Crisi globale.
L’uragano
perfetto del 1907
lasciò dietro di sé
un panorama di
macerie.
Wall Street
e il giovane
capitalismo
americano erano
a pezzi. |
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La Knickerbocker Trust Company era un’istituzione
celebre nell’America della “Gilded
Age”, l’Età dell’Oro del primo Novecento. In
quegli anni ruggenti, caratterizzati da uno
sviluppo economico veloce, molte famiglie
del ceto medio newyorkese avevano affidato i
propri risparmi alla prestigiosa società finanziaria
con sede all’angolo fra la Quinta Avenue
e la Trentaquattresima Strada, di fronte
all’Hotel Waldorf Astoria. E come non fidarsi?
Al vertice di quella società c’era Charles
Tracy Barney, sposato con una Whitney
(quelli del Museo), membro di trentatré Consigli
di amministrazione di colossi industriali,
finanziatore in proprio della costruzione del
metrò di Manhattan: un Grande Gatsby
dell’establishment americano. Con un’economia
che cresceva a ritmi del sette per cento
annuo, tra il 1896 e il 1906 il Prodotto interno
lordo degli Stati Uniti era raddoppiato, e i
rendimenti offerti ai risparmiatori erano molto
generosi. Si apriva sotto i migliori auspici
il “secolo americano”. Ma l’irresistibile ascesa
della nuova potenza mondiale non sarebbe
avvenuta senza scossoni.
Poco più di cento anni fa – è stato scritto – il
grande panico del 1907 fu la prima crisi “globale”
del Novecento. Nel solo mese di ottobre
l’indice azionario di Wall Street perse il
37 per cento del suo valore, in tutta l’America
folle di risparmiatori diedero l’assalto agli
sportelli delle banche fra scene di violenza e
di disperazione, il sistema del credito rimase
paralizzato per parecchie settimane.
Il 14 novembre, quando la moglie Lily trovò
il cadavere di Charles Barney ai piedi del letto,
con la mano che ancora stringeva il revolver
fumante che aveva puntato alla tempia,
sul loro appartamento di Park Avenue calava
il sipario dopo l’ultimo atto della tragedia.
Ormai la Knickerbocker non esisteva più. La
crisi aveva travolto un sistema di potere, e
avrebbe imposto riforme profonde nei mercati
finanziari.
La “tempesta perfetta” di quell’anno ebbe
per protagonisti alcuni giganti della storia, da
Theodore Roosevelt al banchiere J. Pierpont
Morgan. L’eco di quegli avvenimenti non si è
mai eclissata. La proverbiale superstizione
degli investitori chiamò in causa la “maledizione
del 1907” quando Wall Street subì un
altro dei peggiori crolli della sua storia, il 19
ottobre 1987, con una caduta del 23 per cento
dell’indice Standard & Poor’s 500.
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Una drammatica immagine della Borsa di New York durante il crac del 1929. - Archivio BPP |
Due economisti americani, Robert Bruner e
Sean Carr, hanno recentemente pubblicato
un saggio sul crac del 1907 (The Panic of1907: Lessons Learned from the Market’s Perfect Storm) per studiare le analogie con la
situazione odierna. Già nel 1908 il finanziere
Henry Clews nelle sue memorie indicava tre
cause principali del disastro dell’anno precedente
che ci suonano familiari:
l’eccesso di investimenti
nel settore immobiliare; il credito
facile; le manipolazioni dell’alta finanza.
Le voci che nel sistema bancario americano si
nascondeste qualcosa di marcio iniziarono a diffondersi ai primi di ottobre 1907. Due speculatori
senza scrupoli, Augustus Heinze e
Charles Morse, avevano tentato la scalata a una società di estrazione del rame ed erano finiti
in bancarotta. Ben presto si scoprì che dietro di loro si nascondeva la Knickerbocker
di Barney.
Per non smentire la superstizione, il venerdì
17 ottobre le indiscrezioni divennero un boato
e i sospetti si trasformarono in terrore. Diciottomila
clienti della società finanziaria assaltarono
la sede principale sulla Fifth Avenue
e le tre filiali sulla Broadway, ad Harlem
e nel Bronx. In poche ore svuotarono le casseforti
della Knickerbocker di otto milioni di
dollari in contanti, una somma ingente per
quell’epoca. Il 21 ottobre Barney fu costretto
a dimettersi, ma era già troppo tardi per arrestare
la spirale isterica. La gente sapeva che il
credito è un sistema di vasi comunicanti, nell’intreccio
di rapporti fra le banche il crac di
un finanziere può trascinare altri nel precipizio.
