Black money.
Il denaro
controllato
dalle mafie ha
raggiunto una
cifra da cartone
animato:
3,8 trilioni
di dollari, il 9
per cento del Pil
planetario. |
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Capita che una mattina all’alba la Guardia
di Finanza varesina becchi un imprenditore
il quale, grazie a un complesso sistema di
sovrafatturazioni, era riuscito a sottrarre al
fisco 16 milioni di euro in sei anni, tutti depositati
poi in terra elvetica. Un paio di
giorni dopo, può accadere che i Carabinieri
di Perugia blocchino un consulente del lavoro
e 13 aziende agricole, accusati di avere
evaso 400 mila euro di contributi grazie all’impiego
di braccianti in nero. Passano appena
altre quarantott’ore, e a Catania succede
persino che un ispettore dell’Agenzia
delle Entrate si imbatta in un negozio di alimentari
molto frequentato, ma mai registrato
alla Camera di Commercio.
Sono storie di “normale” cronaca italiana,
ma in grado di testimoniare, se qualcuno
non se ne fosse ancora accorto, che le vie
della Penisola sommersa sono veramente
infinite: e che il loro impatto sui conti pubblici,
soprattutto in termini di gettito fiscale
mancato, rischia di essere devastante.
A ricordarlo non una, ma due volte, gli
esperti, i quali hanno ipotizzato una quota
di economia “in nero” pari al 22 per cento
del Prodotto interno lordo italiano. Se più o
meno così è, visto che il Pil nazionale è stato
pari nel 2007 a 1.356 miliardi di euro, si tratta
di una cifra mostruosa: circa 295 miliardi
di euro sottratti al fisco, pari ai ricavi delle
prime otto aziende italiane messe insieme,
oppure, per restare in campo pubblico, a
una decina di leggi finanziarie “pesanti”.
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Angelo Mangione - Associazione Obiettivi. www.associazioneobiettivi.it |
Senza questo sommerso, o con una quota di
sommerso fortemente ridotta, l’Italia cambierebbe
volto: ci sarebbero alleggerimenti
del carico fiscale per tutti i contribuenti, più
investimenti, più benessere sociale. Banale?
Forse. Certo è che in Italia la quota di “economia
informale non osservabile”, (definizione
ufficiale coniata dall’Istat nel 1992, quando per la prima volta la contabilità nazionale
ha unificato le stime di evasione, di
riciclaggio, di lavoro nero e di finanza criminale),
ha superato da tempo i livelli di
guardia: in meno di quindici anni, il dato
del sommerso è praticamente raddoppiato,
crescendo con una progressione quasi geometrica. «Se da almeno tre lustri l’economia
illegale cresce a tassi doppi o tripli rispetto
a quelli messi in mostra dal Pil ufficiale, significa
che il problema non sta solo nelle cifre,
ma anche nelle teste», taglia corto Roberto
Pessi, ordinario di Diritto del lavoro e
preside della facoltà di Giurisprudenza alla
Luiss.
In effetti, a giudicare dai numeri, la situazione
italiana non sembra avere rivali nel
panorama occidentale: ai campionati mondiali
del sommerso battiamo di molte lunghezze
la Francia (8,5 per cento del Pil), la
Germania (8 per cento), il Regno Unito (6
per cento) e gli Stati Uniti (4 per cento),
piazzandoci anche ben al di sopra della media
europea complessiva (intorno al 10 per
cento). Non hanno dunque torto i ministri italiani dell’Economia, dello Sviluppo economico
e del Welfare, che negli ultimi mesi
hanno firmato vari provvedimenti tesi a stanare
le irregolarità fiscali e contributive,
chiarendo a più riprese come una vera lotta
al sommerso, al di là dei risultati di immagine,
ci consentirebbe di presentarci a Bruxelles
con fondamentali un po’ meno deboli di
quelli esibiti attualmente.
Una teoria che trova conferme anche al di
fuori del mondo politico. Ogni punto percentuale
di Pil sottratto alla clandestinità –
sottolineano gli esperti di contribuzione
pubblica – comporta in media uno 0,4 per
cento di entrate fiscali in più e un saldo di
crescita compreso tra lo 0,2 e lo 0,6 per cento.
Non è poco, per un Paese che tra il 2007
e il 2009 registrerà tassi di crescita intorno
allo zero, se non addirittura negativi.
