseguenza
di una controversia in parte di
chiara lettura e in parte di potenziali interpretazioni
tra il Capitolo della chiesa parrocchiale
e la Confraternita della Pietà, che con l’intervento determinante di alcune importanti
famiglie locali realizzò la nuova
Chiesa dell’Addolorata, rifondando in pratica
la Congregazione della Pietà e dei Dolori.
Storie di ordinari contrasti paesani, di conflitti
di potere e di ricerca di libertà d’azione,
si potrebbe osservare. Ma non nel caso
della ricostruzione storica redatta da Tommaso
Leopizzi (dell’Ordine dei Frati Minori
d’Assisi), Autore che ha alle spalle un lungo
e rilevante esercizio di ricerche storiche, che
ci hanno consegnato testi pregevoli, da Matino, storia e cultura popolare, a Gente venutadalla Santa Terra di Ponente, (profili biografici
di Missionari francescani del Salento
nella Cina continentale nei primi decenni
del Novecento), agli studi sul francescanesimo
e sulla Chiesa di S. Antonio a Fulgenzio
in Lecce, a quelli sulla presenza domenicana
a Matino. L’Autore, infatti, al di là della
cronaca pura e semplice, riferita con sereno
distacco, grazie a specifiche documentazioni
non solo in non pochi casi ha dato rigore
storico e ristabilito verità oggettiva ad alcuni
fatti e accadimenti oscuri o nebulosi, e ha
prospettato ipotesi verosimili là dove non si
sono rintracciate fonti consultabili o attendibili,
ma ha anche allargato il discorso sulle
caratteristiche architettoniche e artistiche
dei due edifici sacri gestiti dalle Confraternite
parallele (la Chiesa della Pietà, del XVII secolo, con l’incantevole Arco che è
l’emblema direi aristocratico – non soltanto
sotto il profilo strutturale – della città; e la
Chiesa dell’Addolorata, oggi Santuario, del
secolo successivo), e sulle manifestazioni in
forma di “artigianato artistico-religioso”
della devozione popolare espressa nelle numerosissime
edicole votive (se ne sono contate
più di sessanta) presenti nella città e
nelle campagne circostanti. E proprio questo
dà valore aggiunto al testo: ben oltre
quanto Leopizzi aveva già scritto nella storia
di Matino (sia nella prima che nella seconda
edizione aggiornata), qui si illustrano
le opere d’arte: le tele e gli affreschi, in modo
particolare; poi le statue; ma anche
strutture portanti, emblemi della fede e dei
riti; e gli altari superstiti o dei quali si ha sicura
memoria; e gli arredi sacri; e infine le
stesse edicole, con accurate analisi esplicative,
con ampie descrizioni dei soggetti, con
notizie sugli autori delle opere d’arte. Ed è
in particolare in virtù di questo lavoro
esplorativo, prima ancora che descrittivo, che Leopizzi ci offre un panorama visivo, e
quasi tattile, delle raffigurazioni pittoriche
che impreziosiscono la fabbrica di Santa
Maria della Pietà, capolavori pittorici francescani
probabilmente attribuibili a un Giuseppe
Guerra, nei quali «è racchiuso l’intero
progetto salvifico di Dio per l’umanità
operato dal Cristo uomo-Dio, nato dalla
Vergine Immacolata attraverso la sofferenza
e il dolore del Figlio e della Madre».
 |
Statue in cartapesta all’interno del Museo di Sant’Antonio a Fulgenzio, a Lecce - Archivio BPP |
Mentre nel Santuario dell’Addolorata risplende
la stupenda rappresentazione pittorica
della Crocifissione, opera del francescano
Raffaello P. Pantaloni, il quale volle che
centro dell’azzurrata composizione fosse «Gesù dal cui volto si irraggia, degradante
in circoli concentrici, la luce solare che illumina
il cielo, gli Angeli, gli uomini e le cose – Egli che è il centro dell’Universo, il Re del
creato – la luce del mondo».
Gradevolissima la lettura. Del resto, questo
scrupoloso indagatore della storia locale ci
aveva abituati alla disposizione alla scoperta.
Non sorprende, dunque, la novità dell’estensione
maieutica non alla semplice illustrazione,
ma alla vera e propria critica
d’arte: per il lettore, un aspetto sostanziale
di arricchimento; per lo studioso, uno stimolo
a nuove, probanti ricerche, grazie anche
all’ausilio, che Leopizzi mette a disposizione,
di una cospicua appendice, di una
bibliografia e di un’ampia citazione delle
fonti.
a.b.
