L’isola che non c’è.
È necessario
abbandonare la
sindrome di Peter
Pan; si tratta di
passare a regole
per persone adulte,
dunque sagge
e lungimiranti. |
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L’Unione economica e monetaria è nata nei
primi anni Novanta sulla base di due“princìpi fondatori”: la stabilità finanziaria
dei bilanci pubblici e la stabilità dei prezzi.
Questi due princìpi sono stati stabiliti con
numeri precisi: il deficit pubblico non può
superare il 3 per cento del Prodotto interno
lordo, il debito pubblico deve tendere al 60
per cento, l’inflazione deve stare sotto il 2
per cento. Oggi, dopo oltre quindici anni di
Maastricht e dieci anni di euro, questi princìpi
e questo rigore appaiono quasi delle “tare
genetiche” che bloccano l’economia europea.
Come mai, allora, due princìpi sacrosanti
possono essersi trasformati addirittura in
elementi bloccanti?
Partiamo dal Trattato di Maastricht. Diciotto
anni fa si trattava di mettere un corsetto
rigido ai bilanci pubblici per contenere drasticamente
i deficit e garantire la stabilità del
rapporto debito/Pil. Ecco allora l’espediente
aritmetico: si dette per scontato che l’Europa
crescesse a un ritmo del 3 per cento reale all’anno;
con il 2 per cento di tetto all’inflazione
garantito dalla Banca centrale europea,
questo significava che il Pil nominale sarebbe
cresciuto del 5 per cento all’anno. E così si
fece la moltiplicazione: se il rapporto debito
pubblico/Pil deve tendere al 60 per cento e il
Pil cresce ogni anno del 5 per cento, ne consegue
che il deficit massimo deve essere il 3
per cento (60% moltiplicato 5% uguale 3%).
Passiamo alla stabilità dei prezzi. Questo
obiettivo è stato assegnato alla Bce come“unico ed esclusivo” compito statutario. La
Bce lo ha interpretato alla lettera, applicando nei fatti la vecchia teoria quantitativa
della moneta che ebbe non poche responsabilità
nel causare la Grande crisi del ‘29.
Questa teoria dice che, se il valore reale del
Pil è dato fisso e se il numero di scambi di
una stessa moneta (velocità di circolazione)è anch’esso fisso, controllando la quantità
di moneta si controlla il livello dei prezzi,
cioè l’inflazione.
Ebbene, la chiave vera per capire come mai i
due sacrosanti princìpi sono diventati tare
genetiche bloccanti sta proprio qui. In entrambi
i casi (Maastricht e Bce) si è creduto
che la crescita economica potesse essere un
dato esogeno, indipendente dalla finanza
pubblica e dalla politica monetaria. L’equilibrio
finanziario e la stabilità dei prezzi sono
diventati così obiettivi finali, invece che essere
strumenti fondamentali per avere solide
basi di sviluppo.
La crescita economica è stata quindi lasciata,
sul fronte interno, alle cosiddette politiche strutturali (infrastrutture, ricerca, innovazione
tecnologica, formazione scientifica, tutte
cose anch’esse sacrosante, ma che possono
avere effetti significativi soltanto dopo cinque,
dieci o ancora più anni) e, sul fronte
esterno, totalmente dipendente e succube...
del resto del mondo.
Ma purtroppo, per i vari adoratori di totem
superati e sepolti dalla teoria e dalla storiaeconomica del secolo scorso, la politica di
bilancio pubblico e la politica monetaria
hanno effetto sulla crescita. Non solo: ma
addirittura, se bilancio pubblico e politica
monetaria frenano la crescita economica
(cioè consumi e soprattutto investimenti
produttivi), si determinano maggiori squilibri
di finanza pubblica e più alta inflazione
strutturale.
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Siviglia, Plaza del Triunfo. - Giovanni Coluccia |
Non si tratta certo di tornare alle illusioni
devastanti dei deficit e dei debiti pubblici, o
delle svalutazioni competitive, con conseguenti
ondate
inflazionistiche travolgenti. Si
tratta di abbandonare la sindrome di Peter
Pan, che preferisce vivere nell’isola-che-non c’è;
si tratta di passare a regole per persone…
adulte, dunque sagge e lungimiranti.
Ecco perché è pericoloso “allentare” i vincoli
di Maastricht sul deficit pubblico e basta.
Occorre invece passare da Maastricht 1 a
Maastricht 2. Per dare una valutazione sull’impatto
che il bilancio pubblico produce
sull’economia, infatti, non è sufficiente limitarsi
al solo “saldo finanziario” che è il deficit.
Si deve cioè valutare quali siano la composizione
e il livello della spesa e delle entrate
pubbliche, i due addendi e non soltanto il
saldo.
