L’euro attrae ora
l’interesse di Paesi
fino a tempi
recenti diffidenti
se non ostili
nei suoi confronti,
e in qualche parte
del mondo sta
diventando anche
il protagonista di
una sorta di trend
monetario. |
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Con l’aria che tira, con tanta gente che ha
appena perso il posto di lavoro o rischia di
perderlo nei prossimi mesi, con la Commissione
europea e la Banca centrale europea
che prevedono una crisi lunga e difficile,
non era certamente il caso di organizzare
festeggiamenti in grande stile, con il Colosseo,
l’Arco di Trionfo, la Porta di Brandeburgo
e altri monumenti simbolo della storia
e della gloria d’Europa illuminati a
giorno e grandi kermesse popolari.
Sarebbe invece stata appropriata, anche
doverosa, una pubblica dichiarazione attraverso
comunicati, manifesti, articoli, avvisi
sui giornali, spot televisivi per ricordare
ai 323 milioni di abitanti dei 16 Paesi di
Eurolandia che essi hanno il privilegio di
risiedere in una zona dove la catastrofe globale
che aggredisce il mondo non può essere
evitata e provoca danni anche notevoli e
tuttavia in misura inferiore, molto inferiore
rispetto a quelli che si verificano altrove e
non distrugge i meccanismi che, se usati al
meglio, senza risparmio di idee e di energie
e mettendo nel conto la necessità di qualche
serio sacrificio, potranno rendere possibile
la ripresa.
Purtroppo, però, questo appello alla fiducia
popolare è mancato. O meglio ha avuto
le gambe corte. È stato espresso, salutato,
qualche volta perfino applaudito nelle
stanze degli addetti ai lavori delle istituzioni
dell’Unione e di qualche governo nazionale,
ma al di fuori di esse pochi hanno
avuto modo di apprenderlo e apprezzarlo,
anche se l’attualità stessa gli dava la dimensione
e il significato di importante notizia.
Il primo gennaio 2009 si celebravano infatti
i primi dieci anni dell’euro, dello scudo
economico che ha già difeso centinaia di
milioni di persone da molte crisi internazionali– quelle seguite all’undici settembre e
all’inizio della guerra in Iraq, ad esempio –
e ora offre loro qualche risorsa in più rispetto
ad altri popoli per superare la grande
depressione che genera allarme in tutto
il mondo.
Perché c’è stata e ancora continua a esserci
questa celebrazione in sordina? Perché in questo momento in cui lo sconforto risparmia
pochi e rischia di diventare un ostacolo
alle iniziative di governi nazionali e istituzioni
internazionali per uscire dalla crisi si è
fatto uso tanto parsimonioso di una notizia – l’esistenza e il valore dello scudo chiamato
euro – che pure contiene tanti elementi di
rassicurazione e d’incoraggiamento?
Tenteremo di dare una risposta tra poco.
Prima però ci sembra giusto mettere subito
in chiaro che l’euro gli applausi che finora
almeno non ha avuto dalle istituzioni europee
e dai governi nazionali dell’Unione se li è tuttavia ampiamente meritati sul campo.
Partito in undici Paesi il 1° gennaio 1999,
con le carte di credito, gli assegni e tutte le
operazioni bancarie che non richiedono
l’impiego di denaro contante, oggi, dopo l’ingresso della Slovacchia, è moneta unica
circolante in sedici Paesi popolati da 323
milioni di persone e attende altre adesioni
in un prossimo avvenire. Danimarca, Svezia,
Islanda (quest’ultima non fa parte,
com’è noto, dell’Unione europea) sono impegnate
in una manovra di avvicinamento.
Si pensa che lo stesso potrebbe far presto
l’Ungheria, dove senza la copertura protettiva
dell’euro la crisi internazionale sta colpendo
con particolare durezza.
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Nello Wrona |
Questa tendenza, secondo alcuni economisti,
sembra guadagnare terreno anche in
Gran Bretagna, che pure è il più euroscettico
dei ventisette Paesi dell’Unione europea.
In un recentissimo sondaggio, il settantuno
per cento dei cittadini britannici interpellati
si è dichiarato decisamente avversario dell’euro.
Almeno nelle prese di posizione ufficiali
mostra di pensarla così anche Gordon
Brown, il Primo ministro, che tagliando
corto sull’argomento ha dichiarato poche
settimane fa: «La sterlina continuerà ad
esistere quest’anno, l’anno prossimo e quello
dopo ancora». Non tutti, nel governo e
tra l’opinione pubblica del Regno Unito, la
vedono però in questo modo. Uscendo allo
scoperto, il ministro per le attività produttive,
Peter Mandelson, ha recentemente
confermato prese di posizioni pro-euro già
espresse nel passato, dicendo: «Resto convinto
che l’adesione alla moneta unica debba
essere il nostro obiettivo». Opinioni
analoghe sono state dichiarate dal quotidiano The Indipendent. E molti altri, nel
Regno Unito, sono probabilmente dello
stesso avviso. Se no, non avrebbe senso il
seguente giudizio reso noto alla fine del
2008 dal Presidente della Commissione europea,
Barroso: «La Gran Bretagna è più
vicina che mai all’adesione all’euro». Il
crollo della sterlina nel cambio con la moneta
unica dell’Unione, il vero e proprio assaltodi Londra da parte di turisti prove nienti dai Paesi di Eurolandia in occasione
delle feste e dei saldi aggiungono d’altra
parte l’eloquenza dei fatti a quella delle parole.