Si formarono code di risparmiatori su
tutti i marciapiedi di Wall Street, ogni istituto
di credito venne assediato dai depositanti che
volevano ritirare i propri soldi. Anche la Borsa
era in collasso. Il 23 ottobre il Wall StreetJournal scriveva: «Dal punto di vista del mercato
azionario l’aspetto di gran lunga più pericoloso è l’allarme del pubblico».
Da New York il panico dilagò in tutti gli Stati
Uniti. In pochi giorni i ritiri di contante
dalle banche raggiunsero i 350 milioni di dollari
di allora.
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Un operaio si riposa in una fabbrica di botti, alla periferia di una città dell’Oklahoma. La foto risale all’estate del 1930. - Archivio BPP |
I costi delle cassette di sicurezza
schizzarono alle stelle perché la gente le usava
per mettere al sicuro le banconote. In alcuni
Stati il denaro liquido sparì del tutto: i Governatori
della California, dell’Oregon e del
Nevada imposero d’autorità una settimana di
vacanza perché le banche potessero star chiuse...
in attesa di un qualche miracolo! Altri
Stati, (South Dakota, Indiana, Oklahoma,
Iowa), vararono leggi locali che consentivano
a ciascun cliente di ritirare dalle banche solo dieci dollari al giorno. A metà novembre, lo
stesso ministero del Tesoro americano aveva
virtualmente esaurito le riserve in dollari, nel
vano tentativo di combattere la crisi.
L’America si ammalò di quella che gli economisti
definiscono con un termine evocativo “l’anoressia del credito”: per la diffidenza generalizzata,
nessuno fece più prestiti, e nessuno
li chiese, e il mercato interbancario si prosciugò.
Il “perfect storm”, la madre di tutti
gli uragani, si estese all’economia reale (che
già aveva subìto forti danni l’anno precedente:
il terremoto di San Francisco del 1906
aveva raso al suolo una delle città più dinamiche
del Paese, e il costo della ricostruzione
era pesante).
Il panico finanziario ebbe ripercussioni immediate
sulla produzione industriale, che arretrò
dell’11 per cento. I fallimenti di imprese
nel solo mese di novembre aumentarono del
46 per cento. Si moltiplicarono i licenziamenti
di massa e l’indice di disoccupazione balzò
dal 2,8 all’8 per cento. Il quotidiano FinancialChronicle scrisse: «Non è esagerato affermare
che la paralisi industriale e la prostrazione
dell’attività sono le peggiori mai sperimentate
da quando esiste questa Nazione». Decenni
dopo, il Premio Nobel per l’Economia Milton
Friedman analizzerà il 1907 come una
prova generale del 1929, il crac che innescò la
Grande Depressione mondiale.
In mezzo al caos e allo smarrimento di centodue
anni fa, una persona mantenne i nervi
saldi. Era l’uomo a cui tutti si rivolsero in
cerca di una risposta. J.P. Morgan, fondatore
e capo assoluto dell’omonima banca, era un
gigante della finanza internazionale capace di
combinare “sulla parola” alleanze industriali
e contratti intercontinentali.
I suoi ammiratori lo chiamavano Jupiter,
cioè Giove, il primo tra gli dèi dell’Olimpo.
Altri preferivano chiamarlo “The Shark”, lo
Squalo. Il giudizio morale in quel momento
non contava. Superpotenza giovane, gli Stati
Uniti nel 1907 ancora non avevano istituito
una Banca centrale. Gli strumenti di regolazione
dei mercati finanziari erano rudimentali.
Il Governo federale aveva scarse competenze
sull’economia, era impotente per arginare
il panico.
Il 24 ottobre, mentre Wall Street era ferma
per assoluta mancanza di contrattazioni e
l’onda di paura attraversava gli oceani, coinvolgendo
l’Europa e l’Asia, tutti i broker della Borsa newyorkese affluivano in pellegrinaggio al quartier generale della J.P. Morgan,
per chiedere consiglio al grande banchiere.«Mr. Morgan – gli sussurrò il decano dei
broker – dovremo chiudere lo Stock Exchange». Intendeva dire: a tempo indeterminato.
Morgan rispose, secco: «Lo chiuderemo come
tutti i giorni all’orario canonico. Le tre
del pomeriggio, non un secondo prima». E si
mise a riempire assegni, lui di persona, per
ciascuno dei broker. Perché avessero liquidità
sufficiente e il denaro tornasse a scorrere nello
Stock Exchange.