Circa la “composizione”, infatti, si può avere
un Paese con un deficit pubblico totale al 3
per cento del Pil dovuto a un deficit tra entrate
e spese correnti del 3 per cento e a zero
investimenti pubblici, oppure un Paese che
ha lo stesso 3 per cento di deficit totale, ma
magari come risultato di un avanzo corrente
del 2 per cento e investimenti pubblici pari al
5 per cento. È fin troppo evidente che i due
casi sono radicalmente diversi in termini di
effetti reali sull’economia.
Ecco allora che Maastricht 2 deve basarsi
sulla parte corrente del bilancio pubblico,
che deve essere portata in avanzo corrente,
aggiungendo a questo risultato un “premio”,
e cioè per ogni 1 per cento di avanzo corrente
si può fare un 2 per cento di investimenti
pubblici.
Circa il “livello delle spese e delle entrate”,
anche a deficit e debito zero, occorre tener
conto che “sotto il 40 l’Europa campa, e sopra
il 40 l’Europa crepa”. Si tratta cioè di sapere
che il livello della pressione fiscale,
quando supera il 40 per cento del Pil, esercita
un freno sulla crescita economica. Pertanto,
quando in Europa si parla tanto di “armonizzazione”
dei sistemi fiscali, occorre dire
con chiarezza qual è la meta finale: più tasse
per tutti, o meno tasse per tutti? Infatti, il deficit
può essere portato a zero tagliando la
spesa e tagliando le tasse, oppure aumentando
la spesa e aumentando ancor di più le tasse.
Solo che nel primo caso si ottiene più crescita,nel secondo caso meno.Sul fronte della Bce, l’Europa ha accettato
supinamente il super-euro, lasciando che la
moneta unica passasse da un cambio inferiore
alla parità rispetto al dollaro (0,85 a inizio
2002), a un picco che ha sfiorato il rapporto
1,60 dollari per euro nell’estate 2008. Per capirci
meglio, è come se la vecchia lira fosse
passata da 2.225 a 1.225 lire rispetto al dollaro
e proporzionalmente si fosse apprezzata
anche verso lo yuan cinese, che si è agganciato
al dollaro per decisione politica di Pechino
e non per valutazione dei mercati!
Come si può pensare che riforme strutturali
e capacità imprenditoriali possano determinare
aumenti di produttività del 50 per cento
in quattro anni solo per compensare il 50 per
cento di apprezzamento dell’euro? E tutto
questo, sull’altare di un preteso rigore antiinflazionistico
di fronte a un’inflazione da
costi di materie prime in gran parte incontrollabile
attraverso gli strumenti della politica
monetaria e valutaria. Di fatto, l’apprezzamento
dell’euro, più che combattere l’inflazione,
ha frenato la crescita economica europea.
Il trade-off che emerge per il periodo
2003-2008 è che per ogni 1 per cento d’inflazione
in meno si è ottenuto un 2 per cento di
crescita in meno.
Ecco allora che il combinato disposto di due
princìpi sacrosanti, mal gestiti e trasformati in due totem ottusi, ha determinato e determina
uno schiacciamento della crescita economica
nell’intera area euro. D’altra parte,
quelle stesse autorità di politica economica
europee (Commissione e Bce) non smettono
di redarguire i governi circa la necessità delle
riforme strutturali. Ma quelle autorità
pensano sul serio che per costringere i governi
europei a fare le riforme strutturali sia
meglio da parte loro costringere tutta l’Europa
a crescere, se tutto va bene, all’1 invece
che al 3 per cento? Ritengono che fare le
riforme strutturali da parte di qualunque
governo sia più facile quando l’economia è a
crescita zero o sottozero, oppure quando,
con più solide e intelligenti politiche di bilancio
pubblico e politiche monetarie e valutarie,
potrebbe crescere almeno al 3 per cento
e indipendentemente dal resto del mondo?
Sanno che dal 2003 al 2008 il super-euro è costato all’Europa circa 600 miliardi di euro
di Pil in meno? Sanno che due terzi delle possibilità di crescita di ogni Paese europeo
dipendono dalle loro decisioni, e soltanto un
terzo dipende da quelle dei governi nazionali?
E come agisce il super-euro sull’inflazione,
ora che il petrolio è calato sotto o intorno
ai 40 dollari al barile?
Ecco allora il nodo istituzionale e politico
per chi vuole essere sul serio europeista: fare
un salto di qualità forte per costruire gli Stati
Uniti d’Europa e chiarire che la politica
economica non è una faccenda tecnico-burocratica,
ma è politica, anzi è l’essenza della polis.
È la politica che deve decidere sulle tasse dei
cittadini e sulle spese pubbliche che possono
e debbono essere fatte con quelle tasse, senza
far pagare alle future generazioni l’illusione
che esistano oggi pasti gratis (cioè il finanziamento
a deficit e a debito pubblico),
ma anche con la consapevolezza che la polis deve costruire condizioni di opportunità e
sviluppo, senza le quali equità e giustizia sociali
sono solo affermazioni furbesche e ipocrite
perché, se prive di risorse vere, si penalizzano
proprio le fasce più deboli e le nuove
generazioni. |