Riserve in campo.
L’idea di utilizzare
le riserve delle
Banche centrali
non è esclusiva
dell’Italia, dove
pure il debito
pubblico è uno
dei più giganteschi
del mondo. |
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Il Gran Tesoro c’è. Non in via XX Settembre,
dov’è il Ministero dell’Economia,
(somma degli ex dicasteri del Tesoro, delle
Finanze e del Bilancio), ma alcune centinaia
di metri più in là, al numero 92 di via Nazionale,
custodito dall’imperforabile caveau di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia.
Come i tesori di tutte le fiabe manda bagliori
e risplende magnificamente perché è
tutto d’oro: oltre 2.000 tonnellate di lingotti
bene allineati, in non pochi casi stoccati da
decenni, e in alcuni casi contrassegnati dai
marchi della storia: la falce e martello dell’ex
Unione Sovietica, l’aquila americana,
la svastica nazionalsocialista… Tutti insieme,
i lingotti hanno un valore di oltre 45
miliardi di euro, secondo le stime dello stesso
Istituto di emissione. Vanno aggiunti altri
25 miliardi delle riserve costituite dalle
attività in valuta della stessa Banca nei confronti
di residenti e non residenti nell’areaeuro.
Complessivamente, le riserve sono
pari a 70 miliardi di euro, una massa enorme
di risorse.
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Per legge, questi beni sono di proprietà della
Banca d’Italia, che li conserva «a salvaguardia
della credibilità del sistema europeo
delle Banche centrali»: ma non tutti, soltanto
una parte. Un’altra quota rilevante viene
da riserve residuo di altre stagioni, essendo
state costituite a difesa della lira. Ma dal
momento che ora la lira non circola più, c’è
chi si chiede se abbia ancora senso conservare
inerti tutti quei miliardi, o se piuttosto
non sarebbe opportuno utilizzarli in modi
più produttivi per il sistema-Paese.
La proposta di mettere a frutto le riserve
della Banca d’Italia non è nuova. Come un
fiume carsico, appare e scompare nel dibattito
economico e politico, tagliando trasversalmente
destra, centro e sinistra, tra
favorevoli e contrari. Si inabissa nei momenti
in cui nel nostro Paese si spera di
avere imboccato la via virtuosa del risanamento
dei conti pubblici, e rispunta quando
l’emergenza torna a mordere. Allo stato,
siamo senza alcun dubbio in questa seconda
fase, con gli indicatori fondamentali
dell’economia interna e internazionale che
volgono verso il brutto: crisi finanziaria
mondiale, prezzi delle materie prime instabili, inflazione dell’area euro intorno al 4
per cento, crescita italiana bloccata, se non
addirittura in calo, consumi quasi al palo,
produttività anemica. È in questo scenario
che la proposta di attingere alle riserve nazionali è tornata di attualità, rispolverata e
arricchita da commentatori ed economisti,
anche brillanti.
L’idea di utilizzare le riserve delle Banche
centrali, in realtà, non è esclusiva dell’Italia,
dove pure il debito pubblico è uno dei più
giganteschi del mondo. È già stata tradotta
in pratica, tutto sommato senza grandi clamori,
in altri Paesi del Vecchio Continente,
dalla Francia all’Austria, che hanno messo
a frutto le riserve per finanziare grandi progetti
di ricerca e sviluppo, e anche dalla Spagna che, invece, ha preferito destinare
quelle risorse all’abbattimento del debito.
In Italia uno dei primi politici a lanciare timidamente
una proposta analoga fu Romano
Prodi, ai tempi del suo primo governo,
tra il 1996 e il 1998; ma di lì a poco il progetto
venne riposto nel cassetto. Si riprovò alcuni
anni dopo dalla sponda del centrodestra,
con un emendamento alla Finanziaria
2003 preparato d’intesa con il Servizio Studi
della Camera: emendamento sbrigativamente
considerato inammissibile e accantonato.
Cambiata maggioranza, nel luglio 2007 il
progetto fu nuovamente tirato fuori col progetto
di un sottosegretario all’Economia: la
proposta venne inserita in una risoluzione
votata dalla Camera e dal Senato, ma anche
in questo caso non se ne fece nulla. L’emendamento
del 2003 avrebbe voluto usare le risorse
a riduzione del debito pubblico, il progetto
2007 mirava invece ad incentivare robustamente
la ricerca e l’innovazione.
Ma anche gli oppositori sono numerosi,
tanto in uno quanto nell’altro schieramento.
Due anni fa un economista, capogruppo
finiano in Commissione Bilancio di Montecitorio,
Mario Baldassarri, parlò di «vero e
proprio assalto», mentre l’economista Tito
Boeri – abbastanza vicino allo schieramento
opposto –, l’editorialista Francesco Giavazzi
e Lamberto Dini – tra l’altro, ex direttore
di Bankitalia – sostennero all’unisono
che con quel sistema non si sarebbe risanato
un bel niente. «Il problema vero» dissero «casomai è la capacità o l’incapacità politica
di attaccare la spesa corrente rimasta a
livelli patologici nonostante tutti i tentativi
di riduzione». E Angelo De Mattia, uno dei
più ascoltati collaboratori dell’ex Governatore
Fazio, scrisse che l’idea di utilizzare le
riserve, pur non essendo un dramma, avrebbe
richiesto modifiche costituzionali e comunque
non poteva essere imposta, ma
eventualmente poteva essere frutto di una
scelta autonoma della Banca centrale.
Bankitalia, però, è sempre stata contraria a
toccare le riserve, che considera uno dei pilastri
a sostegno della propria autonomia.
Fazio liquidò a suo tempo la faccenda come
un’«idea balzana» e, citando William
Shakespeare, arrivò a dire che c’era «del
metodo nella follia» di chi proponeva di
metter mano al Gran Tesoro. Più recentemente, a difesa delle riserve italiane si è
espresso il presidente della Banca centrale
europea, Jean-Claude Trichet, il quale con
ruvidezza inusitata ha parlato addirittura di
tentativi di «esproprio».
Nel nostro Paese, inoltre, quando si affronta
il discorso sulle riserve, c’è da considerare un
elemento in più, quello della proprietà. Perché
quelle risorse sono sì della Banca centrale,
che negli ultimi decenni le ha fatte levitare
con oculatezza; ma la Banca d’Italia a sua
volta è posseduta non da azionisti pubblici,
bensì privati, banche in particolare (30,3 per
cento Intesa San Paolo, 15,7 per cento Unicredit,
6,3 per cento Banco di Sicilia, altrettanto
Assicurazioni Generali, 6,2 per cento
Cassa di Risparmio di Bologna, 5 per cento
Inps, 4 per cento Banca Carige, 2,8 per cento
Banca Nazionale del Lavoro, 2,5 Monte dei
Paschi di Siena): istituti sempre rispettosi al
massimo grado dell’autonomia della Banca
governata da Draghi, ma i cui manager devono
rispondere del loro operato agli azionisti,
(alcuni sono stranieri), i quali, com’è più
che ovvio, difficilmente sarebbero entusiasti
all’idea di perdere parte del patrimonio.
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