È sugli esempi
della classicità
che poggia le sue
fondamenta
la lingua figurativa
degli italiani;
quella che dopo
Giotto porterà
a Masaccio
a Piero
della Francesca,
a Raffaello,
a Tiziano.
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Castel del Monte, che corona la Puglia, è
l’ottagono più affascinante (e misterioso)
del mondo, con il suo corpo turrito che svetta
in cima alle colline che degradano verso il
mare. A volerlo così imponente e così classicamente
armonioso fu il “Puer Apuliae”,
Federico II Hohenstaufen, Re e Sacro Romano
Imperatore. Gli anni di Federico – il
sovrano che parlava tutte le lingue del Mare
Nostrum, oltre al tedesco; che si circondava
di un esercito che concedeva l’onore della
retroguardia a un manipolo di fedeli pretoriani
saraceni; che amava il Sud della Penisola,
e in particolare la Puglia e la Sicilia;
che si occupava di Diritto Romano, di
Scienze Naturali e di tutte le Arti, ma anche
di cavalli e di falconi addestrati per la caccia– furono splendidi per il Mezzogiorno. Il
classicismo federiciano (l’idea laica, coltivata
dallo Svevo, di una romanità da onorare
e da recuperare; lo stile figurativo che ha
avuto le sue manifestazioni più rilevanti nel
cantiere di Castel del Monte, ma anche a
Capua e nella Palermo trilingue, dove si parlavano
latino, greco e arabo) sta alle origini
del Rinascimento toscano, e poi italiano.
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Un particolare della facciata della Cattedrale di Trani (XII secolo). |
Come insegna la vicenda di Nicola Pisano,
autore nel 1260 del pulpito nel Battistero di
Pisa. Infatti, la prima formazione di questo
grande artista, più volte citato come “de
Apulia” (fu originario di Bitonto?) era avvenuta
nell’ambiente culturale, programmaticamente
antichizzante e classicista, di Federico
II. Si può dire che in Nicola Pisano «il
classicismo o il sentimento dell’antico
non contraddice ma si
sviluppa di pari passo con il modernismo
o il sentimento drammatico
del presente» (Argan).
Di fatto, con Nicola Pisano e con
il fiorentino Arnolfo di Cambio
(plasticatore, ma anche architetto: suoi sono
i progetti del Palazzo Vecchio e di Santa
Maria in Fiore) la lingua figurativa degli italiani
può dirsi formata e ha già una sua riconoscibile
identità. All’inizio nella scultura e
nell’architettura. Più tardi anche nella pittura. È una lingua che nasce dalle ceneri della
civiltà classica, che si lascia contaminare e
plasmare dagli idiomi romanici e protogotici
di Francia, che sceglie di essere naturalistica
aderendo con pronta determinazione alla
rappresentazione del vero visibile, senza tuttavia
dimenticare quei criteri di ordine, di
proporzioni, di decoro formale che rimarranno
caratteri distintivi nella storia artistica
dell’Italia.
Riepiloghiamo, analizzando. “Pisano” è denominazione
comune di quattro scultori attivi
nei secoli XIII e XIV. In ordine cronologico,
Nicola fu il primo. Operò in Toscana e
in Umbria nella seconda metà del 1200, e fu
iniziatore della scuola pisana. Quando, nel
1260, egli iscrisse il nome sul pulpito del
Battistero (…hoc opus sculpsit Nicola Pisanus…),
si dimostrò già maestro grande e originale,sicché la data della sua nascita sembrerebbe porsi intorno al 1225. Oltreché “Pisanus” o “de Pisis”, due volte si disse anche“de Apulia”, dunque fu oriundo pugliese.
Infatti è stato sottolineato come nell’Italia
meridionale, nell’epoca di Federico II, la
scultura avesse raggiunto un alto grado di
vigore plastico, con forme fortemente ispirate
a modelli classici (le sculture di Castel del
Monte o della Porta di Capua), che possono
sembrare persuasivamente come precedenti
dell’arte di Nicola.
Allo stesso modo è stato messo in rilievo che
la struttura dei pulpiti meridionali (ad esempio,
di Salerno o di Sessa Aurunca) si avvicina
molto di più a quelli di Nicola che non a
quella dei pulpiti toscani. Ma in nessuna di
queste sculture meridionali si riscontrano
l’impulso rinnovatore, l’originalità d’interpretazione
dei modelli classici, che fa così
grandi e nuovi i pulpiti di Nicola. E del resto,
in Toscana stessa non mancavano né le
sopravvivenze di opere classiche né opere recenti
che ad esse si ispirassero: quali i rilievi
della porta del Battistero di Pisa. E per di
più – circostanza fondamentale – il Nord
era stato recentemente teatro del gran fiorire
dell’arte romanica antelamica, che aveva
parzialmente investito anche l’area toscana,
in particolare Lucca. Mentre proprio in Puglia
si era diffuso un particolare stile romanico,
che aveva sostituito la pittura con la
scultura, con l’esempio insuperato della Cattedrale
di Ruvo.
