Rude e disinibito.
Spesso i suoi versi,
anche quando
hanno esiti
pantagruelici con
inni al vino
e a polli arrosto,
tradiscono
un’amarezza
di fondo
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Nel panorama della poesia salentina, in dialetto
e in lingua, fra Ottocento e Novecento,
don Salvatore Casto di Alliste (1853-
1936) è uno sconosciuto. Nel 1983 pubblicai
su “Presenza Taurisanese”, numero di dicembre,
tre sonetti sotto il titolo rubricale I Salmi di Papa Tore. Con questo nome, nei
primi anni Ottanta, lo ricordavano ancora
le persone più anziane di Taurisano, di dove
era originario per parte di padre e dove
era stato parroco dal 1° luglio 1900 al 1°
marzo 1914.
In quell’anno, come si legge in una sua nota
sui “Parroci che hanno retto la Chiesa di
Taurisano”, «fu accettata la rinunzia e si ritirò
in Alliste sua patria». Lui stesso, in alcuni
suoi appunti, chiama «mio avo» un
certo Paolo Casto di Taurisano (1).
Due dei citati sonetti, tematicamente contigui,
hanno un unico titolo “Il duello” e raccontano
con toni comico-burleschi di una
singolar tenzone, che doveva tenersi fra il
duca di Taurisano, probabilmente Luigi
Lopez y Royo, e un non identificato suo avversario,
che di fatto però non ebbe luogo,
perché l’uno “Dopo un’orribil notte […] /
Avea la faccia smorta e i pannilini / Tuttiimbrattati…”, l’altro, per prepararsi alla
pugna, sapendosi incapace di scherma, dopo
essersi messo a menar fendenti in casa
con una spada, colpendo mobili, sedie e pareti, “Cadde sfinito, e così fu trovato // Dai
suoi padrini i quali con essenze, / Dopo
averlo dal sonno richiamato, / Risero molto
delle sue imprudenze…”. La vicenda si concluse
con una pubblica bugia, “Scontro avvenuto senza conseguenze”, per non offendere
i permalosi signorotti locali e per accontentare
le attese della gente che aspettava
l’esito del duello.
L’altro sonetto ha per titolo “Trasfigurazione”.
Con chiaro intento dissacratorio e blasfemo,
l’autore riferisce un curioso episodio
di vita clericale. Un prete, che egli chiama
ossimoricamente “pazzo regolare”, nel giorno
della Trasfigurazione, cui è intitolata la
Chiesa Madre di Taurisano, entrò in chiesa
e, postosi di fronte all’altare, con la schiena
rivolta ai fedeli, “…a due mani l’abito talare
/ Si alzò di dietro con l’inclinazione, / Il
deretano posesi a mostrare / A tutta quanta
la popolazione”; poi, rivoltosi al pubblico,
ammonì: “Non dite a chicchessia ciò che vedeste”.
Un modo stravagante per spiegare
al popolino ignorante il senso della Trasfigurazione
di Nostro Signore, ma allo stesso
tempo un rovesciamento del mondo secondo
l’antropologo Bachtin in una sorta di estemporaneo carnevale, salvo che il giorno
in cui si celebra la Trasfigurazione è il 6 di
agosto (2).
Don Salvatore Casto era un personaggio
caratterialmente assai vigoroso, un prete tosto,
rude e disinibito, dal volto beffardo e lo
sguardo obliquo, come appare in un ritratto,
che alternava slanci devozionali a cadute
di incredibile volgarità, molto preparato e
colto, autore versatile e all’uopo raffinato.
Parroco in un paese difficile, lacerato da rivalità
perfino all’interno delle stesse famiglie
dei litigiosi signori del luogo, conoscitore
di vita, morte e miracoli delle famiglie bene
del paese, di cui ha lasciato schede assai
interessanti; non estraneo alle beghe politiche
paesane, lui parteggiando per la cattolicissima
famiglia ducale e in particolare per
Filippo Lopez y Royo. Battagliero difensore
degli interessi della Chiesa, anche materiali,
rivendicò il possesso della Cappella di
San Martino contro lo stesso Duca; non
meno che di quelli spirituali, scrisse un libretto
con lo pseudonimo di Nescius per
impedire la collocazione sulla facciata della
casa di Vanini di una lapide con la famosa
epigrafe di Giovanni Bovio (3).
