Dobbiamo
dunque arrenderci
all’avvento del
peggio, malgrado
la storia mostri
il frequente
risorgere
dei popoli
che hanno
attraversato
le prove
più dolorose? |
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In un celebre discorso a Indianapolis (12
aprile 1959), John F. Kennedy fece notare
come il termine cinese weiji, tradotto con “crisi”, fosse composto da due ideogrammi
che indicavano, rispettivamente, “pericolo”
e “opportunità”. E aggiunse che, di fronte
ai crescenti progressi tecnologici e scientifici
dell’URSS, era necessario reagire al rischio
di un’imminente perdita di terreno spronando
gli americani a vincere la sfida per la
conquista dello spazio e a utilizzare l’energia
atomica, l’automazione e lo sviluppo dei
mezzi di comunicazione per sconfiggere dovunque
la povertà.
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L’ideogramma cinese che indica la parola “crisi”: pericolo ma anche opportunità |
Da allora, questa parola cinese è stata variamente
citata per accreditare la tesi del capovolgimento
delle situazioni di crisi in preziose
occasioni di risanamento. Peccato che – come hanno osservato alcuni esperti di
lingua cinese – wei designi effettivamente “pericolo”, ma ji indichi il “punto cruciale”
e non (o non tanto) “opportunità”.
Se, sotto il profilo filologico, la spiegazione
del nesso tra wei e ji non è del tutto vera,
certo è ben trovata e, come artificio retorico,
può risultare abbastanza efficace non
solo nel sorreggere le speranze e nel mobilitare
le energie collettive a venir fuori da situazioni
di grave difficoltà, ma anche nell’individuare
a posteriori le cause della crisi. È stato sottolineato che la distorta interpretazione
dei due ideogrammi non è stata casuale.
Oltre a ricalcare l’ambiguità del greco krisis in quanto capacità di distinguere e decidere
in un modo o nell’altro, essa si adatta
spontaneamente alla nostra forma mentis e
alle nostre tradizioni. In particolare con la
dottrina della redenzione (che offre anche al
peggior peccatore la possibilità di risollevarsi
dopo ogni caduta) e con il Credo nella
resurrezione dei morti, il Cristianesimo ha
costituito la premessa maggiore di questo
atteggiamento. Sul suo tronco si è innestata
poi, nel XVIII secolo, la teoria del “ringiovanimento”
dei popoli dopo ogni fase di declino.
Da qui, fra l’altro, le espressioni ottocentesche “Rinascimento” (termine coniato
da Michelet e ripreso da Burckhardt) e “Risorgimento”
(si trova nell’Alfieri, ma cambia
senso con la pubblicazione nel 1847 dell’omonimo
giornale di Cesare Balbo e del
Cavour).
Il primo e più strenuo assertore di questa
idea è stato Herder, che si serve del topos della decadenza di Roma per esaltare il rinnovamento
portato dai popoli del Settentrione.
In un mondo «snervato, disfatto, deserto
d’uomini, abitato da esseri senza vigore», i giovani virgulti delle tribù germaniche,
trapiantati nelle terre meridionali, introducono
fresca linfa. Quelle che noi chiamiamo “invasioni barbariche” (e i tedeschi,
non a caso, “migrazioni di popoli”) per lui
hanno prodotto una transizione virtuosa
dal Decline and Fall of the Roman Empire alla nuova Europa.
L’implicazione celata in simili posizioni è che l’iniziale regresso da una civiltà più raffinata a una più grezza costituisce il prezzo
della rigenerazione. Si tratta di una concezione
ripresa più tardi da quanti, rimpiangendo
l’assenza di una Riforma protestante
in Italia, hanno riconosciuto la fecondità
della relativa rozzezza di Lutero rispetto alla
colta, ma spossata eleganza delle corti papali
di Leone X e di Clemente VII. Georges
Sorel, infine, ha applicato questo schema alla
rivoluzione socialista: i nuovi barbari, i
proletari, cancelleranno alcune conquiste
delle civiltà precedenti, ma strapperanno
l’umanità alla stagnazione e al declino.
