Ce la faremo.
Soprattutto perché
conosciamo a menadito
l’arte di arrangiarsi,
considerata
il distintivo
del nostro “spirito
nazionale”. Arte
riconosciuta senza
timidezza e senza
vergogna. |
|
Ha scritto Paolo Rossi, storico delle Idee, che prima, durante e dopo
il crollo del Muro, seguito dal crollo dell’Impero, sembrò a molti che
fosse finita anche la lunga stagione dei grandi racconti epocali elaborati
dai filosofi. Ma l’ottimismo era del tutto ingiustificato perché ai
grandi racconti progressisti semplicemente si sostituirono quelli apocalittici:«Siamo pieni di sciamani travestiti da filosofi che ogni giorno
ci dichiarano che loro sanno qual è la caratteristica fondamentale
dell’età nella quale ci è concesso di vivere, che loro sanno qual è il
problema fondamentale che, senza saperlo, abbiamo tutti di fronte.
Seminano paura e disperazione, riescono ad affascinare folle di giovani
e di anziani, e discutono tra di loro, spesso con notevole acrimonia,
per stabilire se sia vero che “solo un Dio ci può salvare”, oppure
se sia vero che nessuno ci salverà».
 |
Ph. Serena Colazzo |
Ai “grandi racconti” dei filosofi, alle loro invincibili tendenze profetiche
e smanie futurologiche c’è una sola tesi da contrapporre: quella
di una varietà irriducibile all’unità, del totale non-senso della riduzione
a unità di tutto ciò che accade.
In questo contesto si possono elencare, come sosteneva nel ‘600
Francis Bacon, alcune «ragioni che possono preservarci dalla disperazione»? E gli esseri umani possono accontentarsi di speranze ragionevoli?
Bacon riteneva che, nel suo tempo, ci fossero ventuno ragioni che
autorizzavano a nutrire “ragionevoli speranze” entro un futuro incerto
e difficile. Le speranze non sono garantite in partenza. Non sono
sorrette da una Grande Speranza che le renda ragionevoli. Le
rendono tali solo alcune congetture. E le congetture sono supposizioni.
Assomigliano alle ragioni che aveva Cristoforo Colombo quando
si accingeva, su fragili caravelle, ad iniziare un viaggio avventuroso.
Allora: che speranze abbiamo, che possano preservarci dalla disperazione,
e che ci mantengano in cammino? Bacon ne enumerò ventuno.
Noi ne citeremo soltanto due.
Da sempre, questo è il più lungo periodo di
pace in Europa; 500 milioni di persone in 27
Paesi vivono in regimi democratici; in nazioni
un giorno povere, come Portogallo,
Grecia, Irlanda, oggi si vive molto meglio, e
in nazioni ancora povere, come Bulgaria e
Romania, si vivrà presto meglio; da qualche
anno l’Europa cresce più in fretta e crea più
posti di lavoro, (o ne perde molti meno, in
questi tempi di crisi), nonostante le leggende
che circolano; Erasmus, il programma di
scambio per giovani universitari, ha
vent’anni, funziona bene e coinvolge un milione
e mezzo di studenti di 220 università;
l’incompatibilità della pena di morte con
l’appartenenza all’Unione europea taglia in
partenza la possibilità stessa di ogni proposta
di reintrodurla; siano forse tutti abituati
a lamentarci molto, ma l’81 per cento degli
europei si dichiara “molto” o “abbastanza
soddisfatto” della propria vita.
In secondo luogo, è soprattutto da sottolineare,
tra le “ragionevoli speranze”, l’espansione
della democrazia nel mondo contemporaneo.
Si tratta di un argomento considerato
poco intrigante dagli intellettuali
cosiddetti “progressisti” quasi esclusivamente
interessati all’antitesi amico-nemico e
alla fuoriuscita dall’Occidente. Come ha
chiarito ai colti e alle inclite Anthony Giddens,
fra la metà degli anni Settanta e il
2005 il numero degli Stati democratici nel
mondo è triplicato.
Dopo il 1974 il Portogallo, e poco dopo la
Spagna e la Grecia, sono diventati Paesi democratici.
Fra i 125 Stati che hanno vissuto
un’esperienza democratica negli ultimi
trent’anni, in 14 si è manifestata un’inversione
di tendenza, ma nove di essi sono tornati
alla democrazia.
Rileva Giddens: «Se mi si chiedesse il motivo
di questa espansione della democrazia a
livello mondiale, risponderei designando
semplicemente un simbolo: quello di un’antenna
parabolica per la tv satellitare». Il desiderio
di essere informati, di conoscere le
vicende del mondo, sembra da tempo configurarsi
come una forza irresistibile. Che
continuerà ad avere effetti esplosivi.
