Suoni smarriti.
È evidente
che abbiamo
smarrito - figli,
come siamo, della
civiltà tecnologica
- le capacità di
ascolto, le facoltà
di cattura dei
suoni della Terra.
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“Far suonare un luogo” (un ponte sarà
senz’altro un manufatto, ma è anzitutto un
luogo) non è cosa del tutto nuova nel campo
della musica. Non soltanto perché il
rapporto, le relazioni tra musica e luoghi
sono stati largamente esplorati da John
Cage, grande organizzatore di concerti in
treno, e di silenzi e concerti in spazi pubblici,
ma anche perché il rapporto
musica/ambiente è alla base delle sorgenti
stesse della musica.
Ci sono alcuni popoli per i quali la musica è imprescindibile dal luogo nel quale va
suonata: ci sono tribù della Nuova Guinea
(Papua) che cantano facendosi accompagnare
dal rumore di un certo ruscello che
scorre – ad un certo ritmo – soltanto in
una certa stagione. Ci sono guerrieri tatuati
che nella stessa Papua piangono facendosi
accompagnare dal suono del vento
che spira tra gli alberi e dal canto di specifici
uccelli presenti nelle foreste locali.
In altri termini, siamo solo noi che abbiamo
separato la musica dal contesto in cui
andava naturalmente suonata e fruita, grazie
ad I-pod, lettori di compact, giradischi
e altri marchingegni messi a nostra disposizione
dalla tecnologia contemporanea.
Qualche anno fa a San Francisco una musicista
geniale, Pamela Zed, aveva allestito
uno spettacolo – un cosiddetto “one woman
show” – muovendosi e facendo suonare
i rumori dell’intera città che aveva applicato
con sensori a varie parti del corpo: un
braccio erano le sirene delle navi alla fonda
in rada, l’altro il rumore del traffico urbano,
un fianco il vento sul Golden Gate, e
così via. Laurie Anderson l’avrebbe imitata
appena poco dopo, mettendo in scena se
stessa e una cospicua catena di rumori della
città, accuratamente registrati e applicati in
varie parti del proprio corpo.
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Giovanni Coluccia |
In realtà, tutti i luoghi suonano e tutte le
architetture hanno una propria musica,
anche se non è detto che si tratti sempre e comunque di una musica gradevole. I luoghi buoni certe volte suonano palesemente
con i propri silenzi. Chiese, moschee, templi,
hall, atrii, patii, antiche abitazioni,
vecchi agglomerati mediterranei, producono
(per l’orecchio di chi sa e vuole ascoltarli)
musiche sorprendenti. Nelle case di
tufo dei borghi e dei villaggi bianchi del
Sud d’Italia si dice ci sia una correlazione
(una complicità) tra pareti e persone che le
abitano: qui i muri cantano e gli uomini,
ma soprattutto le donne rispondono, sono
duetti antichi e misteriosi, carichi di magici
afflati; e si aggiunge che se questi esseri
umani in confidenza con i propri ambienti
domestici vengono trasferiti in città anonime,
in case moderne, in ambienti estranei
(e l’estraneità in questo caso viene percepita
immancabilmente come ostilità) hanno
la vita accorciata, oltre che privata delle
antiche qualità, antropologiche, e compromessa
da un’insopportabile, macerante
malinconia.
In alcune aree della Turchia affacciata sulle
coste chiare del Mediterraneo e su quelle
ricche di selve del Mar Nero sopravvivono
ancora oggi le rovine di cliniche mentali
costruite sul modello greco per curare i pazienti
facendo ricorso all’armonioso sciabordio
di fontane o al più accentuato croscio
di cascatelle, (l’acqua è sempre stata
considerata fonte di musica, si trattasse di
piogge o di maree montanti o calanti, di
marezzature di laghi o gorgoglio di fiumi e
torrenti, persino – Schubert insegni! – di
abissi disvelati dal mare in tempesta) .