Nel periodo della massima fioritura di tali
convinzioni, Holderlin difende in versi la tesi
secondo cui ogni popolo «con la morte ritorna
all’elemento / dove per una nuova giovinezza,
come in un bagno si ristori. Agli
uomini / la grande gioia è data, che in se
stessi / trovan la forza di ringiovanire». E afferma
perentoriamente che «là dove cresce il
pericolo / cresce anche ciò che ti salva».
Quando si tocca il fondo, non si può dunque
che risalire? Già, ma, tornando al presente
abbiamo davvero toccato il fondo dell’attuale
crisi finanziaria ed economica, oppure
quella che conosciamo è soltanto la
punta dell’iceberg? Si riuscirà, inoltre, a costruire – a livello mondiale – un sistema di
regole in grado di imporre dei limiti ai mercati
finanziari, senza soffocarne il dinamismo?
La Fine del laissez-faire prevede ampiamente
nel 1926 le forti resistenze che si
incontreranno a modificare i presunti meccanismi
di autoregolazione del mercato: voler
convincere la City di Londra in vista del
bene pubblico – dice Keynes – è come discutere
con un vescovo sulla bontà dell’Origine delle specie di Darwin.
Bernard-Henry Lévy ha sostenuto che l’attuale
crisi finanziaria mondiale è «l’equivalente, fatte le debite proporzioni, di quello
che fu per il comunismo il crollo del Muro
di Berlino». Se è così, anche le scosse di assestamento
per stabilizzare i mercati saranno
piuttosto prolungate e provocheranno il
trasferimento di interi blocchi di potere: in
termini comparativi, si assisterà forse al
progressivo declino economico degli Stati
Uniti e dell’Europa, finora i maggiori detentori
della ricchezza del pianeta, rispetto
alla crescita dei Paesi emergenti.
L’insicurezza fa parte della condizione
umana, solo che oggi la percezione e la consapevolezza
dei rischi (intesi, con Ulrich
Beck, quale messa in scena e anticipazione
di possibili catastrofi) sono enormemente
aumentate in un mondo globalizzato, le cui
parti sono interconnesse, ma dove la comprensione
dei processi è diventata più opaca
e i pericoli sono diventati meno calcolabili.
Dobbiamo dunque arrenderci all’avvento
del peggio, malgrado la storia mostri il frequente
risorgere dei popoli che hanno attraversato
le prove più dolorose? Si pensi solo
all’Italia: nel Rinascimento, periodo in cui è
saccheggiata da eserciti stranieri e lacerata
da interne divisioni politiche, alcune sue
parti riescono a innalzarsi alle vette della
cultura umana; essa trova poi la sua riscossa
dopo la disastrosa sconfitta di Caporetto,
e si risolleva infine, rapidamente, nella
fase della Ricostruzione, dopo che il 65
per cento del potenziale industriale era stato
distrutto dalla Seconda guerra mondiale,
e quando il salario medio ammontava (nel
1945) a circa la metà di quello del 1939.
Possono, da soli, questi esempi, avere effetti
sulla realtà attuale? La fede e la volontà difar credere producono, senza dubbio, mutamenti
decisivi. Suscitano grandi speranze
che, in campo politico, tendono però a
estinguersi gradualmente qualora non si intravedano
scadenze ragionevoli per la loro
realizzazione (a meno che non vengano manipolate
e ridotte a dogmi da un’ideologia
armata).
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Nello Wrona |
Norberto Bobbio riteneva che l’etica del laico
non dovesse basarsi sulla speranza, ma
sulla responsabilità. Una certa dose di fiducia
sulla nostra attitudine a sfidare i pericoli è benvenuta se funziona da anabolizzante,
da artificiale ormone della crescita. Ma non
basta, perché il futuro dipende dalla grande
politica, dalle circostanze e dalla capacità di
ciascuno di incidere,
per quanto possibile,sull’elaborazione delle scelte collettive.
Yes,we can?
Almeno, proviamoci!