Pil a parte, anche altri aspetti dell’economia
reale beneficerebbero di un recupero accentuato:
uno studio di specialisti ha recentemente
stimato che una scomparsa totale del
nero porterebbe a una riduzione della pressione
fiscale di almeno dieci punti, lasciando
così nelle tasche di cittadini e imprese
qualcosa come 65 miliardi in più ogni anno:
somma più che sufficiente a ridare fiato a
consumi e investimenti di qualsiasi altro
Paese occidentale.
Individuare i fattori che fanno dell’Italia la
Mecca del sommerso non è poi tanto difficile.
«Leggi e controlli sono più o meno gli
stessi in tutto il mondo occidentale. Quello
che cambia, in Italia, sono le condizioni ambientali», sostiene Donato Masciandaro, direttore
del Centro studi sulle regolamentazioni
finanziarie “Paolo Baffi”, della Bocconi,
e autore, nel 2007, del saggio Black money:
«Da noi le aliquote sui redditi sono più
alte della media europea. In più, la maggior
parte del gettito fiscale arriva da lavoratoriautonomi e piccole imprese, soggetti strutturalmente deboli che in caso di difficoltà
sono più propensi a ridurre i costi facendo
ricorso al lavoro nero e all’evasione».
Per quanto difficile da accettare, insomma,
in Italia il sommerso continua ad esser vissuto
come una leva da azionare per restare
competitivi. «E questo non significa che sia
giustificabile», scrivono quasi concordemente
gli economisti. «Vuol dire solo che la
lotta all’evasione dovrebbe essere accompagnata
anche da altri strumenti. Quello che
serve è un cambio di passo, che garantisca
alle imprese non soltanto una fiscalità più
bassa, ma anche la certezza di poterne godere
per un tempo prolungato e in un contesto
che non sia quello burocratico e soffocante
di oggi». Concorda Pessi, il quale precisa:«Per lungo tempo è passata l’idea che
il sommerso non fosse poi così male, soprattutto
per alcune realtà come le start-up o il Mezzogiorno, dal momento che consentiva
di aggirare la nostra rigidità amministrativa.
Si inizia come irregolari, poi ci si
irrobustisce, e alla fine si diventa regolari».
Ma la crisi economica in atto, con la sua
dote di stretta creditizia, di calo dei consumi
e di aumento dei disoccupati, rischia di
interrompere anche questa spirale: «Per
questo occorre che la politica intervenga al
più presto, partendo proprio da iniziative in
favore della piccola e media impresa del
Mezzogiorno, tradizionalmente la più esposta
al rischio di contaminazione da sommerso». Un primo segnale è arrivato alla fine
di settembre 2007, con la creazione delle
Zone franche urbane: si tratta di 24 aree,
quasi tutte situate proprio nel Sud, dove le
microimprese nate a partire dal 2009 godranno
di agevolazioni finanziarie e fiscali. È una formula già sperimentata con successo
in Francia, e capace di sostenere la nascita
o l’emersione di nuova imprenditorialità
nelle zone più a rischio. Per ora, sono stati
messi a disposizione 50 milioni di euro, ma
l’intenzione è di rinnovare il contributo
ogni anno, fornendo così un’alternativa al
sommerso concreta e prolungata nel tempo.
Nel 2008 il saldo tra i pasti consumati nel
nostro Paese e il numero di ricevute emesse è stato negativo per il 66 per cento: bar e ristoranti,
in pratica, hanno battuto uno
scontrino ogni tre consumazioni. Nello stesso
arco di tempo, i capitali italiani scoperti
nei paradisi fiscali sono passati da 1,9 a 3,8
miliardi di euro, con un incremento del 100
per cento.
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Nello Wrona |
Anche un altro dato è cresciuto: quello delle
realtà imprenditoriali completamente sconosciute
al fisco, che hanno toccato quota
180 mila, rispetto alle 163.801 dell’anno precedente. Qualsiasi governo intenzionato
a dichiarare guerra al sommerso dovrebbe
partire da questi dati.
Il fenomeno dell’evasione continua a crescere,
nonostante i decisi passi in avanti registrati
negli ultimi anni sul piano del contrasto.