Anche oltre i confini di Eurolandia,
perfino nelle terre dell’euroscetticismo la
moneta unica è sempre più popolare. Perché
complessivamente resta forte.
In un documento approvato a larga maggioranza
dal Parlamento europeo alla fine
dello scorso novembre si legge che «l’euro è
stato un successo da molti punti di vista»,
anche se, si aggiunge, si «poteva ottenere di
più». È vero. Di più, ad esempio, come ha
ricordato poco tempo fa il Presidente della
Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet,
si sarebbe ottenuto se fossero state attuate
le riforme strutturali che erano state
progettate, ad esempio quella dei servizi,
da cui si sarebbe, tra l’altro, ricavato più
coordinamento ed efficienza nel settore
bancario. I risultati raggiunti sono tuttavia
enormi e fanno dell’euro uno scudo che ha
offerto fino a un recente passato e, sia pure
in diversa misura, offre anche oggi difese
economiche uniche al mondo. Tra gli anni
Settanta e la metà degli anni Novanta vari
Paesi europei, tra cui l’Italia, per cause interne
ed esterne subirono veri e propri terremoti
nei cambi delle loro valute e li pagarono
con continui saliscendi nell’inflazione
e nelle quotazioni dei prezzi, con pesanti
conseguenze negative negli investimenti e
nell’occupazione.
All’interno di Eurolandia oggi circola una
valuta sola che assicura una complessiva
stabilità dell’economia, contiene quasi
ovunque l’inflazione, i tassi d’interesse e il
rialzo dei prezzi, dando così vita a un muro
su cui le turbolenze esogene, come quelle
provocate dallo shock lasciato dall’attentato
dell’undici settembre, dall’aumento del
prezzo del petrolio, dalla guerra in Iraq e,
più recentemente, dalla crisi iniziata con il
crollo dei “sub prime” americani provocano
danni minori di quelli avvertiti in altre
parti del mondo, compresi i Paesi europei
(come la Gran Bretagna e l’Ungheria) che
fanno parte dell’Unione ma non dell’area
euro. Questa situazione, che fino a tempi
recenti ha favorito, sempre in Eurolandia,
la crescita degli investimenti e dell’occupazione
(ora in frenata o in regresso ma con
numeri minori rispetto a quelli di altre parti
del mondo), ha fatto e fa ancora dell’euro
la moneta internazionalmente più forte.
Oltre che la più diffusa e, per molti Paesi,
la più sicura valuta di riserva. Con questi
requisiti l’euro è servito e serve egregiamente
a incrementare gli scambi commerciali
intereuropei e anche tra i Paesi dell’Unione
e il resto del mondo.
Dunque, nel suo genere, un gioiello, certamente
il più importante atto dell’Europa utile, quella che è impegnata per migliorare
le condizioni di vita dei cittadini. Anche se
da subito, già dal gennaio 1999, poi con più
insistenza dal 2002, quando entrarono in
circolazione banconote e monete, questi
successi non hanno salvato l’euro da rilievi
critici pesanti. Politici che volevano distrarre
l’attenzione popolare dalle loro responsabilità,
piccoli e grandi speculatori, cittadini
poco o male informati sui fatti hanno
indicato e in una certa misura continuano a
indicare nell’euro il principale fattore dei
notevoli rialzi dei prezzi registratisi per un
buon numero di prodotti, soprattutto alimentari.Effettivamente il conto per la pizza o la cena al ristorante è in molti casi
pressoché raddoppiato e i prezzi del pane,
della pasta, delle verdure hanno iniziato
un’escalation che non è ancora conclusa. E
il fatto che, come notano alcuni euroentusiasti,
nel frattempo siano diminuiti i prezzi
dei computer, di quasi tutti gli elettrodomestici,
di un certo tipo di automobili e che
i quotidiani siano aumentati solo del tre
per cento all’anno non basta ad assicurare
la serenità nei bilanci familiari, dato che il
computer lo si può far durare anche un
paio d’anni, il giornale si può comprarlo in
società con un amico o un parente, o leggerlo
su Internet, mentre la pizza al ristorante è una consuetudine settimanale e il
pane, la pasta, la verdura si mangiano tutti
i giorni. Per cui il complessivo sensibile aumento
del costo della vita è innegabile.