Chi vive in un’epoca di crisi è portato a misurarne
la durata sui tempi brevi della vita
umana: il raccolto di quest’anno è andato
male, ma un altr’anno andrà meglio; è difficile,
pensano tutti, che peste, grandine, gelate
e inondazioni capitino per più stagioni
consecutive; profeti e politici rischiano l’impopolarità
se avvertono che forse la crisi
non finirà l’anno prossimo. Più lo sguardo
degli storici si sposta verso il passato, invece,
e più la crisi diviene la chiave interpretativa
di intere epoche: come quel secolo terribile,
a cavallo fra Medioevo e modernità,
che i manuali scolastici indicano con il titolo“La crisi del Trecento”. Eppure, guardandolo
da vicino viene da chiedersi se
quella di crisi non sia, almeno in quel caso,
un’etichetta fuorviante, capace di evocare
disastri e sofferenze, ma non di far cogliere
le novità che emergevano dalle convulsioni
di una società traumatizzata.
Sul piano congiunturale, il Trecento ne ha
viste abbastanza da farci rallegrare di non
esserci nati: è allora che si stabilizza la formula
dell’Apocalisse, “peste fame guerra”,
da cui per secoli gli europei pregheranno
d’essere liberati. Prima, la peste era soltanto
una malattia di cui si parlava nei libri, nella
Bibbia o nei romanzi su Troia, e per immaginare
che potesse tornare ad ammucchiare
i cadaveri nelle strade di un mondo fervido
di iniziative e traboccante di ottimismo
com’era quello medioevale ci voleva la fantasia
di un moralista visionario: come quell’anonimo
pittore che affrescò il “Trionfo
della Morte” nel Camposanto di Pisa, ben
prima che la peste facesse la sua apparizione
in Europa. Ma quando venne davvero,
nel 1348, offrendo fra l’altro al Boccaccio la
cornice per il Decameron, aprì tali vuoti nei
quartieri sovraffollati delle città industriali
da alimentare l’idea, certamente esagerata,che metà della popolazione soccombesse in
pochi mesi.
Perfino uno shock di quelle dimensioni, tuttavia,
poteva essere riassorbito da un’Europa
giovane e vitale, la cui struttura demografica
era simile a quella odierna del Terzo
mondo: ma da allora la peste si ripresentò
implacabilmente ogni dodici o quindici anni,
impedendo ogni ripresa, sicché all’inizio
del Quattrocento gli esattori delle tasse (è
grazie ai loro registri che conosciamo questi
dati!) trovavano ovunque che il numero dei
contribuenti si era dimezzato rispetto ai
tempi d’oro.
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Nello Wrona |
Ma il Trecento è anche un secolo di guerre
crudeli e logoranti, per una combinazione
micidiale di fattori. Esistono ormai Stati organizzati,
capaci di perseguire una politica
di espansione e di conquista, come l’Inghilterra,
che per oltre un secolo continuò ostinatamente
a illudersi di poter conquistare la
Francia, o quello Stato Visconteo che da
Milano sembrava avviato a unificare l’Italia
sotto il segno della tirannide. Questi Stati
sono capaci di rastrellare denaro, fra le lamentele
dei contribuenti vessati, e di investirlo
nella guerra; ma rispetto agli obiettivi
il denaro è sempre troppo poco, in un’economia
cresciuta troppo in fretta e che soffre
d’una cronica carenza di liquido. Perciò gli
eserciti sono piccoli e operano su scala locale,
i mercenari in attesa degli arretrati badano
più a saccheggiare le campagne che a
combattere i nemici, e le guerre si trascinano
senza fine, al punto che quella tra Francia
e Inghilterra è passata alla storia come
la Guerra dei Cent’anni.
Oggi i politologi parlerebbero di “conflitti a
bassa intensità”: e tutti possiamo immaginare
quanto sia fuorviante questa definizione,
se vista con gli occhi dei contadini ai
quali gli uomini d’arme bruciavano le case,
portavano via il bestiame e stupravano le figlie,
o dei mercanti che non potevano mettersi
in cammino per le varie fiere senza il
rischio di essere bloccati sulle strade maestre
da gente armata e nel migliore dei casi
ritrovarsi in braghe.
