I Paesi avanzati
devono affrontare
il rovescio
economico più
serio dai tempi
della Grande
Depressione.
Ma quanto lunga
e profonda sarà
questa recessione? |
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Parecchi studiosi hanno osservato che Banca
d’Italia e Ministero dell’Economia sembrano
avere visioni diverse sulla crisi mondiale
e sulle sue implicazioni per la politica
economica. La diversità di opinione, apparente
o reale che sia, riflette un dilemma genuino.
La crisi ha due caratteristiche, l’una
e l’altra rilevanti per l’Italia. A seconda di
quale si vuole enfatizzare, quelle implicazioni
possono prospettarsi in modo diverso.
Il primo aspetto è l’eccezionale gravità della
crisi economica in corso. Nessuno può dire
con certezza quanto durerà la recessione, né
quanto sarà profonda. Tuttavia, è utile un
confronto con altre grandi crisi. In uno studio
recente sui Paesi industriali ed emergenti
(quasi tutti nel secondo dopoguerra),
Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart dimostrano
che in media le grandi crisi finanziarie
sono seguite da un periodo di crescita
negativa di circa due anni. Cioè, forse potremmo
essere già a metà del guado. Tuttavia,
in media la perdita cumulata di reddito
durante l’intera recessione arriva a uno spaventoso
-9 per cento. Da questo punto di vista,
il -2 per cento previsto dalla Banca d’Italia
per il 2009 pare una benedizione.
Nel nostro Paese le imprese e le famiglie
non sono molto indebitate. Ciò è motivo di
conforto. Ma, al contrario di molti episodi
passati, questa recessione coinvolge il mondo
intero. Secondo la Banca mondiale, nel
2009 il commercio internazionale scenderà
del 2,1 per cento, dopo essere cresciuto in
media dell’8-9 per cento nei cinque anni
precedenti. Intorno alla fine dello scorso
anno le esportazioni sono crollate quasi
dappertutto, anche in Cina, in Taiwan, in
Germania. È vano illudersi che il settore
manifatturiero italiano non sia condizionato
da questo crollo degli scambi planetari.
Inoltre, il nostro settore produttivo sconta
un lento ma grave accumulo di perdita di
competitività, dovuto alla bassa crescita
della produttività, alle carenze infrastrutturali
del Paese, al colpevole abbandono del
Sud alla deriva mediterranea.
Il secondo aspetto della crisi è quello finanziario.
Come si è verificato più volte nel
passato, non si può escludere che l’aumento
dell’avversione al rischio sfoci nella crisi debitoria
di uno Stato sovrano, soprattutto
tra i Paesi emergenti più indebitati. Quali
altri Stati possano essere contagiati da un
tale evento è ancora più imprevedibile. E
l’Italia, con il suo gigantesco debito pubblico,
(oltre 200 miliardi di emissioni previste
nel 2009), non è del tutto al riparo da questi
rischi.
In apparenza, queste due caratteristiche
della crisi spingono verso differenti impostazioni
di politica economica.
La gravità
della recessione mondiale suggerirebbe di
sostenere l’economia anche con la politica
fiscale. Ma la fragilità finanziaria e il debito
pubblico spingono nella direzione opposta,cioè verso un maggior rigore nei conti pubblici. L’apparente dualismo tra Bankitalia e
dicastero dell’Economia riflette questa antinomia
che tuttavia, a ben vedere, è più apparente
che reale. Come osserva lo stesso
Bollettino dell’Istituto di Emissione, il miglior
contributo alla sostenibilità dei conti
pubblici è riavviare in modo duraturo la
crescita economica.
Finora, il governo ha lasciato lavorare gli
stabilizzatori automatici: tolleriamo un aumento
del disavanzo e lo sforamento dei
parametri di Maastricht nella misura in cui
ciò riflette il rallentamento dell’economia.
Ma, praticamente al contrario di tutti gli altri
Paesi europei, evitiamo provvedimenti
che sostengano l’economia attraverso l’emissione
di nuovo debito pubblico. Questa
impostazione è stata apprezzata anche in
recenti valutazioni delle agenzie di rating: al
contrario di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda,
ma anche Inghilterra, l’outlook per il
debito pubblico italiano per ora rimane più
o meno stabile.
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Nello Wrona |
Tuttavia, una lettura attenta dei vari commenti
rivela che questa diversa valutazione
riflette anche, e forse soprattutto, il differente
grado di indebitamento di tutta l’economia,
più che l’andamento dei conti pubblici.
Mentre tutti gli altri Paesi dell’Europa
del Sud (e il Regno Unito, a nord) hanno
un disavanzo con l’estero pari al 10 per cento,
e magari oltre, del reddito nazionale, l’Italia è ferma intorno al 2 per cento. Cioè,
più che di un contenimento del disavanzo
pubblico, le economie del Sud Europa
avrebbero bisogno di politiche strutturali
più incisive e di un forte recupero di produttività.
A questo riguardo, anche l’Italia potrebbe
fare di più. Non soltanto per sostenere i consumi, ma anche per alleggerire i costi delle imprese, per proteggere i redditi dei disoccupati,
per aiutare le piccole e medie imprese
a sostenere l’impatto della stretta creditizia,
e per favorire la crescita della produttività
con riforme verso un’economia
più concorrenziale e più flessibile.
Come più volte – inutilmente – suggerito,
tutti sanno come compensare eventuali
maggiori disavanzi: comprimendo l’evoluzione
futura della spesa pensionistica. Uno
scambio intertemporale (più sostegno all’economia
e agli inoccupati, oggi; più rigore
nella spesa pensionistica domani) sarebbe
equo dal punto di vista intergenerazionale
ed efficiente dal punto di vista economico.