Un personaggio che, a voler scomodare nomi
importanti, ricorda vagamente Francesco
Berni, di cui dice Mario Marti «lo tentavano
[…] i toni ed i modi di una poesia
popolare e popolareggiante nelle sue manifestazioni
più giocose e beffarde […], nei
quali si appagava la sua esigenza di concretezza
realistica e dialettale e il suo connaturato
desiderio di polemica» (4). Don Salvatore
doveva ben conoscere il Berni, come tutta
la tradizione realistico-giocosa della nostra
letteratura. Ma il mondo di Papa Tore
era tanto più povero e privo di prospettive,
sostanzialmente autoreferenziale.
Compose in latino e in italiano, in dialetto e
in lingua, in poesia e in prosa, testi agiografici
e celebrativi, canti liturgici, inni religiosi,
poesie encomiastiche d’occasione, poemetti
burleschi, brevi satire, scherzi, parodie,
canti e brindisi da chierici paesani, non
insensibili alla buona tavola, accogliendo
fra i contenuti letterari persone e fatti di cronaca del paese, non sempre riconoscibili,
compiacendosi di un impasto linguistico,
una sorta di pastiche, ora aulico e classicheggiante
ora realistico e sboccato ed
esprimendosi sul piano formale nei metri
più vari del repertorio popolare, dalle quartine
giambiche in settenari misti di sdruccioli
e piani, ai distici di endecasillabi a rima
baciata, ai doppi senari e ai doppi quinari.
Unici elementi di nobiltà poetica gli inni religiosi
(per genere e contenuto) e i sonetti
(per forma metrica), a parte gli esametri e i
distici latini, in cui si dice eccellesse ma di
cui poco o nulla sappiamo.
Ove si eccettuino i componimenti sacri, la
cui destinazione si giustifica nel tema, gli altri
scritti e specialmente i satirici e i burleschi
non fanno pensare ad un pubblico cui
erano specificamente destinati. Probabilmente
l’autore li faceva conoscere e circolare
fra pochi; alcuni, specialmente quelli più
bonariamente scherzosi, li rendeva al dedicatario,
quasi sempre qualche altro prete
della parrocchia, della diocesi o del circondario,
coi quali era in corrispondenza; la
gran parte restava per la sua personale intima
soddisfazione.
Dei testi da me visti e in parte utilizzati, solo “Il duello”, “L’iscrizione lapidaria per Vanini”
e “La vita di S. Quintino” (5) sono a
stampa; gli altri sono manoscritti su fogli
d’occasione, con una grafia minuta e regolare,
bella davvero, che denota un carattere
intimamente fermo, paziente e deciso, con
poche correzioni e varianti. Si tratta di foglietti
sparsi, ritagli di stampati parrocchiali
riusati sul retro, di difficile riordino, sì che è
arduo se non impossibile ricomporre certi
testi nella loro dinamica compositiva, nella
loro completezza e organicità; molti sono
frammenti, non definitivamente rivisti e
corretti dall’autore, senza titolo e a volte
privi di punteggiatura, oppure prove di testi
presumibilmente definitivi. Una produzione,
insomma, di approssimativa sistemazione
conoscitiva e critica.
In don Salvatore Casto m’imbattei per caso.
Avevo assegnato ai miei alunni una ricerca
sul primo dopoguerra nei loro rispettivi
paesi. Una ragazza di Alliste mi riferì di
questo prete, che era stato parroco a Taurisano
agli inizi del Novecento, che aveva l’abitudine
di annotare quanto accadeva nel
paese. Allora ero alla ricerca di testimonianze
e di documenti sul noto eccidio di
Taurisano dell’8 dicembre 1905, quando nel
corso di una manifestazione contro il trattato
del governo del giolittiano Alessandro
Fortis con la Spagna, detto Modus vivendi,
con cui per esportare manufatti delle industrie
del Nord si favoriva l’importazione di
vino a danno dell’economia agricola del
Sud, ci furono incidenti di piazza e la forza
pubblica sparò uccidendo una persona e ferendone
altre (6).
