Profondo mare.
Un’infiorescenza
marina fra due
scogli, mossa
dalla corrente
delle onde, può
benissimo
accostarsi alla
chioma fluente
di un ragazzo:
nasce e si sviluppa
tutto da qui.
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Per chi, e io sono fra questi, ben conosce da
vicino Giovanni Bernardini e tanti particolari
della sua vita, tutt’altro che burrascosa,
e del suo modo di pensare e di comportarsi
(«da gran signore dei tempi antichi»), molto
godrà, leggendo questo libro (I bruchi ovvero il ragazzo in fondo al mare, Manni editore),
nel comparare realtà e invenzione.
Perché, indubbiamente, delle verità ci sono,
ma da queste “partenze reali” la fantasia
d’un tratto s’impossessa e deforma la realtà
di prima e divaga e dilaga, quasi l’Autore
non fosse più coi piedi per terra e si facesse
portare dal suo amato “ippogrifo”, a suo
esclusivo piacimento.
Non c’è una data, ma queste sono quasi tutte
riconducibili al nucleo centrale degli anni
della Seconda guerra mondiale (1940-‘45) e
partono dal 1923, che è, per chi non lo sapesse,
l’anno di nascita del Narratore.
Non troviamo indicate località geografiche,
anche se facilmente ci si può accorgere che
la città degli studi non può essere che Firenze
e che il fiume non può essere che l’Arno,
e così via.
Chi gli è stato più vicino identificherà in
qualche modo e per qualche tratto il figlio
del Generale o la collega di studi, Tea, o gli
parrà d’intravvedere qualche illustre docente
del tempo (tacendone sempre la disciplina
d’insegnamento o cambiandola).
Rivedrà forse la piazza delle esercitazioni
(Piazza del Carmine) o qualche momento
del “Campo d’Arma” degli Allievi Ufficiali
sulle pendici dell’Appennino tosco-emiliano.
Rivedrà la pasticceria nei pressi dell’Università,
dove si mangiavano sei dolcetti e se ne
pagavano, mentendo, solo tre o quattro.
Si accenna, nel libro, a due pittori, e, per chi è al corrente sulla materia, non è difficile riconoscerli:
Modigliani e Pignatelli.
Ma poi il lettore salirà anche lui sull’ippogrifo
e si farà condurre, per lungo e per largo,
nel tempo e nello spazio.
Sono questi i momenti, assai frequenti, di
chiara impronta surrealistica, intorno ai
quali ironicamente sorride compiaciuto il
Narratore, ma anche noi con lui, e, se ci
fosse vicino, gli chiederemmo: «Giovanni,
ma cosa dici mai?».
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Nello Wrona |
Così, per esempio, non può sfuggire il primo – clamoroso – travestimento, che apre la
strada a tutti gli altri, quello dell’essersi dovuto
chiamare Anselmo, “elmo di Dio”; presagio
smentito – ironia della sorte! – al primo
fantomatico scontro armato, da cui egli,
nonostante il nome, esce con la testa rotta.
Quest’ironia fa strage irriverente di miti e
personaggi ad ogni piè sospinto: con la caricatura
del Fascismo (mai chiamato col suo
nome); col ritratto di Sua Maestà, chiaramente
visibile in un Generalissimo nanerottolo;
col Generale, padre dell’amico Pepe, il
cui specifico vanto consiste nell’aver bevuto
piscio di cammello; la guerra “guerreggiata”
viene evocata infinite volte col suo immancabile
fardello di immani disastri e inutili
sacrifici.
Un’ironia pacata, però, quasi sorridente,
mai sarcastica e sprezzante; in fondo... quelli
erano i tempi e quelle erano le persone.
Queste cose e molte altre sembra capirle,
anche se a modo suo, lo “zio scemo”, che in
una società di pazzi che si credono saggi è –
lo “zio scemo” – il più saggio di tutti. Dei
vari personaggi minori del libro, ci vorrebbe
sull’argomento un lungo e articolato approfondimento;
ma questo – lo zio – è uno
dei meglio tratteggiati.
Passiamo ad un’altra costante del libro,
quella delle ossessioni, già anticipate nel
doppio titolo, a sua volta oggetto di precedenti
prove narrative: i bruchi, ossia, e il ragazzo in fondo al mare.