Stando agli ultimi dati disponibili, nei
primi nove mesi del 2008, per esempio, la
Guardia di Finanza ha scovato redditi non
dichiarati per 21,6 miliardi, mentre i recuperi
di Iva non versata hanno toccato i 3,6
miliardi.
La lotta all’evasione comincia a riflettersi
anche sul bilancio dello Stato, se è vero
che nello stesso arco di tempo considerato,
secondo l’Agenzia delle Entrate, il gettito
fiscale è cresciuto del 3,5 per cento. Ma per
colpire più duramente gli evasori occorre
un ulteriore cambio di passo. Una delle soluzioni
ventilate è quella di ampliare i poteri
di controllo dei Comuni. Idea abbastanza
valida, visto che in molti Paesi il
rapporto centro-periferia consente controlli
più rapidi e mirati. E il federalismo fiscale
dovrebbe spingere gli enti locali a controlli
più rigorosi. In un Paese nel quale il
54 per cento dei contribuenti dichiara un
reddito lordo inferiore ai 15 mila euro, e
addirittura il 27 per cento dei contribuenti
non subisce alcun prelievo, l’occhio ravvicinato
dei Comuni potrebbe rivelarsi molto
utile.
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Archivio BPP |
Perché un sistema come questo funzioni,
tuttavia, occorre ripensare anche gli strumenti.
Al ministero dell’Economia vorrebbero
rispolverare l’idea del “redditometro”,
la banca dati capace di scovare incongruenze
tra i dati dichiarati al fisco e la disponibilità
di imbarcazioni, di auto, di abitazioni.
Ma la vera piaga dell’economia italiana si
nasconde alla fonte del processo produttivo:è, appunto, il lavoro nero.
Per comprendere le difficoltà di individuare
a fondo le situazioni, è sufficiente scorrere il
Rapporto stilato nel gennaio 2008 dalla Direzione
ispettiva del ministero del Lavoro,
secondo il quale dal 2005 al 2007 il 61 per
cento delle aziende esaminate ha messo in mostra irregolarità sul fronte del lavoro dipendente.
Soltanto nel 2007 i lavoratori irregolari
scoperti sono stati più di 355 mila.
Ma quelli in circolazione sarebbero molti di
più: circa 2 milioni, secondo il Censis, che
stima anche che il 13 per cento di costoro
sia impiegato in realtà del tutto sconosciute
al fisco. Senza contare le decine di migliaia
di immigrati in settori come l’industria del
falso, l’edilizia e l’agricoltura.
Gli incentivi all’emersione, invece, segnano
il passo: dal 2003 al 2007 sono state sanate
appena 19 mila posizioni. Ma il dato non
tiene ancora conto della sanatoria chiusa alla
fine del settembre 2007, con la quale i datori
di lavoro avevano la possibilità di far
emergere i contributi evasi dal 2005, senza
pagare sanzioni aggiuntive.
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Maria Ada Pisa |
Evasione e lavoro nero: l’identikit dell’Italia
sommersa è tracciato. Combattere il fenomeno è un dovere, eliminarlo del tutto è
impossibile. Anche perché, per farlo, occorrerebbe
agire anche sulla zona grigia,
quella dove il “nero tradizionale” incontra
e si incrocia con l’economia criminale. È questo l’altro segno distintivo dell’Italia
sommersa. La “Malavita SpA” è l’impresa
più grande e più dinamica del Paese: lo
scorso anno, per la prima volta, i suoi ricavi
hanno superato i 100 miliardi di euro.
Se si trattasse di un’azienda vera, i suoi
manager occuperebbero le copertine a colori
dei grandi settimanali. Invece, dobbiamo
accontentarci delle foto segnaletiche,
visto che i business si chiamano droga (giro
d’affari pari a 40 miliardi l’anno), prostituzione
(14 miliardi), racket (16 miliardi).
Quattrini esentasse. A livello globale la
black money controllata dalle mafie, secondo
gli esperti, ha raggiunto una cifra
da cartone animato: 3,8 trilioni di dollari,
il 9 per cento del Pil planetario. E la criminalità
italiana è senz’altro la più brillante: «Al netto di quanto speso per mantenere
in vita le organizzazioni», stima Masciandaro, «i margini di ritorno sono pari al 75
per cento. Poco più della metà viene fatta
emergere, mentre il resto è reinvestito in
nuove attività illecite».
E proprio per questo la giostra del sommerso
non si ferma mai.
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