Mi feci indicare la persona che custodiva le
carte di don Salvatore, nella speranza di
trovare scritta la sua versione sui tragici fatti
di sangue accaduti; e così mi recai ad Alliste.
Era un pronipote, Gino Cazzato, il possessore,
il quale mi mise a disposizione quanto aveva di quel lontano prozio prete.
Non trovai quel che cercavo, ma chiesi di
poter avere in fotocopia un po’ di quel materiale.
Scelsi quello che, ad una prima lettura,
mi parve più interessante; e mi fu gentilmente
concesso.
Speravo di trovare notizie su cose e persone
tra la fine dell’Ottocento e la prima metà
del Novecento, anche di dimensione nazionale,
sulle imprese africane, sulla guerra e
sul primo dopoguerra, sull’epidemia della spagnola, sull’insorgere e l’affermarsi del fascismo.
Erano anni importanti e ricchi di
avvenimenti, di lotte politiche accanite, che
videro impegnati gli esponenti locali del
feudalesimo residuale abbarbicato alla chiesa
e a non più legittimi privilegi, dopo che
erano stati aboliti con le leggi eversive della
feudalità un secolo prima, nel 1806, e della
borghesia terriera ed umanistica più aperta,
di tradizione massonica e di idee liberali e
socialiste. Da un parroco colto e un osservatore
attento c’era da aspettarsi di più, invece
niente; nulla che aiutasse a capire meglio
quanto accadeva in quegli anni in Italia,
nel Mezzogiorno, nel Salento, a Taurisano.
Fa eccezione un riferimento indiretto
alla conquista della Libia, che, secondo lo
storico Fabio Grassi, fu accompagnata e salutata
con entusiasmo anche dal clero salentino.
Nella poesia di encomio a Filippo Lopez
y Royo, chiamato affettuosamente Don
Pippo, per la riconquista della carica di sindaco,Si vis pacem pete bellum, teorizza che
a volte la pace conquistata vale la guerra
fatta per conquistarla, riferendosi ai tragici
fatti dell’8 dicembre del 1905, quando i fratelli
Lopez furono in forte conflitto ed ora
finalmente, secondo lui, potevano essere augurabilmente
in pace. E, in analogia di situazioni,
scrive: “Se gl’itali eroi – non fosser marciati / Con
petti marziali – di fulmini armati / Sull’aride
spiagge – del libero suol; // Tra il grande e
civile – Re nostro Italiano / Dei barbari
Turchi – e il truce Sultano / Non v’era la
pace – regnata fra lor”.
È un riferimento importante, che rivela
un’intima condivisione di quell’impresa ma
non un programmatico impegno a propagandarla.
A Taurisano forse la situazione
particolarmente disgregata non consentiva
proiezioni esterne significative, mentre in
molti paesi della provincia c’erano state
manifestazioni civili e religiose in favore
della guerra di Libia. In quegli anni il clero,
anche quello dei nostri paesi, i cosiddetti“parroci di campagna”, erano molto impegnati
anche sul fronte politico e “diverranno
presto i veri protagonisti delle elezioni a
suffragio universale” (7).
Don Salvatore, di famiglia agiata anche se
non ricca, era un conservatore convinto,
uno strenuo difensore della chiesa e di chi
la sosteneva; attento avversario di quanti
ne minacciavano il primato educativo e sociale.