Questi bruchi sono il male dell’universo e
come tali ce li troviamo sempre accanto e di
fronte o dentro di noi, nel nostro stomaco
addirittura, a torturarci di continuo. Bruchi
sono quelli che in dialetto chiamiamocannedde e che anche in dialetto possono
per metafora assumere il significato di “pensiero che rode fisso”, come giustamente
avverte il Rohlfs.
Con esagerato senso di surreale ironia saranno
stati certamente i bruchi a rosicchiare,
far crollare e dissolvere nel nulla tutt’intera
una galleria ferroviaria sull’Appennino,
che i nostri avrebbero dovuto sorvegliare
e difendere. Potenza dei bruchi!
E quel ragazzo in fondo al mare? È un lavoro
di fantasia, cui – a forza d’insistere – si
può finire col credere: quanti scogli hanno
preso il nome di qualcosa che loro assomiglia
(tipo “Le due sorelle” di Torre dell’Orso);
quante volte abbiamo raccolto un ciottolo
in riva al mare, perché assomigliava a
questa o a quella forma?
Un’infiorescenza marina fra due scogli,
mossa dalla corrente delle onde, può benissimo
accostarsi alla chioma fluente di un ragazzo:
nasce e si sviluppa tutto da qui.
Altra ossessione che attanaglia il Nostro è
la sua modesta statura; se ne fa un cruccio
continuo (almeno così pare, leggendo), cui
cerca di rimediare con una serie di stratagemmi
diversi, per noi uno più curioso dell’altro.
Qui si tratta di autoironia, fenomeno
piuttosto raro, perché, come Esopo insegna,
sulla pelle degli altri ci piace ridere e
scherzare, ma sulla nostra la cosa non è tanto
gradita.
Giovanni invece inventa addirittura un contrappasso
a tale suo deficit di altezza, perché
i suoi due gemelli della fantasia sono –
ahimè! – degli spilungoni, troppo alti, e forse
anche loro, ma per il motivo opposto, risultano
parimente angustiati.
Ma un’altra domanda ci proponiamo, leggendo:come mai la presenza insistita e come voluta di tante voci, che i ben pensanti
potrebbero giudicare come “triviali”? Diciamo
intanto che quest’aggettivo, come si
sa, deriva da trivio, “incontro di tre strade”,
e perciò luogo di confluenza e di scambi e di
diverse voci. Con fregio di nobiltà erano
dette del trivio le prime tre arti del sapere medioevale: grammatica, retorica e dialettica
(le altre erano dette del quadrivio); ma in seguito l’aggettivo derivato triviale venne
come rifiutato dalle arti e assunto nel significato
deteriore, che tuttora permane.
Anche l’aggettivo volgare ha una storia più o
meno consimile: volgare era semplicemente
la lingua del volgo che non conosceva il latino,
la lingua per eccellenza; ma poi si lasciò
da parte la contrapposizione latino/volgare e
il significato peggiorò e tale rimane anche
oggi. È chiaro che le parole volgari, usate da
Dante e nel suo tempo, erano volgari sì, ma
solo perché erano diverse dal latino.
Ciò premesso, precisiamo anche che alcune
delle parole sotto processo nel lessico bernardiniano
possono essere assolte perché le
ha usate Dante nel suo divino poema (Inf. XXI, 139; Inf. XVIII, 133; e Purg. XXXII,
149; Purg. VI, 68).
Ma tutte le altre? Ci saranno dei motivi forse
a noi sconosciuti?
Certamente possiamo affermare che Giovanni
non è affetto da coprolalia, né usa a
caso le parole; anzi, certe volte pare che le
distilli con molta accortezza.
Se usa quindi spesso tali voci sarà perché
egli non sa sottrarsi al richiamo del realismo
letterario (quello dello spirito, più che
quello storico), per cui le cose vanno dette,
anche sulla pagina, così come “corrono”
sulla bocca dei parlanti (di alcuni parlanti e
in alcune occasioni): sarà anche perché egli
con le parole, come con i personaggi e le diverse
situazioni, vuole divertirsi.