A quel punto si fece vivo il magnate John
Rockefeller con un messaggio lapidario: –
Se è Morgan a guidare le operazioni di salvataggio
del sistema, Rockefeller gli farà
avere 50 milioni di dollari dal suo patrimonio
personale in poche ore –. Morgan telegrafò
istruzioni anche ai partner della City
di Londra, spiegando che era in pericolo la
finanza mondiale. Ai suoi ordini salpò dall’Inghilterra
il bastimento Lusitania con un
carico unico nella storia: il più grande
quantitativo di lingotti d’oro mai trasportato
attraverso l’Atlantico. La psicosi di massa
dileguò. L’America era salva.
Ma l’uragano perfetto del 1907 lasciò dietro
di sé un panorama di macerie. La credibilità
di Wall Street, la stabilità del giovane capitalismo
americano, erano a pezzi. A trarre la lezione
del disastro fu Ted Roosevelt: uomo di
stirpe aristocratica, venne eletto però sull’onda
di un forte movimento progressista. Prima
ancora del crac del 1907, la società civile ribolliva
di insofferenze verso un capitalismo
senza regole, quale era, ad esempio, quello
dei Baroni Ladri, o dei trust delle ferrovie e
del petrolio. Roosevelt afferrò l’opportunità
offerta dallo shock economico. Ne fece le
spese lo stesso Morgan: dopotutto, il salvatore
della patria era anche il regista supremo
delle intese oligopolistiche, il campione dei
conflitti d’interesse. Il banchiere venne convocato
dalle Commissioni di indagine del
Congresso, e sottoposto a interrogatori lunghi
e aggressivi. Morirà a Roma il 31 marzo
1913, all’età di settantacinque anni, avvilito e
fiaccato dalla battaglia politica.
La diagnosi di Roosevelt e del Congresso era
chiara: bisognava far pulizia di un sistema finanziario
opaco e senza regole, dove i potentati
bancari potevano portare alla rovina milioni
di risparmiatori.
Nello stesso anno della
morte di Morgan, il 22 dicembre 1913 il Congresso
istituì la Federal Reserve, Banca centrale
degli Stati Uniti. Un quarto di secolo
dopo, quando allo shock del 1907 si sarà aggiunto
quello del 1929, il Congresso approvò
la legge Glass-Steagall, nel 1933. Era una pietra
miliare nella storia della finanza mondiale.
Quella legge creava una Grande Muraglia
fra il mestiere della banca commerciale (che
raccoglie depositi e fa prestiti) e quello della banca d’affari (che acquista partecipazioni
azionarie nell’industria, e opera in Borsa assumendo
rischi in proprio). Quella divisione
fu voluta per tutelare il risparmiatore, e per
impedire i conflitti di interesse in cui la banca
non è soltanto un intermediario del credito,
ma è anche impegnata attivamente nella speculazione,
e coinvolge ignari depositanti in
investimenti ad alto rischio.
Il ricordo del 1907 e del 1929 non è durato in
eterno. Nel 1999, sotto l’influsso del neo-liberismo,
la legge Glass-Steagall è stata abrogata,
la Grande Muraglia è caduta, i banchieri
sono tornati a fare cento mestieri talvolta
contraddittori. Sui mercati l’innovazione tecnologica
ha generato strumenti finanziari
sempre più complessi, come i derivati. È emersa anche una “disintermediazione”: il
credito si reperisce in tante forme, emettendo
titoli e vendendoli direttamente in Borsa, senza
bussare alla porta dei banchieri. Son cresciuti
nuovi attori potenti. Gli hedge funds o
le società di private equità muovono capitali
talvolta superiori alle banche.
La crisi recente dei mutui insolventi ha messo
sotto i riflettori la Federal Reserve. C’è chi la
accusa di lassismo. E c’è chi teme che i suoi
poteri siano ormai inadeguati per controllare
i nuovi Baroni Ladri. In Inghilterra il crac
della banca Northern Rock ha replicato le
scene del 1907: le code dei risparmiatori agli
sportelli. Richard Lambert, ex direttore del Financial Times e ora direttore generale della
Confindustria del Regno Unito, osservando
le scene di panico davanti alle agenzie bancarie
nel centro di Londra, ha commentato: «È
il tipo di spettacolo che ai nostri giorni credevi
potesse accadere solo in una repubblica
delle banane».