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Vorrebbe un padre
nostro per dormire e
svegliarsi un altro uomo.
Il disertore vorrebbe
urlare no, io
non voglio più
ricordi. |
Stagioni d’amore e d’abitudine
Se torna il disertore
Stralune di Antonio Errico può essere scritto
solo con lucida premeditazione. Sapendo
che a trattare della memoria si finisce con il
debordare, se non si calibrano tempi, ritmo,
tono di scrittura. Perché «il ricordo si è
spezzato come filo alla conocchia». Bisogna
ricomporre quindi il filo. Allora forse il racconto è medicina, il racconto come confessione,
supplica, specchio che riflette. Il racconto
come flusso di coscienza, o sbronza
liberatoria. Il racconto come resoconto.
In Stralune il protagonista è un disertore.
Fugge da un fantomatico fronte per ritornare
da quelli che ha amato, coloro da cui
forse è stato amato più di quanto egli abbia
saputo fare. È nel suo incontro con le figure
di madre, figlia, padre, amante che inizia la
guerra. Quella vera, senza trincea né tregua.
Le figure che il disertore ritrova non hanno
quasi un volto, né possono mostrarlo. Sono
voci.
Pure voci che si fiancheggiano e si
escludono man mano. Voci che sulla ribalta
del ricordo non recitano un copione. Sono
voci di poema. Voci archetipo, nelle quali
ripensarsi. Voci che straparlano e imprecano,
per ritornare al buio da cui s’erano sottratte
come talpe. Lo stesso buio che spetta
al disertore, sorpreso a guardarsi dentro e
intorno, a rincorrersi sul filo del destino, sino
a congelare su una panchina, ormai
sfiancato dalle voci.
 |
Nello Wrona |
Sono figure, queste voci. Ma figure concrete,
che non giocano a nascondersi. Danno tutto
di sé, tutta la rabbia e la dolcezza, tutto il
rammarico e il vigore. Alcune, tra loro, si sono
rifatte una vita. Non hanno ceduto alla
tentazione di lasciarsi sfiorire. Altre sono rimaste
isolate e disilluse, sono deserti. Come
nei precedenti libri di Antonio Errico, le
voci-figure sono corpo e respiro della narrazione.
E ancora si affrontano senza mai toccarsi,
estranee alla fisicità. Hanno già tutto condiviso
nel passato e ora, ritrovandosi, possono
testimoniare dell’abbandono e dei reciproci
pensieri. Voci, questa volta, più dense.
Voci domestiche. Stavolta riunite in una sorta
di staffetta del disertore, che traversa una
città insonnolita, sprofondata nell’acquaneve,
prigioniera del suo passato di fantasmi e
leggende, ma che qui appare solo in filigrana.
Qui è un teatro nebuloso di parvenze. Una
frontiera balorda, ora fosca, ora sospesa.
Ancora una volta Errico elegge suo nume tutelare Giorgio Caproni. Il poeta delle figurazioni, dei viaggi posticci. Perché il disertore
di Stralune conserva tutti negli occhi.
Li ha tutti con sé, quelli da cui vagheggiava
di allontanarsi. Sono tutti con lui, un
tradimento dopo l’altro, da anni. Li aveva
solo taciuti, prima di tornare da loro un’ultima
volta. Prima di lasciarli parlare senza
mai interruzioni. Il disertore aveva solo rinviato
il momento. Finché ha potuto, finché
le forze e l’incoscienza hanno retto. Perché
ritornare, ritornare ai ricordi non è un giro
di valzer. È la guerra che tutti disertiamo,
inutilmente.
C’è un bellissimo film di Giuseppe Tornatore, Una pura formalità. Roman Polanski è
lo scrupoloso commissario di una fatiscente
caserma dove svolge un lavoro ripetitivo e
misterioso allo stesso tempo. Le sue indagini,
i riscontri, gli assistenti al suo fianco
concorrono tutti ad una difficile impresa:
soccorrere chi ha perduto i ricordi.
