Il possibile
emergere della
deflazione appare
inquietante
e le ricette devono
essere create
sul momento,
sperando di non
sbagliare o di non
sbagliare troppo. |
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Nelle sue più recenti previsioni sull’economia
mondiale, frettolosamente e ampiamente
riviste al ribasso di fronte al rapido
estendersi della contrazione produttiva e del
ribasso delle Borse, il Fondo monetario internazionale
ha tracciato uno scenario in
cui l’inflazione nei Paesi avanzati scenderà
a livelli inferiori all’1,5 per cento.
Siccome si considera che un aumento medio
dei prezzi dell’1,5-2 per cento sia da considerarsi“fisiologico”, ossia causato dall’aumento
della qualità dei prodotti, tali previsioni
implicano la forte possibilità che nel
2009, dopo oltre settant’anni, i Paesi più importanti del mondo vengano a trovarsi,
tutti insieme, in una condizione di “deflazione”.
Ai profani la deflazione dice poco e
non sembra poi così cattiva; dopotutto, non è il contrario dell’inflazione? E se l’inflazione
consiste in un aumento generalizzato,
non momentaneo e sufficientemente elevato
dei prezzi, la deflazione non è forse la loro
diminuzione? E prezzi che scendono non
sono in ogni caso preferibili, per il comune
cittadino, rispetto a prezzi che salgono
troppo?
Le cose, purtroppo, non stanno così, e non
sono così semplici. La deflazione è qualcosa di ben più importante di un semplice indicatore
statistico e non è semplicemente il contrario
dell’inflazione. Di fronte alla prospettiva
di prezzi che continuano a calare, i consumatori
rinviano gli acquisti, contando di
comprare successivamente a un prezzo inferiore,
e così le imprese vanno in crisi; e di
fronte alla prospettiva di denaro che rende sempre meno i risparmiatori tengono liquide
le proprie risorse finanziarie o confinano
i loro impieghi al breve periodo. Dietro i
prezzi che scendono ci sono quindi soldi che
ristagnano, imprese che chiudono, progetti
di sviluppo che vengono messi nel cassetto,
programmi aziendali e individuali che vengono
archiviati, insomma un’economia e
una società che si deteriorano. La deflazione è uno spegnersi delle iniziative e un irrigidirsi
nella routine, un rinviare a domani
ciò che si potrebbe fare oggi; una morte lenta,
dunque.
Se l’inflazione penalizza i creditori e riduce i
debiti, la deflazione, al contrario, rende
questi debiti sempre più pesanti perché il
debitore deve restituire, in termini reali, una
somma superiore a quella presa in prestito,
ossia una somma con la quale, ai nuovi e
più bassi prezzi, si comprano più beni e servizi
di prima; sotto il peso di questi debiti,
non solo l’economia ma l’intero tessuto sociale
geme e si avvita su se stesso.
Inoltre, i prezzi calanti di alcune componenti
del capitale nazionale distruggono rapidamente
ricchezza: per esempio, viene stimato
che la forte riduzione nel prezzo delle
abitazioni negli Stati Uniti e la caduta dei
mercati azionari in tutto il mondo possanoaver distrutto, nel corso del 2008, dai 40 ai
50 mila miliardi di dollari, una cifra grosso
modo equivalente al prodotto lordo mondiale.
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Nello Wrona |
Questa diagnosi dovrebbe probabilmente
essere già sufficiente a scuotere il cittadino
non esperto di economia. Bisogna purtroppo
aggiungere che, mentre le terapie contro
l’inflazione abbondano e mentre l’armamentario
della politica economica è zeppo
di strumenti per raffreddare un’economia in
cui i prezzi sono surriscaldati, le terapie
contro la deflazione sono molto più difficili
e i loro risultati molto più incerti.
La politica monetaria, infatti, come dicevano
i vecchi economisti, è come una corda: la
puoi tirare, ma non spingere. Neanche se
dai il denaro gratuitamente, come fece la
Banca del Giappone negli anni Novanta, e
come sta facendo la Federal Reserve negli
Stati Uniti, con tassi di riferimento nettamente
inferiori all’inflazione, sei sicuro che
qualcuno lo voglia prendere a prestito.
Contro la deflazione, insomma, non solo
non esiste un vero vaccino, ossia una cura
preventiva, ma non c’è neppure un convincente
programma, universalmente valido,
quando i sintomi si sono già manifestati.
Per questo, nel cupo e agitato finale del
2008, un anno bisestile che resterà segnato
in rosso nella storia monetaria come momento
di svolta radicale nella storia del capitalismo,
il possibile emergere della deflazione
appare particolarmente inquietante e
le ricette devono essere create sul momento,
sperando di non sbagliare, o, per lo meno,
di non sbagliare troppo.
La via migliore da seguire potrebbe essere
quella indicata già nel febbraio 2008 dal Direttore
generale del Fondo monetario internazionale,Dominique Strauss-Kahn, e meglio precisata in successivi documenti della
stessa organizzazione. Strauss-Kahn propone
un coordinamento internazionale non
solamente delle politiche monetarie, ma anche
delle politiche fiscali: tutti i Paesi avanzati
dovrebbero subito allentare il peso del
fisco, accettando temporaneamente un incremento
del deficit, in modo tale da sostenere
il consumo privato in una fase critica.
Per i Paesi dell’euro questo significa, come
ha detto il Governatore della Banca d’Italia
Mario Draghi parlando alla Giornata del
risparmio, sfruttare i margini del Patto di
Stabilità (o forse, si può aggiungere, avere il
coraggio di allentarlo un po’).
Il successo di queste politiche è di solito
maggiore quando vengono tagliate le imposte
con regole generali, evitando quindi
provvedimenti specifici a favore di categorie
particolari. Si potrebbe, per esempio, detassare
lo scaglione più basso dell’Irpef (o dei
suoi equivalenti in altri Paesi), il che implicherebbe
un beneficio massimo per le fasce
di cittadini con i redditi più bassi ed effetti
via via decrescenti su tutto l’insieme dei redditi.
Questa politica, però, non deve implicare
una “finanza allegra”.
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Nello Wrona |
Secondo quanto sostiene Strauss-Kahn, “coordinamento internazionale” significa infatti
che tutti i Paesi devono effettuare le riduzioni
nello stesso tempo, non nella stessa
misura; e che la misura deve essere tale da
non cadere nel “malanno” opposto, creando
inflazione, e quindi deve tenere in conto le
capacità produttive inutilizzate di ogni Stato
e anche il deficit già esistente.
In questo senso, la possibilità di manovra
dell’Italia è poca e l’economia italiana dovrà
far conto più sull’effetto che gli stimoli
fiscali altrui possono avere sulle sue esportazioni,
rispetto a quello che potrebbero
avere gli stimoli fiscali interni.
Il poco,
però, è meglio di niente; e sicuramente è
meglio di una deflazione assassina. |