Quelli erano anni in cui sempre più
prepotentemente si acuivano le rivendicazioni
proletarie, guidate dai socialisti, che
conquistavano i ceti artigiani attraverso le
società operaie di “Mutuo Soccorso” e i
contadini con le Leghe. Non mancavano a
Taurisano professionisti culturalmente più
aperti, di idee liberali e qualche volta frammassoniche,
come gli Stasi, i Corsano e i
Pennetta, ma erano frenati nelle loro proiezioni
esterne e sociali dai loro interessi di
classe (8).
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Taurisano (Lecce):Particolare della facciata della Chiesa della Madonna della Strada (XIII sec.). È uno dei più importanti esempi di architettura romanico-pugliese del Salento. - Nello Wrona |
Quanto alle lotte politiche locali, che si
svolgevano fra le famiglie dei signori e qualche
volta all’interno di esse, specialmente
nel periodo taurisanese di don Salvatore,
questi per prudenza preferiva tenersi da
parte.
Solo nel 1912, col ritorno a sindaco
di Filippo Lopez y Royo, nel tentativo di
una pacificazione generale, si espose con
una serie di componimenti encomiasticoadulatori,
ma finì per rendersi ostile l’ambiente
e di lì a due anni, nel 1914, preferì
tornarsene nella sua Alliste. Dove morì nel
1936 all’età di 83 anni.
Nella difficile ricostruzione di un percorso
culturale, latamente letterario, i cui materiali
si presentano alla rinfusa, come se fossero
di risulta in un cantiere abbandonato,
non controllati né selezionati dall’autore,
saccheggiati e comunque dispersi, lo studioso
deve rimuovere preliminarmente un ostacolo
di ordine morale e rispondere ad un
quesito: fino a che punto è lecito violare la privacy di uno scrittore mettendo in pubblico
prodotti letterari che forse lo stesso non
pensava di far conoscere, sicuramente non
in quello stato e in quella forma?
La risposta sta nella duplice esigenza di ogni
autore, che per un verso è estremamente
scrupoloso, fino a crearsi problemi perfino
in presenza di un innocente refuso tipografico,
per un altro è altrettanto vanitoso e, a
fronte di rimanere oscurato per sempre, preferisce
affidarsi all’onestà dello studioso e
confidare in ultima analisi nell’intelligenza
del lettore. Nel parlare di don Salvatore Casto,
nelle condizioni proibitive di selezione e
di ricostruzione dei suoi testi, e nella consapevolezza
dell’esiguità del materiale a disposizione,
ho scelto la seconda opzione, ponendomi
da tramite virtuale fra l’autore e il
pubblico e “fidando” – io questa volta – nella
comprensione dell’uno e dell’altro.
In un secondo momento lo studioso deve rispondere
al ben più importante quesito di
merito, ossia quale valore attribuire a dei
materiali sostanzialmente grezzi, nella duplice
ipotesi, di un progetto letterario o, più
verosimilmente, di espressione di una condizione
esistenziale. In un ambiente povero ed emarginato, come era Taurisano nei primissimi
anni del Novecento, con un fortissimo
tasso di analfabetismo fra la popolazione,
superiore al 90%, dove non c’era un
pubblico cui destinare un prodotto letterario
qualsiasi, fuori da una ristretta cerchia
di signori e di qualche artigiano autodidatta
e fuori dal compito educativo-religioso,
proprio di un sacerdote, io escluderei il progetto
e parlerei senz’altro di una condizione;
nello specifico di quella di un parroco
colto, conscio che la sua capacità letteraria
poteva essere opportunità di prestigio e di
rispetto, soprattutto fra “gente altera”, per
dirla con Francesco Petrarca, e che al più
poteva servire alla causa religiosa. Ma anche,
a leggere certi testi, si ha l’impressione
che il suo esercizio letterario fosse una valvola
di sfogo di un risentimento che si concretizza
a volte in versi inspiegabilmente
volgari e gratuitamente triviali nei confronti
di un ambiente in cui non si sentiva compreso,
in cui non si poteva realizzare appieno
secondo le sue potenzialità, che avvertiva
notevoli e importanti.
Il rischio che si corre, tuttavia, è di dare
un’immagine falsata o ridotta di un personaggio,
che merita, invece, la massima considerazione.