Chi, per
paura, viltà, amnesia o finzione ha dimenticato
ogni cosa, ogni affetto. Chi ha stracciato
la sua identità. Gli ospiti che si succedono
in quel tugurio di commissariato, sono
accomunati dalla medesima “colpa” della
dimenticanza. Una tazza di latte caldo li
accoglie all’ingresso, una stretta di mano li
congeda per consegnarli alla memoria ritrovata.
Canta Gerard Depardieu nella canzone
che chiude il film: «Ricordare, ricordare è un po’ come morire / tu adesso lo sai /
perché tutto ritorna/ anche se non vuoi./ E
scordare, e scordare è più difficile / ora sai
che è più difficile / se vuoi ricominciare».
Ecco, il disertore di Stralune tornerà alla vita
forse alleggerito, forse affannato, non si
sa. Perché c’è un’ombra ad accompagnarlo
per il racconto, un’ombra silenziosa che lo
segue incessantemente. Un’ombra che sembra
assolverlo, talvolta punirlo, quasi sempre
confonderlo. Un’ombra che nell’epilogo
il disertore finalmente riconosce, quell’ombra
che s’accende in un accenno di sorriso,
di un’imprecisata levità. Un’ombra che tornerà
nelle pagine future di Errico. Da quelle
anteriori non s’è mai separata. Si legge nel
libro: «Adesso gli sembrava tutto chiaro.
Adesso gli sembrava tutto vero. Come se
tutto fosse stato sempre vero. Gli sembrò
che l’ombra adesso sorridesse. Pensò che
l’ombra adesso lo aspettava».
Non si sa con quale animo il disertore ritornerà
alla vita. Di opposizioni è disseminata
la sua strada. Di volontà e delirio, di resistenza
e fiacchezza è fatto ogni suo desiderio. È il dissidio ad agitare ogni fase di Stralune.
Il conflitto mai risolto fra reale e visione,
oblio e ricordo, audacia e nostalgia. È una questione di fortuna mettere tutto al
suo posto senza troppa e vuota pena. Fortuna
se l’amarezza non schianta la gioia, se
lo stupore vince sulla resa dei giorni. Fortuna
se sopportiamo la solitudine del ricordo,
lo sgomento in cui ci lascia il ritorno. Fortuna a reggere lo sconcerto di ritrovare stravolti quelli che avevamo lasciato. Fortuna,
in fondo, a ritrovarli.
Stralune è un poema, composto con una
tecnica ben precisa. Antonio Errico lascia
parlare le voci, senza particolari descrizioni
o distensioni proprie del romanzo. Lascia
scorrere il torrente di parole che ogni voce
teneva serrato. Lascia che ogni voce rompa
gli argini del ricordo. L’autore amministra
le coordinate di prosa e poesia. Sa che mescolarle
non serve, si tratta appunto di amministrare.
Quando le parole, da sole, sanno
generare un’emozione. E quando occorre
incastrarle nelle combinazioni lunghe,
nelle antinomie. È la tecnica della composizione,
in cui la guida maestra è la musica. E
niente, come la musica, è più vicino a un
poema.
Le voci-figure, quindi. I miti, o gli antenati,
se preferiamo. Gli stessi a ritornare da millenni
nella letteratura, quelli a dirci sempre
qualcosa di nuovo. Assumono tutte le volte
nomi diversi, distinte sembianze, origini
nuove. Ma sempre così fertili, tenaci, dirompenti.
Ciò vale tanto per i miti della tradizione
quanto per quelli familiari.
Questi ultimi vivono il quotidiano dei nostri
occhi e delle nostre proiezioni. Bisognerà
allora fingere di ignorarli, meglio ancora di
renderli oggettivi, perché possano tornare a
sorprenderci. Annota Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò: «Sappiamo che il più
sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di
fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto.
Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà
– miracoloso – di non averlo visto mai».
Si sa che solo certi punti fermi danno un
senso a ciò che siamo. Solo chi e cosa ci circonda,
o da cui siamo stati circondati. Chi
scrive lo sa bene, esattamente quanto chi
non scrive. Non è una scelta, ma una disarmante
evidenza. Noi possiamo ritardare
l’occasione in cui le nostre figure, alla pari
dei nostri luoghi d’infanzia, si riuniscono a
noi senza più mollarci. Queste figure, questi
luoghi sembrano dirci: vai, fai il tuo viaggio
e poi ritorna, torna qui da dove eri partito.
Il disertore di Stralune fa un’estrema circumnavigazione.
Sprofonda negli stessi baratri
e chiarori che compongono il suo viaggio.