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Rivolto ad Est, di fronte al punto in cui sorge il sole in coincidenza degli equinozi di primavera e d’autunno, il prospetto principale
di Castel del Monte (Andria). - Archivio BPP |
L’arte di Nicola, che emerge con forme nuovissime,
si mostra tuttavia nutrita di un’alta
aggiornatissima cultura, per cui si giustifica
che siano state viste nel suo stile conoscenza
e assimilazione di forme classiche, analogie
con la scultura meridionale federiciana, rapporti
con l’arte romanica lombardo-toscana,
intriganti echi perlomeno mnemonici dell’abilità
operativa (in architettura, ma soprattutto nella scultura) diffusa dagli artisti-artigiani autori degli “exempla” romanico-pugliesi;
ma in definitiva è da vedervi una piena
e precocissima partecipazione alla nascente
civiltà gotica: la figura di Nicola,
dunque, sta all’apertura dell’età gotica in
Italia con soluzioni di colpo mature e originalissime,
da cui prenderanno le mosse tutti
gli artisti, pur grandi e ricchi di personalità,
che verranno dopo di lui, primi fra tutti gli
altri Pisano, Giovanni, Andrea e Nino, oltre
allo stesso Arnolfo di Cambio.
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Il Pergamo del Duomo di Siena.Realizzato tra il 1265 e il 1269, è considerato uno dei capolavori di Nicola Pisano. - Archivio BPP |
Il pulpito è la prima opera documentata di
Nicola. Seguì, dal 1265 al 1269, il pulpito
del Duomo di Siena. Sicuramente documentata è anche la Fontana di piazza di Perugia,
ultimata nel 1278 in collaborazione con il figlio
Giovanni. In precedenza, Nicola si era
impegnato a rifare un altare per il Duomo di
Pistoia, del quale non rimangono più tracce.
Ma anche per altre opere è stato fatto il nome
di Nicola: le sculture del portale sinistro
della facciata del Duomo di Lucca, o l’Arca
di San Domenico a Bologna. Dopo il 1278
non si hanno più notizie di lui. Un documento
del 1284 lo cita come il quondam maestro Nicola.
Il pulpito del Battistero pisano è esagonale,
poggia su arcate trilobe, è retto da sette colonne,
tre delle quali sorrette da leoni simili
a quelli dei protiri delle cattedrali romaniche,
altre tre direttamente piantate nel terreno,
e la settima al centro, su un gruppo ispirato
ai bestiari. Il parapetto è costituito da
cinque formelle scolpite, divise da colonnine
a fascio. Il tipo delle modanature, profilate
con energico risalto, gli archi trilobi, la ricchezza
dei capitelli a foglie gonfie e accartocciate,
provano che lo scultore aveva familiarità
con le forme del gotico francese;
ma la compattezza della massa del pulpito e
le sue proporzioni robuste rivelano un gusto
tutto italiano. Nelle sculture, poi, che ornanole cinque formelle, l’apporto delle reminiscenze francesi è pressoché nullo: chiaramente
visibili sono invece quelle romaniche,
insieme con una forte meditazione sui modelli
classici.
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Un particolare del Pergamo del Duomo di Siena - Archivio BPP |
L’artista si è ispirato per la
composizione del bassorilievo e per i tipi
delle figure ai sarcofagi dell’antichità. Ciò
appare evidente. Ma li ha trasformati con
gran vigore. Il modo con cui trae le figure
dal fondo è tutto diverso: esse per certe parti
se ne staccano con prepotenza, e per altre vi
si perdono, rimanendovi incluse. Esse sono
ammassate, senza spazio intermesso, solo
con pochi solchi d’ombra, e urgono in primo
piano. Scalpellate a larghi piani, la loro
possanza plastica si sprigiona come da blocchi;
i loro reciproci rapporti di proporzioni
dipendono dall’importanza del personaggio:è sostituita “alla misura fisica la misura morale”;
da qui, la loro dignità, che è grandissima,
e il loro carattere solenne e profondamente
religioso. Ma, anche, un’evidenza
corposa, un’energia espressiva e, nel folto
comporre, un fraseggiare così largo e intenso,«che un’umanità più piena se ne libera e
s’impone». (A. Griseri). Questo carattere nel
pulpito (questa volta ottagonale) di Siena si
accentua. In cinque anni lo stile di Nicola
evolve in modo impressionante. Nella Fontana
perugina ci fu l’apporto di vari collaboratori,
compreso il figlio Giovanni, mentre
per le sculture del Duomo lucchese e per
l’Arca petroniana i pareri degli studiosi, fino
a poco tempo fa discordi, sembrano riconciliati,
in considerazione dei dati cronologici,
dall’emersione potente delle caratteristiche
artistiche, dalla persuasione che l’ideazione
appartenne a un Nicola, che in qualche modo
mise mano ad alcune parti di queste opere
d’arte.
