Se è inevitabile
l’alternanza
ciclica dei mercati,
non è naturale
che la scienza
economica resti
inerte rispetto
alla necessità di
rendere morbido
l’impatto con la
modernità. |
|
Tra i danni indotti della crisi economica
viene passato spesso sotto silenzio l’effetto
psicologico. I titoli tossici hanno prodotto
tossicodipendenza, forme di idolatria per gli
esercizi speculativi della finanza creativa. Il
quasi-ricco ritrovatosi quasi-povero nell’arco
di una notte è ancora soggiogato dai
meccanismi che lo hanno stritolato. Vive il
dramma di una solitaria e inespressiva rivalsa
che si aggiunge alla solitudine della
sua quotidiana routine.
Situazioni già viste più volte. Basta ricordare
che agli albori del cristianesimo la folla
ha salvato Barabba e crocefisso Gesù.
Pesano come macigni i silenzi dei vertici
della piramide. Autorità istituzionali, economisti,
gazzettieri e ciambellani del Principe
qualche dubbio dovrebbero averlo sulla
loro capacità di leggere gli eventi e sulle loro
virtù nel sostenere le architravi del sistema.
Non potevano non sapere, per usare il
ritornello accusatorio della nostra infinita
tangentopoli. La conclusione è disarmante:
l’omologazione al potere paga meglio della
sua contestazione.
Noi alcune domande abbiamo il dovere di
porle, per il rispetto che abbiamo verso le
grida di dolore che si levano dalla base della
piramide. Chiediamo in particolare se, oltre
all’attivismo politico necessitato dalla gravità
del momento, il pensiero economico
non debba riflettere sul significato della sua
autonomia, non debba dialogare e confrontarsi,
saltando gli steccati accademici, con
filoni di ricerca contigui (sociologia, tecniche
e tecnologie della comunicazione). Per
chiare ragioni di necessità, imposte dalle
analisi complesse sui comportamenti dell’homo oeconomicus contemporaneo e dai
doveri generali d’informazione e di trasparenza
chiesti dal sistema, in primo luogo ai
consiglieri del Principe.
Se in presenza di una domanda di lavoro
rarefatta, l’offerta non debba essere riqualificata e riorganizzata in era di economia digitale,
tenendo conto dei tumultuosi processi
di riorganizzazione industriale e di disaggregazione
e riaggregazione sociale su scala
locale e planetaria. Se gli squilibri provocati
dal picco rialzista dei beni alimentari di prima
necessità (grano, frumento, ecc.) non
debbano sollecitare studi strategici sulla
produzione e sulle priorità d’impiego dei
prodotti, prima d’invocare la semplice calmierazione
dei prezzi.
Se i miti della Illusione finanziaria e del
Consumo facile e facilitato, abbastanza radicati
nelle società opulente, non debbano
venire a patti con l’istinto più intimo dell’uomo,
incardinato sui valori della Stabilità
e della Sicurezza.
Se la sollecitazione delle emozioni, che tende
ad elevare indiscriminatamente la soglia
del rischio economico, non debba convivere cum iudicio con la narrazione biblica della
qualità della vita e dell’ambiente.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che non esistono
percorsi evolutivi legati in astratto a
modelli econometrici elaborati da scuole di
pensiero autoreferenziali (nella fase acuta della crisi l’ottimismo degli economisti era
sovrano, con qualche eccezione mal sopportata– Paul Krugman, firma prestigiosa di
questa Rassegna, è stato prima messo alla
gogna, poi rivalutato e insignito del Premio
Nobel per l’Economia).
Come dovrebbe essere chiaro che bisogna
effettuare opportune distinzioni tra società
chiuse e mercati chiusi. Le prime, rianimate
dalle dissepolte logiche nazionaliste (compaiono
sempre quando c’è da tirare la cinghia).
I secondi, destinati ad operare lungo
il viale del tramonto, poiché anche le restrizioni
più significative (contingentamenti all’import,
barriere tariffarie, politiche di sostegno
del cambio) diventano anacronistiche e pericolose per chi le adotta, di fronte
alla convulsa e inarrestabile circolazione
delle persone e dei capitali.
Le domande poste sottolineano al momento
uno stato di paralisi. Il groviglio di ritardi e
di contraddizioni in cui è impantanata l’economia
internazionale inceppa i meccanismi di
amplificazione dei segnali dello sviluppo,
producendo effetti scarsi sulla tenuta e sulle
prospettive di crescita di ciascun Paese. Assistiamo
invece a Paesi “ex poveri” che hanno
facile accesso ai mercati di Paesi “ex ricchi”,
fino a conseguire rilevanti partecipazioni nei
loro settori strategici (fonti energetiche, partecipazioni
bancarie, ecc.).