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Berlino: Un mimo davanti alla sagoma della Gedächtniskirche, la chiesa simbolo della volontà di Berlino di ricostruire la città nel dopoguerra. - Dario Carrozzini |
I più lungimiranti uomini della maggioranza
e dell’opposizione governativa lo propongono.
Sarebbe un errore tenere un atteggiamento
rinunciatario e fatalista di fronte a
una crisi che sarà ricordata come la più violenta
del dopoguerra.
Ha scritto Dani Rodrik, docente di Economia
politica internazionale ad Harvard: l’economia
mondiale è entrata nel 2009 con
una quantità di ansie e incertezze che non
ha precedenti nella storia recente. E ha aggiunto:
anche se la crisi finanziaria è sembrata
circoscritta agli Stati Uniti e all’Europa,
per parecchio tempo perdureranno le
incertezze sulla portata che avranno le sue
ripercussioni. I Paesi avanzati devono affrontare
il rovescio economico più serio dai
tempi della Grande Depressione. Ma quanto
lunga e profonda sarà questa recessione,
e in che misura colpirà le Nazioni emergenti
e i Paesi in via di sviluppo?
Rodrik afferma che non abbiamo risposte
sicure a queste domande, anche perché le
conseguenze dipenderanno dall’azione dei
leader politici. Se le azioni saranno quelle
giuste, l’economia mondiale potrà iniziare a
ripartire dalla fine di quest’anno. E indica
la lista delle cose alle quali stare attenti.
La risposta americana sarà sufficientemente
e costantemente “coraggiosa”? Barack
Obama ha promesso di sì, rievocando in
parte il celebre appello di Roosevelt a «sperimentare
sempre e con coraggio», lanciato
nel momento più nero della Grande Depressione,
nel 1932. Il nuovo Presidente
americano si è circondato di un gruppo di
economisti di alto livello. Occorre vedere se
costoro saranno disposti a provare idee
nuove, non ancora collaudate: in altre parole,
a sperimentare alla Roosevelt. In particolare,
sarà necessario andare oltre le politiche
di stimolo keynesiane, sanando le
profonde ferite che sono state inferte alla fiducia
nell’economia, che è alla base della
crisi attuale.
L’Europa riuscirà ad agire in modo realmente
coordinato? Questo avrebbe potuto
essere il momento del Vecchio Continente.
Dopotutto, la crisi è nata negli Stati Uniti e
ha costretto la politica americana a concentrare
l’attenzione sui suoi problemi interni,
lasciando spazio ad altri Paesi per esercitare
una leadership globale. Invece, la crisi ha
messo in evidenza le divisioni profonde interne
all’Europa, su qualunque cosa, dalla
regolamentazione finanziaria alle misure
d’intervento decisive. La Germania ha storto
la bocca sulle iniziative per il rilancio dell’economia.
Se l’Europa vuol pesare sulla
scena internazionale, dovrà agire con maggiore
unità d’intenti e addossarsi una maggiore
responsabilità.
La Cina riuscirà a reggere l’urto dell’onda
lunga? Il rischio maggiore sul piano economico
è una risposta fiacca da parte americana,
ma quello che succede in Cina potrebbe
avere conseguenze più profonde e
durature nel quadro storico generale. Perché
la Cina è una terra di colossali tensioni
e fratture nascoste, e se la situazione economica
si facesse troppo difficile, queste
potrebbero esplodere in conflitti aperti.
I sinologi occidentali dissentono sul tasso
di crescita economica necessario per creare
posti di lavoro per i milioni di cinesi che
ogni anno affluiscono nelle città del Celeste
Impero. Ma è praticamente certo che la
Cina rimarrà al di sotto di questa soglia
nel 2009. Questo spiega il flusso quasi incessante
di misure messe in campo da Pechino.
Ma tutto questo sarà sufficiente a
scongiurare il rallentamento di un’economia
che negli ultimi anni è stata appesa alla
domanda estera?
Se le tensioni sociali dovessero crescere, il
governo cinese risponderà probabilmente
con una maggiore repressione, danneggiando
sia i suoi rapporti con l’Occidente sia la
sua stabilità politica sul medio termine. L’esperienza
dimostra che le democrazie hanno
un vantaggio sui regimi autoritari quando si
tratta di gestire le ricadute delle crisi. Le democratiche
India (nel 1991) e Corea del Sud
(nel 1997-1998) riuscirono a rimettere rapidamente
in carreggiata la loro economia,
mentre il Cile di Pinochet (nel 1983) e l’Indonesia
di Suharto (nel 1997-1998) rimasero
impantanati nella recessione.
Ci sarà abbastanza cooperazione economica
globale? Quando le esigenze interne diventano
prioritarie, la cooperazione economica
planetaria segna il passo. Il Fondo monetario
internazionale ha reagito a singhiozzo,
poi ha creato una struttura per l’erogazione
di prestiti a breve termine, che comunque
dovranno essere aumentati col crescere della
pressione da parte dei Paesi emergenti, mentre
l’Organizzazione mondiale del commercio
ha sprecato tempo prezioso con l’irrilevante
tornata negoziale di Doha, deconcentrando
le sue energie necessarie a controllare
e applicare gli impegni del G20 a non introdurre
barriere commerciali.
In ultima analisi: i politici devono diffidare
delle vecchie formule e dimenticarsi dicotomie
insignificanti come “Stato contro mercato”
oppure “Stato-Nazione contro globalizzazione”.
Devono affrontare la realtà: le
regolamentazioni nazionali e i mercati internazionali
sono strettamente legati tra loro
(e hanno bisogno gli uni degli altri). Più
pragmatismo e creatività metteranno in
campo nella loro azione, più rapidamente
potrà risollevarsi l’economia mondiale.
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