Si può però dimostrare che esso non è addebitabile
all’euro o che la moneta unica ha
influito sui rialzi in minima parte. All’inizio,
già nel 1999, o nel 2002, quando furono
messe in circolazione le banconote e le
monete, la speculazione ha colpito duramente.
In Austria, per parecchi mesi dopo
l’adozione della moneta unica da parte di
questo Paese, in molti centri di montagna
negozianti, albergatori e proprietari dei ristoranti
equipararono un euro a 10 scellini
anziché ai 13,7603 stabiliti dal cambio ufficiale,
con una perdita, per il cliente, di circa
un terzo del valore.
Casi simili si ebbero anche in Italia. Secondo
l’Istat, la conversione lire-euro nel nostro
Paese fu attuata correttamente ma, secondo
istituti di ricerca indipendenti, per
generi alimentari, altri prodotti di largo
consumo e locali pubblici (quali le famose
pizzerie!) l’euro fu calcolato 1.000 lire, anziché
1.936,27 come stabilito dal cambio
ufficiale e i clienti si trovarono di fronte a
prezzi raddoppiati da negozianti ed esercenti
poco onesti. Molto di più tuttavia, allora
e dopo, fino a oggi, hanno influito sul
carovita fattori che niente avevano a che
fare con la moneta unica: gli effetti internazionali
della globalizzazione, l’aumento in
tutto il mondo dei prezzi delle materie prime,
anzitutto il petrolio, le impennate subite
su tutti i mercati dai generi di prima necessità,
quali il grano e il mais, i cali nella
produzione di diversi generi accompagnati
da altri interventi speculativi.
E alla fine gli studiosi che hanno affrontato
con serietà e obiettività il problema si sono
trovati di fronte a risultati che tagliano la testa
al toro. Questi risultati provano infatti
che i rincari avutisi nei Paesi di Eurolandia
non superano quelli registratisi nei Paesi dove
la moneta corrente non è l’euro. Per cui
l’euro merita l’assoluzione. I rincari sono
stati e sono effetto di un trend internazionale.
Non c’entra o c’entra pochissimo l’euro:
che, dove circola, ha garantito e ancora
complessivamente garantisce comunque una
stabilità altrove precaria o inesistente.
Ma se così è, perché è stata imposta la sordina
alla notizia euro mentre era resa di
stretta attualità dal decennale, proprio
dunque nel momento in cui la sua diffusione
e amplificazione potrebbero favorire la
semina tra i cittadini di un minimo d’ottimismo
nel futuro? È una domanda che, per
la verità, vale per tutti i prodigi dell’Europa utile, dalle etichette che garantiscono la
qualità del prodotto alimentare alle norme
antinquinamento delle acque e dell’atmosfera fino alle cinture di sicurezza delle auto. Questo e tanto altro è targato Europa,Europa utile. Ma la gran parte dei cittadini
non lo sa o non ne prende nota, soprattutto
perché l’Europa ben poco ha fatto e continua
a fare per diffondere la conoscenza dei
suoi meriti.
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Rosa Pugliese |
Lo stesso avviene per la moneta unica.
Un’inchiesta del CNR di qualche tempo aveva
il seguente, azzeccatissimo titolo: “L’euro
conviene. Ma nessuno lo sa”. Si direbbe che
l’Europa manchi di spirito mercantile.
Non
s’impegna per vendere, vale a dire per fare
apprezzare nella giusta misura i suoi prodotti
migliori, quelli dell’Europa utile da cui potrebbe
facilmente ricavare un rapporto di fiducia
e di stima con i cittadini mentre si sgola,
si affanna, cumulando insuccessi uno dietro
l’altro per propagandare le sue sterili iniziative
di politica internazionale.
Meno male che almeno i più importanti
tra i prodotti che l’Europa utile non sa vendere
o vende male alla fine, grazie ai successi
che ottengono, riescono a trovarsi da
soli una diffusa e distinta clientela. Sta accadendo
anche per l’euro, che dieci anni
dopo la sua nascita sta attraendo l’interesse
di un sempre maggior numero di Paesi
fino a tempi recenti diffidenti se non ostili
nei suoi confronti e in qualche parte del
mondo sta addirittura diventando il protagonista
di una sorta di trend monetario.
Nel suo libro Il paradosso dell’euro, uscito
l’estate scorsa, l’economista Lorenzo Bini
Smaghi, membro del Comitato Esecutivo
della Banca centrale europea, ha raccontato
che negli Stati Uniti un buon numero di
attori, attrici e modelle pretende, contrattualmente,
il pagamento in euro delle proprie
prestazioni, mentre nella Quinta Strada
di New York, nei negozi della grande,
storica opulenza, da “Tiffany” in giù, da
qualche tempo si fa presente ai clienti che
si preferisce il pagamento nella moneta
unica europea.
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