Secondo la tradizione, Nicola fu anche architetto.
Nessun documento lo conferma,
ma il fatto che anche il figlio Giovanni e Arnolfo
di Cambio siano stati architetti, corrobora
l’ipotesi. Delle numerose costruzioni
che gli attribuisce il Vasari, l’unica che con
un buon fondamento può supporsi sua è la
chiesa di S. Trinità a Firenze.
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Un grifone della Cattedrale romanica di Ruvo di Puglia (Bari), XII-XIII secolo. - Archivio BPP |
Certamente, dalla bottega di Nicola uscirono
i maggiori scultori toscani della generazione
successiva. Una tradizione si costituì a
Pisa, organica e ricca di sviluppi, che
informò di sé la maggiore scuola italiana di
scultura della seconda metà del XIII secolo
e della prima metà del XIV, detta – per l’appunto – Scuola Pisana.
Fatto è che sotto il nostro cielo l’Antico non
era mai morto. Viveva nelle arene e nelle basiliche,
nelle colonne e negli archi di città
che mai avevano dimenticato di essere romane.
Viveva nel Corpus iuris che i glossatori
commentavano nelle università per piegarlo
alle esigenze moderne. Viveva nella
cultura classica preservata dalla Chiesa.
Una mostra – la prima del genere – in Castel
Sismondo di Rimini, inaugurata un anno fa,
ha voluto raccontare proprio questo. Ha voluto
raccontare cioè la nascita della nostra
civiltà artistica, che prese forma all’alba del
Duecento sui modelli antichi e gradualmente
si realizzò nella scoperta del vero, nell’intuizione
dello spazio misurabile, nella rappresentazione,
direbbe Vasari, «delle attitudini
e degli affetti».
Protagonisti, i maestri federiciani di Castel
del Monte, di Capua, di Lucera, di Bari, il
prodigioso miniatore del De arte venandi cum avibus, Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo
di Cambio, i pittori romani Pietro Cavallini
e Jacopo Torriti che declinarono ladignitas antica secondo criteri di iconica sacralità.
Il punto d’arrivo di questa grandiosa rivoluzione
fu Giotto di Bondone, come dirà ogni
manuale di storia dell’arte. A Firenze, alla
fine della sua vita, Giotto venne incaricato
di progettare il campanile della Cattedrale
che porta il suo nome. Non riuscì a vederlo
realizzato neppure in piccola parte. Fece
però in tempo a fornire i disegni per i rilievi
che fasciano il primo ordine del campanile
con le rappresentazioni simboliche delle arti.
Uno dei rilievi raffigura l’«invenzione della
scultura».
Andrea Pisano, esecutore dell’idea giottesca,
rappresenta Fidia che, paludato al modo
di un sapiente antico, è in atto di modellare
una statua a tutto tondo. Questo capolavoro
(prestato dall’Opera di Santa Maria
del Fiore) stringeva in emblema la filosofia
che governava e giustificava il titolo dell’Esposizione: Exempla. È sugli esempi della
classicità liberamente e modernamente interpretati,
però vissuti come riferimenti irrinunciabili,
che poggia le sue fondamenta la
lingua figurativa degli italiani; quella che
dopo Giotto porterà a Masaccio («Giotto
rinato», come scriveva Berenson), e dopo di
lui a Piero della Francesca, a Raffaello, a
Tiziano.
Rimini, con i suoi monumenti identitari
(l’Arco di Augusto, il Ponte di Tiberio), è
città romana. Sigismondo Malatesta, che si
considerava novello Augusto, legislatore e
fondatore, stirpe degli Scipioni, autocrate di
una città tornata “antica”, volle da Leon
Battista Alberti una chiesa-mausoleo ispirata
a modelli classici. È la chiesa che tutti conosciamo
come Tempio Malatestiano. Nessuna
città meglio di Rimini poteva dunque
ospitare un’Expò che ci facesse capire “per
exempla”, appunto, la meravigliosa persistenza
e la feconda vitalità dell’Antico.
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Arnolfo di Cambio, “Cristo e l’Animula della Vergine”. Museo dell’Opera del Duomo, Firenze. Il classicismo di Arnolfo si riveste di una particolare sensibilità religiosa, che si incarna nella severità delle espressioni e delle forme. |
Un Antico rimesso in gioco da un genio “de
Apulia”, e che ripeteva il miracolo già fiorito
con l’invenzione del “volgare”, anch’esso
di matrice federiciana, nato con la poesia di
corte in Puglia e in Sicilia, e poi, anticipando
l’itinerario della scultura, emigrato inToscana,
a farsi scaturigine della nostra splendida
lingua.
Non sarà che senza l’intelligenza
creativa – magno-greca e siceliota – degli
uomini del Sud
non ci sarebbero
state
mai un’Italia,
una lingua
letteraria
e una lingua
artistica dell’Italia,
una cultura
e una civiltà
italiane, scuola del
mondo?
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