Tenendo presente tutto ciò, passiamo alle
considerazioni che riguardano la situazione
di casa nostra. L’Italia, si sa, è un Paese che
ha costantemente fatto impazzire gli economisti.
In Ricchi per sempre?, di Pierluigi
Ciocca, un grafico eloquente dimostra come proprio in questi anni segnati dalla convinzione
del declino economico gli italiani abbiano
raggiunto il massimo valore di tutta
la storia moderna in termini di ricchezza
netta privata.
Espresso in termini di rapporto tra questa
ricchezza e il reddito disponibile del settore
privato, siamo di poco sotto il valore 9: cioè
l’insieme di tutte le attività mobili, immobili
e immateriali è nove volte il reddito disponibile
annuo. È un dato eccezionalmente elevato,
se pensiamo che soltanto nel 1990 questo
rapporto era poco al di sopra delle cinque
volte, e che alla fine degli anni Settanta
si era giunti in prossimità di quella soglia,
dopo una stagnazione ventennale attorno a
4-4,5 volte. Ma la cosa che manda in tilt gli
economisti, e anche qualsiasi modesto analista,è che, contemporaneamente a questa
crescita della ricchezza netta, il reddito annuo è crollato fino allo zero! La ricchezza
cresce, il reddito si ferma. Come è possibile?
Senza dubbio, l’impennata della ricchezzaha a che fare con il rafforzamento della moneta, con l’introduzione dell’euro che ha eliminato
rischi di cambio e rischi Paese, e ha
quindi consolidato il valore della ricchezza
finanziaria e, soprattutto, ha aperto la strada
dell’indebitamento. Infatti questo alto livello
di ricchezza ha a che fare con l’espansione
dei valori immobiliari e dei terreni, e
della vera e propria ondata di acquisti dei
primi anni Duemila. I prezzi degli immobili,
in euro, sono cresciuti. Gli italiani si sono
indebitati, a tassi decrescenti ma in moneta
pesante, per acquistare case e terreni. Si è
ridotto il loro reddito disponibile, ed è aumentata
la loro ricchezza.
In coincidenza con l’introduzione dell’euro
la società civile ha fatto una scelta a favore
dei patrimoni, che si sono consolidati, resi
più sicuri da rischi esterni. L’indebitamento è cresciuto; tuttavia non ha messo a rischio
la stabilità finanziaria delle famiglie, anche
perché il valore dei beni acquistati è salito
parecchio. In Europa, almeno, a fronte dei
mutui contratti, immobili e terreni continuano
a costituire una contropartita di
buona qualità. Certo, ne hanno risentito i
consumi, in particolare quelli di beni durevoli,
e qui trova un’ulteriore spiegazione il
calo della dinamica del reddito.
Per sprofondare ancora di più nei paradossi
che tormentano gli economisti, dobbiamo
dare un’occhiata alle tabelle dell’Ocse: esse
non registrano per l’Italia alcun calo preoccupante
della propensione al risparmio, che
si ritiene possa rimanere stabile. Nel mondo,
i primi anni Duemila sono stati caratterizzati
dal crollo del tasso di risparmio, passato
in Giappone dal 12 al 3,2 per cento,
negli Stati Uniti dal 7,6 del 1992 a una percentuale
addirittura negativa del -0,4 per
cento del 2005, in Canada dal 13,3 all’1,2
per cento.
L’Europa, al contrario, ha tenuto le sue posizioni,
grazie a un sistema finanziario abbastanza
solido, ben governato, vigilato da
istituzioni pubbliche, che non ha consentito
acquisti di ricchezza con indebitamento senza
requisiti e senza freni. La Germania ha
visto negli anni Duemila una lieve crescita
del suo tasso di risparmio dal 9,3 del 2000
al 10,7 per cento, mentre la Francia si è
mantenuta saldamente al primo posto con il
suo 11,5 per cento nel 2005. Nella stessa tabella
l’Italia ha registrato un dato 2004 pari
a quello francese: base solida per affrontare
gli anni del disordine e della crisi!
Ebbene, la spiegazione che vien data di questo
fenomeno mondiale è inquadrata nella
teoria del “ciclo vitale del risparmio” di
Franco Modigliani. Le società che sperimentano
un forte invecchiamento della popolazione
registrano un calo, fino al crollo,
della propensione al risparmio. In teoria,
più la popolazione invecchia, più la ricchezza
accumulata dovrebbe ridursi per finanziare
il consumo. In questo caso sembrerebbe
proprio che l’Europa faccia eccezione, e
l’Italia per prima, ribellandosi, almeno per
ora, al modello Modigliani.