Ma va da sé che uno storico
parla per documenti, fonti e testimonianze,
che quanto sostiene è calibrato solo su quelli;
che l’esistente utile per qualsiasi analisi
può essere poco o molto, ma deve essere
sempre certo.
Lo studioso non può fare congetture e perfino
quando utilizza fonti orali non documentabili,
i tacitiani rumores, lo deve fare
con estrema cautela, cercando riscontri attendibili.
Nel caso di don Salvatore il materiale è poco, indiscutibilmente parziale e leso;
perciò resti in chi legge una legittima riserva
e speri che venga fuori altro materiale,
per completarne o arricchirne la conoscenza,
o chissà, per correggerne il profilo.
Qui si parla di ciò che si sa; e non è che una
piccolissima parte.
A cavallo fra Ottocento e Novecento, il
tempo di Papa Tore Casto, ci furono in tutto
il Salento molti poeti dialettali. «La vita
cittadina – scrive Donato Valli – con i suoi
problemi di fine secolo, con il suo riassetto
edilizio, con i primi segni di una pressante e
controversa modernità (il gas, la luce elettrica,
il tram), con i suoi contrasti politici
ed ideologici tra destra e sinistra liberale,
con i funambolismi e trasformismi del notabilato
locale, con i conflitti tra presenza
intellettuale laica e invadenza ecclesiastica,
con la sua vita minuta nelle antiche piazze
o nelle osterie, con le sue serate nei teatri o
nelle incipienti prove del cinematografo,
con le chiacchiere e le maldicenze dei circoli
o delle associazioni, con i suoi chiaroscuri
di miseria e nobiltà, di povertà e di beneficenza,
di malattia e di fame, con le sue feste
e i suoi funerali, forniva inesauribile materia
di esaltazione o di disperazione, di rimpianti
o di speranze, di nostalgia o di tristezza.
Così la società di fine Ottocento e di
primo Novecento entrava a pieno titolo nei
versi dei poeti dialettali fondendo il realismo
proprio nella matrice popolareggiante
con un’iniziale vena di malessere esistenziale
soggettivo, condito di ironia e di amaro
sorriso» (9).
È, questa che dice Valli, una poesia dialettale
importante, che, secondo il critico tricasino,
aveva in Lecce, Ostuni e Gallipoli, le aree di
produzione, dove si svolgeva una vita politica,
culturale ed economica vivace e produttiva.
Questi poeti avevano una coscienza letteraria
e perpetuavano una tradizione lungo
una necessaria evoluzione tematica, stilistica
e lessicale. Ma ve n’erano altri, verseggiatori
più che poeti, ingiustamente trascurati, pur
dotati di una certa cultura, che, per trovarsi
in luoghi ancor più periferici, di scarse risorse
culturali e di nessuna tradizione letteraria, si
esaurivano nel bozzetto, nello scherzo, nel
racconto cronachistico in versi, spesso al solo
scopo di testimoniare qualcuno o qualcosa o
per far divertire chi poteva ascoltarli. Si può
dire che in ogni paese ce ne fosse uno, quasi
figura canonica di cantore, immancabile in
tutte le occasioni, nascite, battesimi, cresime,
matrimoni e morti, accanto a quella del medico
e del prete; una specie di mestiere aggiunto
non retribuito. Essi non sempre avevano
un’adeguata coscienza letteraria né la
consapevolezza di poter svolgere una funzione
sociale importante; non c’era quasi nessun
collegamento né fra di loro né con l’esterno,
erano tagliati fuori da ogni circuito culturale;
molti risultano ancora completamente o
pressoché sconosciuti.
Papa Tore era uno di questi, solo perché si
trovò a vivere a Taurisano e ad Alliste, dove
non c’erano né risorse importanti né stimoli.
Conosceva molto bene la poesia classica, greca
e latina, e quella italiana; di alcuni autori
aveva assimilato la versificazione; dei comico -
realisti e dei giocosi in particolare. Gli studi
in seminario gli avevano fornito dimestichezza
nell’innologia; la sua innata verve polemica
si era nutrita della lettura dei satirici.