Il vuoto della Politica viene riempito dalle logiche
dei poteri forti che in alcuni casi rischiano
di condizionare le politiche locali e regionali
e gli orientamenti delle relazioni internazionali.
Il programma di regole, garanzie e
controlli per il Governo dell’economia globale
resta sui tavoli di lavoro, vaga nei meandri
oscuri della politica politicante, affidato a dichiarazioni
di buona volontà esibite nelle vetrine
di maggiore risonanza internazionale.
 |
Archivio BPP |
Si fa ancora una grande confusione tra
creazione e distribuzione della ricchezza. La
creazione appannaggio della “scienza di destra”,
la distribuzione appannaggio della“scienza di sinistra”. E nella confusione dei
dati e delle lingue non riusciamo ad avvertire
la voce della scienza pura, senza complementi
di specificazione. Con la conseguenza
che siamo diventati tutti strabici, convinti
che sia la redistribuzione a produrre ricchezza.
Un’illusione ulteriore e pericolosa
che sottintende un deragliamento grave dei
princìpi della produzione della ricchezza,
del valore del risparmio, dei criteri virtuosi dell’equità distributiva. Non basta predicare
le virtù taumaturgiche del denaro, soprattutto
quando al vertice della piramide si
danno esempi poco edificanti.
E allora? Per quanto tempo siamo condannati
a vivere sull’orlo del precipizio, sotto i
riflettori che irradiano saltuariamente timidi
fasci di luce fredda? Per quanto tempo
dovremo preoccuparci dei silenzi più che
delle dichiarazioni di economisti e autorità
istituzionali? Dovremo affidare la nostra
salvezza alla speculazione, come sostiene
Piero Ostellino? Al momento sembra l’unica
via di uscita. La vocazione globale dei
mercati muove ogni giorno le sue pedine
nella giungla silente delle convenienze.
Mentre la finanza opera in tempo reale
(non è casuale l’intreccio sempre più fitto
tra gli asset proprietari delle Borse), la politica
sembra appagata dalle assicurazioni
fornite alla stabilità del sistema finanziario.
Peraltro assicurazioni di caratura diversa,
secondo gli spazi di manovra che hanno i
Governi nazionali. Nella sostanza, un fattore
di squilibrio ulteriore, perché fa emergere
le contraddizioni tra l’azione modesta dei
Governi nazionali e la dimensione globale
dei mercati.
Dunque la globalizzazione portata avanti
dai poteri forti continua indisturbata a
creare i suoi eroi, le sue vittime, i suoi fantasmi.
Non vediamo grande differenza tra gli
effetti prodotti dalla distruzione creativa del
capitalismo liberale con l’up and down dei
cicli economici e gli effetti prodotti dall’implosione
delle economie pianificate. In entrambi
i casi si ottiene l’avvicendamento
delle oligarchie dirigenti impoverendo il ceto
medio e le classi meno abbienti.
Sulle macerie e sui lutti dell’ultima bolla occidentale
si aprirà certamente l’alba di un
altro ciclo economico. Ma se è inevitabile la
naturale alternanza ciclica dei mercati dovuta
all’esaurimento di un modello di consumi
e all’affermazione delle forze d’innovazione,
non è naturale che la scienza economica
resti inerte rispetto alla necessità di
rendere morbido l’impatto con la modernità.
Interventismo statale e protezionismo
economico tornano ora impetuosamente alla
ribalta, determinando nuove rigidità nelle
politiche monetarie e di bilancio. Un altro
fattore di disturbo nei percorsi della globalizzazione.
Certamente andiamo incontro a una riorganizzazione
mondiale dell’economia che ridimensiona
il potere del dollaro e dell’industria
americana, rendendo più sfumati e incerti
gli scenari sul modello centrale di riferimento. È entrato in crisi irrimediabilmente
un modello di business. Si tratta ora di
realizzare una rivoluzione silenziosa. Portare
il Signor Qualunque fuori dal ghetto degli
equilibri cristallizzati, fargli assaporare il
gusto dell’alternativo virtuoso rispetto agli
stereotipi della finanza creativa e dei facili
consumi, ancora sospesi sulle nostre teste.
Reintrodurre il concetto di sobrietà e riportare
alla crescita il ceto medio sono gli imperativi
categorici del momento.
Sul proscenio convivono poche lezioni metabolizzate
e molte lezioni imparaticce. Registriamo
un clima culturale sostanzialmente
ripiegato su se stesso, che accentua le distanze
tra upper class e middle class, tra i figli
della gallina bianca di ieri e i figli della
gallina nera di oggi. Un clima con molte
aspettative su una gestione nuova del rischio
sistemico e sul controllo delle variazioni
cicliche. Tematiche che non possonoessere più feudo esclusivo della scienza economica.
|