Il tragitto che si snoda è segretezza e luce
piena. Talora tutto questo il disertore lo
detesta. Avrebbe solo voglia di dormire, solo
passione di scordare. Vorrebbe scomparire,
disertare ma stavolta sino in fondo.
Scordare le stagioni d’amore e d’abitudine.
O quei monti d’Albania intravisti da ragazzo
con il padre. Vorrebbe solo una preghiera
che lo salvi dal disastro. Vorrebbe un padre
nostro per dormire e svegliarsi un altro
uomo. Il disertore vorrebbe urlare no, io
non voglio più ricordi. Eppure non ha fiato,
sembra dovere assecondare l’urgenza della
memoria. Lui può solo ritornare a chi ha
amato e chi tradito.
Il tradimento è il motore dei suoi ritorni.
Non necessariamente l’inganno del corpo.
 |
|
Semmai è il tradimento della memoria a
bruciare, che lo ammutolisce e lo guida nell’inquietudine
fonda della notte. È il dimenticare,
che non si perdona. Né glielo perdona
quell’ombra ignota attorno. Per questo,
al termine del libro, l’ombra riappare ma tenera,
come sfamata.
L’ombra ha vegliato
sul compito assolto dal protagonista. Ora la
battaglia non ha vincitori né vinti. Forse
ora è tutto alla pari. Forse è l’ora buona per
ricominciare. «Adesso puoi andare», dicono infine al disertore.
pierluigi mele
In un’ora
da non perdere a Lecce
Mi “ritrovai” a Lecce un giorno
con un’ora da “perdere”
in anticipo sul pullman che “mi va”
a casa dall’università e viceversa
Corro in piazza S. Oronzo... ora
mi guarda da lontano
di sotto rischiai la decollazione d’Otranto
con l’allungarsi del pomo di Eva
e il recidersi della cervicale
tutt’intorno un festoso cicaleccio
grembiulini colorati
file e file grandi e piccole
attaccate alle maestre
si sventagliano all’improvviso
come a mazzi di una danza
in cori e pari intenti “mi ritrovo”
a perdermi nel tempo
dell’Anfiteatro restaurato
Col pensiero dell’ora poi
credendo d’accorciare
evito le... maestre e
incappiata “mi ritrovo”
nel labirinto del Barocco
Lesto il piede e
tardo l’occhio e il senno
che “si perde” all’infinito
nelle ricche giravolte di...
fioriangelianimalivisi
tutti a guardia del sagrato di S. Croce e
nella comunione di piazze... e... vie
con quei balconi tutt’attorno d’alifiorianimali
a cui non sfuggi e
tutti chiusi alle due del pomeriggio
deserto
|
chiusa e sola
con la fifa che t’incalza
in croce e perduta ti ritrovi
con due extracomunitari
senza un cristo che t’aiuta
Abala mason cha!!!
con slarghi di sorrisi e
la mia bocca stretta stretta
nel corpo teso teso
e le mani imbalsamate
in mille croci del pensiero
ai piedi del mio Dio
Acc…! ma perché mi dissero…
Sono umani come noi… e più
mi convinco in quell’“incrocio”
E col petto che tutt’a un tratto
mi ribatte forte forte son mutata e
son sputata dalla bocca grande
grande
della Verità
su libri e giovani studenti e…
“mi ritrovo tutt’insieme” e
spensierati
in orario perfetto
in viale Taranto e
nel pulman che mi culla
dall’Università a casa e
viceversa.
|
maria santoro
Orizzonti arroventati
Orizzonti arroventati
Est Ovest
non demordono
S’arriccia e freme l’onda
un vento gelido sovrasta
trascina e ingloba catastrofi
annunciate
Bevo l’immenso amaro
e t’amo
mio Mediterraneo
arteria delle genti
Un fiele di schiuma
ti sovrasta
Mi ribolle nel capo
l’idea interrogante
ragioni non ragioni
|
Sbriglia i tuoi bianchi destrieri
sull’onde roventi
aggriglia egoismi e…
“Quando riprenderai Mare *
il tuo dominio…”
su queste amare coscienze
allora sarà l’Apoteosi
di un giorno nuovo
palme solleveranno l’azzurro
mio brillante Mediterraneo
integrante
*Verso ripreso in omaggio a
Vittorio Bodini. |
maria santoro |