Echi del Giusti sono presenti nei suoi versi
giambici, in doppi quinari e doppi senari, negli
endecasillabi in distici a rima baciata, che
nel poeta pistoiese trovavano altra soluzione
strofica. Negli inni e nelle preghiere si sente
l’aria del Manzoni; nei testi più gravi è forte
la presenza del Carducci. Nei testi giocosi e
parodistici, dissacranti e blasfemi, sono avvertibili
gli echi dello Stecchetti e del Cavallotti.
Le agili quartine in settenari gli consentono
di esprimere sentimenti e modi popolareschi.
Aveva una spiccata inclinazione al verso e alla
rima, che a volte, però, sembrano prevaricare
i contenuti piuttosto generici e deboli,
che funzionano a sostegno di una verbosa
colloquialità. Ecco, per esempio, una serie di
zeppe nell’epistola in versi “Mio Parisi e Tronocari”: “Or sentite la questione / Poi direte
s’ho ragione // Era il dì di San Giovanni /
Quand’io stretto nei miei panni // Silenzioso
contemplava / La giornata che passava // Ecco
piomba all’impensata / Una lettera garbata
// Apro leggo e senza noia / Manifesto la
mia gioia”.
Fra i compiti che finisce per avere un verseggiatore
di paese c’è quello che lo rende popolare
quanto una volta il dottore (medico) e lamammana (levatrice) e don Salvatore si prestava
anche a comporre epigrammi e madrigali
per nozze e nascite. Ricordi famigliari
vogliono che egli fosse in corrispondenza in
latino con altri sacerdoti salentini e pugliesi e
addirittura con la curia pontificia.
Può darsi che si tratti di esagerazioni, ma un
fondo di verità è riscontrabile in qualche suo
componimento in latino, a conferma della
sua versatilità. Cosa riferisse nelle lettere sarebbe
dato saperlo solo in presenza di un loro
rinvenimento e lettura, che al momento si
può solo ipotizzare. Mancò totalmente in
lui, per pessimismo o ingenuità, la consapevolezza di poter essere un giorno letto e criticato e pertanto non si curò di apparire nei
modi più convenienti.
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Nello Wrona |
L’approccio che don Salvatore aveva con la
poesia, ma ancor più la sua produzione, pur con le riserve e le cautele già espresse, consente
di definire la sua una poetica della paesanità:
ora è grave nei temi e classicheggiante
nella forma (è il caso di quella sacra); ora è
greve, giocosa e popolare (è il caso di quella
comico-burlesca). Sia l’una che l’altra mancano
di autentica ispirazione, rispondono a
necessità immediate, a volte importanti, come
le composizioni religiose, a volte frivole e
d’occasione, sfuggono a criteri letterari.
Don Salvatore non tratta i temi canonici
della poesia, come l’amore, il dolore, la nostalgia,
la fede; né temi sociali, come la famiglia,
l’educazione, la morale, la giustizia,
l’emancipazione, la solidarietà; e neppure
intimistici, come la solitudine, l’emarginazione,
la noia; non ha una concezione civile
della poesia, non crede che essa possa servire
alla crescita del popolo, che anzi, per il
bene generale, ritiene debba rimanere nell’ignoranza
e nella sottomissione; né affida a
lei il compito di testimone privilegiato di
un’epoca e di un ambiente umano e sociale.
Perfino il suo rapporto stesso con la poesia
appare di odio-amore. La considera una risorsa,
che, però, non gli frutta che una condizione
di amarezza: non soldi, non prestigio,
non fama, non un pubblico a cui rivolgersi
e dal quale essere apprezzato. Spesso i
suoi versi, tematicamente circoscritti, anche
quando hanno esiti pantagruelici con inni al
vino e a polli arrosto, tradiscono un’amarezza
di fondo, come in questa epistola dialettale
in versi all’amico Leone (Nino) Trono,
prete come lui: “Quannu te ssetti an
taula / Nferrate lu bicchieri / Saluta tutti e
chiamali / Signori e cavalieri. // E di’: allu
Simminariu / Aggiu studiatu sulu / E mo alla
facce voscia / Stu nziddu me lu sculu”.