La tenuta sostanziale del risparmio e l’accrescimento
della ricchezza delle famiglie
sono fenomeni probabilmente legato l’uno
all’altro. E la spiegazione è di natura sociale.
Di fronte alla paura per il futuro e alla
difficoltà di produrre redditi crescenti in
termini reali, ricchezza e risparmio hanno
costituito una sorta di ammortizzatori sociali.
Certo, se si continuerà a ridurre il tasso
di crescita del Pil, prima o poi anche la ricchezza si sgretolerà. Ma è come se la società italiana avesse voluto negli anni scorsi
fare scelte d’investimento, come si fa una
buona provvista al cospetto di un lungo inverno.
 |
Rosa Pugliese |
Ce la faremo comunque, come abbiamo fatto
sempre in passato. Parola di Ilvo Diamanti,
secondo il quale ce l’abbiamo sempre
fatta, tanto più se e quando ci davano
per spacciati: dopo la guerra, dopo gli anni
foschi del terrorismo e della crisi. Dopo la
fine della prima Repubblica, dopo Tangentopoli
e dopo la recessione. Quando nessuno
avrebbe scommesso un soldo bucato che
saremmo riusciti ad entrare nell’Ue. E dopo
Calciopoli, quando abbiamo addirittura
vinto i campionati del mondo. Ce la faremo
soprattutto perché conosciamo a menadito
l’arte di arrangiarsi, considerata il distintivo
del nostro “spirito nazionale”. È un’arte
ammessa da un’ampia quota di popolazione
senza timidezza e senza vergogna. Perché
quell’arte – nella quale siamo insuperati
maestri – riflette e descrive la nostra capacità
di adattamento, che è flessibilità mentale,
che può sconfinare senza rimorso nel trasformismo
opportunista, che non riflette
soltanto i nostri vizi, ma anche alcune importanti
virtù. Che descrive, in particolare,
la capacità creativa e innovativa degli italiani
in molti campi.
Dice Diamanti: gli italiani si immaginano
un popolo di lavoratori, di imprenditori,
di artisti, di artigiani e di commercianti;
magari anche furbi, insofferenti alle regole,
diffidenti verso lo Stato, però capaci di
reagire alle difficoltà più difficili su base
individuale e, ancor più, familiare e localista.
La crisi, dunque, non deve spaventare.
Sarà dura, ma ce la faremo anche questa
volta, anche se quell’arte dà qualche segnale
di indebolimento, denuncia alcuni
scricchiolii, facendoci arretrare un po’ dal
capo innovativo verso quello difensivo. La
famiglia e il localismo, come le appartenenze
professionali, rischiano di diventare
luoghi di autotutela per interessi concorrenti
e irriducibili.
Rischi collegati a questi fenomeni visibili
non più soltanto in filigrana: i fili dell’arte
di arrangiarsi possono logorarsi o diventare
difficili da intrecciare; il dinamismo molecolare
della società – cui fanno capo le indagini
di De Rita e del Censis – può produrre
effetti dissociativi, può accorciare e
schiacciare l’orizzonte delle strategie personali
perché, a differenza del passato, si sta
perdendo l’idea del futuro. D’altra parte, è
il futuro stesso, come idea, a voler passare
di moda, perché reso poco attuale dal presente
infinito. Si profila una sorta di irresistibile
tendenza a guardare indietro, a discutere
del passato che non passa mai, che
impedisce di guardare e di marciare in
avanti senza soluzione di continuità, come
accadeva una volta.
 |
In un mercatino dell’antiquariato,a Vico Pisano - Nello Wrona |
Il fatto è che la nostra società ha conquistato
un benessere notevole, ha appreso i piaceri
del viver bene, è diventata pingue, si è
impigrita, ha parcheggiato i giovani in angoli
confortevoli, ma periferici. È una società
che non ha più il fisico di un tempo.
Non ha neanche la rabbia di una volta, anche
se finge di essere incavolata: «Ha smarrito
un po’ dello spirito animale che le permetteva
di reagire e innovare comunque e
dovunque». E teme di perdere il benessere
conseguito con tanta fatica, anche perché
deve fare i conti con altre società una volta
lontane, che la globalizzazione ha reso vicine
o contigue, e che ora ci inquietano. Forse
il nostro eterno trasformismo sta mutando
in camaleontismo? È anche questa un’uscita
di sicurezza che gli italiani devono perfezionare
per venire a capo della crisi che
coinvolge il pianeta?
|