Quest’armamentario lessicale è risorsa e riserva
per un particolare divertissement, come
aveva già notato Ennio Bonea, che nell’introduzione
a Parapagliapiglia faceva il
nome di Palazzeschi. Che egli poi sappia
scegliere e distinguere tra parola e parola
con lo stesso significato ci dà più di una
volta prova: nel più esplicito dei modi egli
lo fa a pag. 75, a proposito delle varie
espressioni per indicare il luogo dove... si va
a deporre. Lontano, in questi casi, dall’annoiarci
con dotte disquisizioni, come invece
sogliono fare i linguisti (noi... linguisti!).
Indubbiamente un gusto ludico permea
tutte le pagine; in questo gioco molto ci sarebbe
da dire sull’invenzione di nomi propri,
cognomi e soprannomi; scelta o invenzione,
come quelli di ipotetici comitati rionali
che firmano: Silòche o Scùmmari, Strùmmoli, Strovèri, Picùni... Se non annoio,
dirò che Silòche nel Dialetto dei soprannomi salentini (sempre del Rohlfs) indica
le vedove e il loro vestito e nel si-loche (si
loca) è suggerita la disponibilità della vedova
(libera, come un’abitazione) a cambiare
stato civile. Scùmmari è la voce dialettale
per l’italiano sgombro, un pesce; Strùmmoli sono in dialetto le more; Picùni è cognome
calabrese e indica il piccone; Strovèri non so bene individuarlo... (pag. 145).
Si può anche ricordare, sempre in questo
campo, il nome dell’infermiere, uno degli
infermieri dei Coppi Rossi: Lord Strunz:
che poi tanto inverosimile non pare, se così
si chiamava davvero qualche anno fa un
calciatore tedesco: Strunz, proprio così, se
ben ricordo.
Brutto, ma vero! Meno probabile mi sembra
che l’Autore si sia servito di tali voci per
seguire la moda; perché oggi, televisione insegna,
tutti ormai ne fanno largo uso, anzi
guai ad astenersene. No, Giovanni Bernardini
non è un conformista e rifugge da tali
atteggiamenti e comportamenti.
Io, per conto mio, non le avrei usate, proprio
perché penso che se ce ne sono tante in
giro, un po’ di... astinenza non farebbe male,
almeno sulla pagina. Ma io non sono
uno scrittore, e questo è un altro discorso.
In contrapposizione c’è però anche da osservare
che compaiono voci ed espressioni
dotte o altamente qualificate sotto il profilo
linguistico: fantolino, per esempio, pulzella,
ancillare, propinquo, nascimento, inseminato,
defungere, reperto, voluttuoso... Ma anche in
queste dotte occorrenze il tono ironico non
sfuggirà all’attento lettore.
Una voce letteraria, ormai desueta, è consobrina (al maschile consobrino, dal latino consobrinum), che vuol dire, semplicemente,
cugina; ed è da notare che uguale etimo latino
conserva l’analoga forma del dialetto salentino, crussupinu, anch’essa ormai poco
usata. Destino delle parole!
Le sfaccettature linguistiche sono molteplici:
vi confluiscono altri dialetti, con il latino
(motu proprio e ante omnia, per esempio),
un po’ di francese, un approssimativo africano
(dei Pellineri!), l’indefinibile giargianese,
già incontrato in Carmine Cucigliato.
I ricordi dai classici fanno anch’essi capolino:
da qualche richiamo virgiliano (Didone)
a Dante, Boccaccio, Machiavelli, fino ai più
moderni Ungaretti e Palazzeschi (Garofalo
e Bavecchi/Vetri, cristalli e specchi, p. 131);
in qualche passo la memoria ci fa pensare
per un momento al Deserto dei Tartari di
Buzzati o a Le libere donne di Magliano, di
Tobino...
Questo e altro; che dire, poi della sua prosa
scorrevole, limpida e armoniosa, specie in
certi incipit ed explicit di alcuni capitoli?“Una lezione di stile” e, forse, così è detto
tutto.
Grandi amici salentini a Firenze eravamo in
tre: siamo rimasti vicini anche dopo; purtroppo
Michele Tondo, passato a Bari in
quella Università, è morto da qualche anno
e non si è potuto deliziare leggendo quest’ultima
fatica dell’amico Giovanni. Ma qui si
coglie l’occasione per ricordarlo caramente. |