Già ci sarebbe da riflettere sul fatto che l’orizzonte
di un poeta, della cultura e dell’impegno
di Papa Tore, si limiti ad inni sacri e
a libagioni profane, pur in una cornice di
impegno sacerdotale e di sincera solidale
amicizia.
Relativamente ai testi che abbiamo, escludendo
quelli in prosa e in latino e comprendendo
testi in dialetto e in lingua, nella produzione
poetica di don Salvatore Casto possiamo
definire quattro aree tematiche: la religiosa,
la giocosa, l’encomiastica, la polemica,
tutte collocabili in una cornice di socialità
paesana. Nella prima comprendiamo gli inni
e le preghiere ai santi, in impegno sacerdotale
e devozionale; nella seconda gli scherzi e le
burle, in allegra gaudenza; nella terza i peana
al potente locale di riferimento, in comunanza
di fede e in sudditanza sociale; nella quarta
polemiche quasi sempre interne al mondo ecclesiastico. Ad ognuna di queste aree si riconducono
termini delle corrispettive aree
semantiche, benché non sempre con motivazione
e rigore, per improvvise e inattese cadute
e dissonanze.
Nell’area religiosa abbiamo solo testi in lingua,
quasi che l’autore non ritenesse il dialetto
adeguato ad esprimere sentimenti religiosi
e lo considerasse buono solo per lo
scherzo poetico. Si era lontani dalla poesia
dialettale riflessa e sostanzialmente estranei,
nel caso di don Salvatore, ai temi e ai bisogni
più diffusi e avvertiti dalla società. È,
quella religiosa, l’area più coerente e sentita,
in cui l’autore stabilisce il rapporto fra
Santo e paese, in una sorta di campanilismo
devozionale: “Di Cristo atleta acerrimo /
Difendi Taurisano / Dall’oste e a larga mano
/ Porgi favori ognor. // […]. // Al Dio supremo
ed unico / Sciogliam di gloria un
canto / Ché Stefano gran Santo / In pegno a
noi lasciò” (Inno a Santo Stefano).
Negli inni – ne abbiamo per Santo Stefano
e San Vito – il legame santi-devoti è stabilito
dall’autore in chiave feudale, su basi di
una totale subordinazione-dedizione “Santo-
paese” in una sorta di profano parallelismosignori-popolo. Straordinario identico
approccio si nota in alcuni componimenti
encomiastici del Nostro nei confronti del
sindaco Filippo Lopez y Royo. Nell’ Inno a Santo Stefano si legge: “Ai pié del nostro
Stefano / Fidenti ricorrete / Voi che da Dio
volete / Sollievo ed ogni ben”. E nell’Inno a San Vito don Salvatore è corale nella richiesta
di protezione: “Vito accorre ai furiosi /
Da’ soccorso ai tribolati / Fuga i demoni
spietati / Salva i ricchi e bisognosi”. Stessa
coralità per Don Filippo: “Una in tutti sia
la mente / Una in tutti sia la voce / E nel bene
dolcemente / Don Filippo salutiam” (Et nunc cur tibi).
È anche, la produzione sacra, formalmente
la più riuscita, lessicalmente la più efficace,
ritmicamente la più musicale, come conviene
al genere dell’inno sacro, concepito per
essere musicato e cantato.