Se si aggiunge che la massima autorità morale
dell’Occidente cristiano, il Papato, offriva
ai buoni cristiani lo spettacolo poco
edificante di due pontefici rivali intenti a
scomunicarsi a vicenda, e che a quest’epoca
divampano le più feroci rivolte contadine e
operaie che l’Occidente abbia conosciuto
prima delle moderne rivoluzioni, non è difficile
capire come mai per molto tempo gli
storici abbiano parlato senza esitazioni e
senza virgolette della crisi del Trecento. Eppure,
da un po’ di tempo capita sempre più
spesso di trovarle, quelle virgolette, attorno
alla parola “crisi”, anche grazie ai nuovimateriali che continuano ad emergere dagli
archivi (e già questo è un fatto che dà da
pensare: quell’Europa in fiamme, dove però
intanto era stata inventata la carta, ci ha lasciato
una massa di documenti scritti enormemente
superiore a tutto quello che era
stato prodotto prima).
Si finisce così per fare una considerazione cinica,
forse, ma inoppugnabile: a ogni ritorno
della peste, tanto peggio per chi ci lascia
la pelle, ma i vivi stanno meglio di prima.
C’è chi ha ereditato dallo zio o dal cugino,
chi ha visto sparire l’azienda concorrente,
chi si ritrova libero di sposarsi e fare nuovi
figli. Gli operai in città e i braccianti in campagna
scoprono d’essere rimasti in pochi, e
se il padrone non aumenta il salario si può
sempre trovarne un altro che ha un gran bisogno
di manodopera ed è disposto a pagare
di più. I padroni protestano contro questi
soprusi, esigono a gran voce leggi che fissino
un tetto ai salari, ma intanto pagano, e la
povera gente ha più soldi in tasca di quanti
ne abbia mai avuti. Li usa per vestirsi meglio
e per mangiare meglio: il consumo di vino
e di carne è a livelli che non saranno superati
prima dell’Ottocento, non ci sono mai
state tante botteghe di macellaio, e quegli
imprenditori che anziché velluti per i ricchi,
come si ostinano a fare a Firenze, imparano
a produrre solidi fustagni a buon mercato
per la gente che lavora, scoprono che la crisi è anche un grandissimo affare, come capita
soprattutto agli industriali padani.
Anche la guerra, ovviamente, è un buon affare;
peccato per i poveracci che ci si trovano
in mezzo, ma per i più accorti e i più fortunati
il giro degli appalti, delle forniture,
degli incarichi ben pagati si trasforma in un
formidabile volano di mobilità sociale. Perfino
le comunità contadine, che soffrono
più di tutti, imparano a negoziare col governo
la propria fedeltà, a ottenere autonomia
politica e sconti fiscali in cambio dell’impegno
di fortificare il villaggio e difenderlo
dai nemici, e magari a liberarsi da un
signore troppo esoso, accordandosi col nemico.
Quelle che la storiografia borghese ha
per troppo tempo aggiunto al passivo della
crisi classificandole sbrigativamente come
rivolte dettate dalla fame e dalla disperazione
sono in realtà una scuola di politica, in
cui gli abitanti delle campagne imparano
molte lezioni e ne insegnano anche qualcuna
a chi comanda.
Resta al passivo, apparentemente, l’ignominiosa
spaccatura del Papato fra Roma e
Avignone. Eppure, quell’esperienza frustrante
indusse le migliori teste pensanti del
mondo cattolico a chiedersi se dopotutto
era un bene che la Chiesa fosse governata
da un sovrano assoluto, e se le decisioni veramente
importanti, anziché essere lasciate
a un uomo solo, non dovevano piuttosto essere
prese collegialmente, in un Concilio dove
tutte le voci avessero diritto di rappresentanza.
Per almeno due generazioni il
conciliarismo apparve come la strada maestra
per uscire dalla crisi e rinnovare dall’interno
la Chiesa, adeguandola ai bisogni di
un presente in tumultuoso mutamento.
Poi, come si sa, uno dei due Papi sconfisse
l’altro, la dottrina conciliarista venne messa
da parte, e Roma ricominciò a governare la
Cattolicità come se non fosse accaduto nulla,
in attesa che venisse il dottor Lutero a
lacerare quell’illusione, provocando uno
scisma e a sua volta illudendosi di poter dominare – magari dalla stessa Città Eterna –
l’intera Cristianità.
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