Ma ci sono luoghi insopportabili, che risuonano
molto male, hanno sgradevoli riverberi
di rumori di fondo, di allarmi di
case e di automobili, di stridio di gomme
per brusche frenate, di urli di sirene di ambulanze…
Nelle Città del Mondo dello
scrittore siciliano Elio Vittorini intere città
“suonano” ai pastori, che le osservano da
lontano, la propria sinfonia: latrati di cani,
voci di donne che richiamano i propri figli,
aprirsi e chiudersi di porte, messaggi ondulari
di venditori ambulanti, cantilene di
giovani ragazze, grida giocose e stridule di
fanciulli in strada, fischi del vento tra le
canne e dentro i tronchi cavi degli ulivi,
ruzzolare per le scale e lungo i ripidi viottoli
di barattoli di rame o d’alluminio, rumori
di impiantito, scricchiolii di abbaini,
passati al vaglio di uno dei più elaborati
strumenti di amplificazione, il vento, la distanza,
l’atmosfera.
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Giovanni Coluccia |
L’effetto complessivo è – letterariamente
parlando – eccellente; è affidato al giudizio
e al gusto del lettore l’effetto indotto dei rumori della città o della metropoli, comprese
le sue periferie, colti nell’immediatezza
del loro manifestarsi come echi di vita
quotidiana.
Far suonare un ponte, invece, è un’impresa
certamente interessante, anche se in questo
caso particolare un po’ edulcorata. Per
quale ragione isolare i rumori? Per quale
ragione scomporli, per poi rimontarli? In
altri termini: si tratta di un’idea magnifica,
che tuttavia perde il rapporto diretto con
la sua intuizione. Un ponte è fatto né più
né meno che al modo di un violino, e come
questo strumento ha un corpo che vibra e
un numero esatto di corde che lo sostengono.
Non è sufficiente per ispirare una sonata?
Ci sono altre architetture che hanno un
suono speciale e che sono state concepite
per suonare? Le chiese romaniche, le cattedrali
gotiche, sono inconcepibili senza l’invenzione
del coro e dell’organo e senza i
timbri del gregoriano. Esistono trattati che
hanno studiato l’architettura dei chiostri
medioevali come trascrizione di una partitura.
La celeberrima Cattedrale barcellonese
della Sagrada Familia, di Gaudì, è
considerata da molti una crestomazia di
sinfonie: per di più, è ritenuta non ancora
compiuta, dunque suscettibile di nuove
composizioni da innestare armonicamente
su un “progetto infinito”: un concerto polifonico
planetario, con una partitura universale.
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Archivio BPP |
In uno dei più bei film circolato in Spagna,
un grande regista, l’ottantaduenne Portabella,
ci spiega la grandezza della musica
nei luoghi: Il silenzio prima di Bach, il suo
film, rappresenta una scena magnifica nella
quale quaranta violoncelli suonano le
variazioni per violoncello di Bach in una
metropolitana lanciata a grande velocità
nel sottosuolo di Barcellona.
Gli effetti sono
sicuramente spettacolari, ma senza alcun
dubbio sono rivelatori della possibilità
della musica di accordarsi con gli echi del
contesto, con i variabili scenari e ritmi del
luogo, anche quando questo luogo può
sembrare anonimo e uniforme (nel caso di
Portabella, una galleria sotterranea, buia
per lunghi tratti, solo di tanto in tanto ritmicamente
laminata dalle luci che segnano
le pareti del percorso ferroviario).
È evidente che abbiamo smarrito – figli,
come siamo, della civiltà tecnologica – le
capacità di ascolto, le facoltà di cattura dei
suoni della Terra. Abbiamo abbandonato i
nostri centri storici, luoghi di aggregazione
di concerti grossi creati dalla natura. Siamo
assediati dai cacofonici prodotti di una
velocità sempre più alta. Nemica del silenzio
e dell’introspezione, l’indifferenza fa il
resto. |