Le altre tematiche sono meno coerenti e attraversate
tutte da un disagio che a tratti si
fa incontrollato risentimento quando trova
sfogo in un turpiloquio rivoltante più che in
un lessico licenzioso. Nell’area giocosa, che è la più vasta e la più congeniale all’esprit curieux del nostro prete, troviamo componimenti
sia in dialetto che in lingua. In genere
sono brindisi per augurali libagioni alla vita
povera ma allegra, in compagnia di altri
prelati, nella tradizione dei clerici vagantes medievali, ma limitantisi nel Nostro alla
mangiata e alla bevuta. Altre volte sono
brindisi augurali a degli sposi: “Prosit, e il
sacro vincol benedetto / Sia lieto e per lunghi
anni in pace stretto”; “Prosit… e presto
fia che ai vostri piedi / Danzino a coppia
fortunati eredi”; o brevi blason: “Nata d’ignoti
/ Fusti d’amore / Sono Consiglia / Maria
Belfiore”.
Un giocoso Inno alla miseria rivela nel Nostro
momenti di partecipazione popolare e
di bonaria quanto rara denuncia sociale, nel
tentativo di devitalizzare la protesta e ricondurla
nella cristiana rassegnazione resa gradevole
dallo scherzo letterario intenzionalmente
ludico col refrain “Miseria crudele…”
fra strofa e strofa: “L’inverno se ne viene, /
Le scarpe son bucate, / Son tutte rattoppate,
/ Non voglion più entrar. // Miseria crudele,
/ La prendi con me; / Miseria crudele, / Mi
fa delirar. // Ho preso un gran catarro, / Sapete
voi perché? / Per l’acqua che mi entra /
Per buchi trentatré”.
[1. continua]
(1) - CASTO don Salvatore, Parroci che hanno retto la Chiesa di Taurisano, dal 1661 al 1914, in “Carte inedite”
(Archivio Storico di Presenza, d’ora in poi ASP). Don
Salvatore era figlio di Pasquale, a sua volta figlio di
Paolo da Taurisano. Questi era suocero del Conte
Francesco Castriota Scanderbeg (Napoli 1841-Taurisano
1905), che ne aveva sposato la figlia Rosa, dopo aver
convissuto con la stessa per molti anni. Don Salvatore
era perciò nipote del Conte Francesco.
V. LAPORTA
Alessandro, Il Conte Francesco Castriota Scanderbeg: un Sindaco garibaldino in un comune del Salento, in “Lecce e Garibaldi”, Cavallino, Capone, 1983.
(2) - BACHTIN Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1975), Torino, Einaudi, ed. 2001,
pp. 524.
(3) - NESCIUS [CASTO don Salvatore], L’iscrizione lapidaria per Vanini. Una Lucciola fra splendidi Pianeti ossia Dialogo fra un Clericaletto ed un Vaniniano in una riunione di altri Vaniniani (in Lecce), Lecce, Tipografia
Cooperativa, via Giuseppe Palmieri, 1908, p. 16.
(4) - MARTI Mario, Francesco Berni, in “I minori”, Milano,
Marzorati, 1960; poi in Dal certo al vero, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1962, pag. 215.
(5) - La vita di S. Quintino Martire. Estratta dalle Opere del Padre G. Croiset. Stampata per cura del Sacerdote Salvatore Casto – ad uso dei Divoti del miracoloso Santo - Protettore di Alliste, Matino, Tipografia Donato
Siena 1930, p. 6 n.n.
(6) - PONZI Luigi, Taurisano, 8 dicembre 1905, Immacolata di sangue, “Presenza Taurisanese”, Dicembre 1983,
pagg. 5-7; MONTONATO Gigi, Il sangue del Sud. Cento anni fa gli scontri di Taurisano, “Nuovo Quotidiano
di Puglia”, 9 dicembre 2005.
(7) - GRASSI Fabio, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Bari, Laterza, 1973, pagg. 17-21.
(8) - DE MARCO Mario, Profili biografici di Massoni Salentini. Testi e documenti, Lecce, Edizioni del Grifo,
2007.
(9) - VALLI Donato, La poesia dialettale nel Salento, in “La poesia dialettale pugliese del Novecento”, Atti del
Convegno di San Marco in Lamis, 18 gennaio 1999, a
cura di Giuseppe De Matteis, Foggia, Edizioni del Rosone,
2000, pagg. 66-67.
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