Era l’Inghilterra di qualche
mese fa!
Da “Il grande crollo”
Poi venne il ‘29 (John Kenneth Galbraith)
Nell’autunno del 1929 la Borsa di New York, quasi con
la sua attuale struttura, compiva 112 anni. Nel corso
della sua vita aveva visto giorni difficili. Il 18 settembre
1873 la ditta Jay Cooke & C. era fallita e, come conseguenza
più o meno diretta, nelle settimane successive
erano fallite altre 57 commissionarie. Il 23 ottobre 1907
il tasso per prorogare i crediti concessi aveva raggiunto
il 125 per cento nell’ondata di panico di quell’anno.
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Nell’agosto del 1931, i clienti infuriati presidiano la sede della United States National Bank di Los Angeles. - Archivio BPP |
Il
16 settembre 1920 (i mesi autunnali sono la stagione
morta di Wall Street), una bomba esplose di fronte alla
porta attigua a quella della Morgan, uccidendo trenta
persone e ferendone un centinaio.
Una caratteristica comune a tutti questi guai era costituita
dal fatto che, essendosi già verificati, appartenevano
al passato. Il momento peggiore era ragionevolmente
riconoscibile come tale. La caratteristica peculiare
del grande disastro del ’29 era che il peggio continuava
a peggiorare…
Il lunedì, 28 ottobre, fu il primo giorno in cui incominciò
a rivelarsi questo processo alterno di massima tensione
e di crollo all’infinito. Fu un’altra terribile giornata. La
quantità scambiata fu enorme, sebbene inferiore al giovedì
precedente: nove milioni e un quarto, contro quasi
tredici. Ma le perdite furono di gran lunga più gravi.
Gli industriali dell’indice New York Times scesero di 49
punti nella giornata. La General Electric perse 48 punti,
la Westinghouse 34, la Tel & Tel 34. La Steel scese di
18 punti. In effetti, il declino verificatosi in questo solo
giorno fu superiore a quello di tutta la precedente settimana
di panico…
Il martedì, 29 ottobre, fu la giornata più rovinosa della
storia del mercato azionario newyorkese, anzi forse la
più rovinosa giornata della storia delle Borse… Le vendite
si iniziarono appena aperto il mercato, su scala
enorme, e nella prima mezz’ora mantennero un ritmo da
33 milioni al giorno. Le falle, che i banchieri volevano
tappare, si allargarono. Ripetutamente e in molti comparti
si accumulò una pletora di ordini di vendita, ma
non si presentò alcun compratore…
Gli industriali dell’indice New York Times avevano perso
43 punti, cancellando così ogni progresso conseguito
nei dodici meravigliosi mesi precedenti... Ma il peggio
in quella terribile giornata era capitato agli investment
trust. Non soltanto avevano subìto una falcidia,
ma era diventato evidente che potevano ridursi praticamente
a zero. La Goldman Sachs Trading Corporation
aveva chiuso a 60 la sera prima. Durante la giornata
era scesa a 35 e aveva chiuso a quel livello, a poco più
di metà del livello precedente. La Blue Ridge, sua discendente
diretta, su cui ora agiva in senso inverso il
magico principio della leva, aveva avuto una sorte molto
peggiore. Ai primi di settembre era stata venduta a
24. Il mattino del 29 ottobre essa aveva aperto a 10 ed
era immediatamente precipitata a 3. Si era ripresa più
tardi; ma altri investment trust si erano trovati in condizioni
peggiori, addirittura non si era riusciti a vendere
le loro azioni.
La peggiore giornata di Wall Street alla fine si concluse.
Anche questa volta le luci rimasero accese tutta la
notte. I membri della Borsa, i loro impiegati e dipendenti
stavano giungendo al limite delle proprie forze per la
tensione e la fatica. In tali condizioni si trovarono di
fronte alla necessità di registrare e sistemare la maggior
quantità di transazioni che si fosse mai presentata.
Tutto ciò, senza nessuna certezza che le cose sarebbero
andate meglio. In un ufficio un impiegato svenne per la
spossatezza, fu rianimato e messo di nuovo al lavoro.
Nella prima settimana erano stati sacrificati gli innocenti.
Durante questa seconda settimana, stando alle
prove, furono i benestanti e i ricchi a subire un’azione
di livellamento paragonabile per vastità e subitaneità a
quella diretta oltre un decennio prima da Lenin. |
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