Da noi le banche
non falliscono,
ma vengono
salvate, di solito
da altre banche,
con una formula
che prevede anche
l'impiego dei soldi
del contribuente.
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Lo Stato banchiere è tramontato nel nostro
Paese nei quindici anni che vanno dal 1990
al 2005: la quota di capitale delle banche
detenuta da soggetti pubblici è scesa in quel
periodo dal 75 all’1 per cento. Una ritirata
in piena regola, più radicale di quella avviata
nell’industria e negli altri servizi.
Nello stesso arco di tempo, il numero delle
banche si è ridotto, la loro dimensione media è aumentata, è migliorata la redditività,
è cresciuta la patrimonializzazione.
Sembrava che l’unico problema delle banche,
dopo la privatizzazione, fosse il record
dei profitti o l’acquisizione successiva.
Poi però è sopraggiunta la crisi. La sfiducia
contagiosa, partita dagli Stati Uniti,
ha raggiunto l’Europa e anche l’Italia. Dove
il ministro dell’Economia, il Governatore
della Banca d’Italia, i banchieri e gli
analisti hanno sempre sostenuto che, grazie
alla scarsa dimestichezza con (o alla
scarsa fiducia verso) le più sofisticate tecniche
d’innovazione finanziaria, il sistema
si è tenuto al riparo dal rischio dei prodotti
cosiddetti “collateralizzati”.
In molti Paesi sono stati utilizzati i soldi dei
contribuenti per evitare il trauma dei fallimenti
e per non alimentare il panico sui
mercati finanziari. In Italia finora la questione
non si è posta, ma non sarebbe da
stupirsi se, all’occorrenza, lo Stato intervenisse.
Lo insegna la storia. La presenza dello
Stato in economia è una costante della
storia italiana, in un capitalismo che qualcuno
ha definito tout court “politico”. E infatti
da noi le banche non falliscono, ma
vengono salvate, generalmente da altre banche,
con una formula che prevede anche
l’impiego dei soldi del contribuente. Indipendentemente
dal “clima” politico e culturale
prevalente.
La legge Sindona, che dal 1974 consente alla
Banca d’Italia di effettuare anticipazioni
all’1 per cento ai “cavalieri bianchi”, è stata
utilizzata per soccorrere il Banco Ambrosiano,
il Banco di Napoli, la Sicilcassa. Tutti
istituti che sono poi confluiti in gruppi
bancari di grandi dimensioni, a volte conservando
il proprio marchio.
Ancora prima, nel secolo scorso, gli interventi
pubblici di salvataggio delle banche
avevano assunto carattere “sistemico”. Tra
il 1921 e il 1922 un consorzio formato dalla
Banca Commerciale e dal Credito Italiano,
insieme a Bankitalia, interviene in soccorso
della Banca di Sconto e del Banco di Roma,
acquisendone le partecipazioni industriali.
Il consorzio fu successivamente liquidato,
ma le sue attività furono trasferite al Consorzio
Sovvenzioni Valori Industriali, la cui
missione dal 1922 fu di aiutare le banche a
smobilizzare il proprio patrimonio.
Nel 1933 il Governo fascista creò l’Iri, affidando
la presidenza ad Alberto Beneduce e
la direzione generale a Donato Menichella,
con l’intento di salvare le banche in difficoltà
per le conseguenze della Grande Depressione, arrivata da noi nel 1930: produzione
industriale -30 per cento; produzione
agricola -50 per cento; valore dei titoli industriali
-40 per cento. L’obiettivo era lo stesso:
rilevare le partecipazioni industriali e
consentire alle banche di sopravvivere. La
sua doveva essere una missione temporanea,
ma nel 1937, quando il Governo decise
di avviare la sua politica espansiva fatta di
autarchia e di rafforzamento militare, l’Iri
fu trasformato in ente pubblico permanente.
Diventò di fatto un’holding pubblica che
controllava imprese attive in vari settori (siderurgia,
meccanica, telecomunicazioni,
cantieristica, energia) e le tre “banche di interesse
nazionale”: Comit, Credit e Banco
di Roma. Che persero la loro identità di
banca mista o universale, e divennero banche
commerciali.
L’Iri sopravvisse al vaglio degli Alleati. Menichella
scrisse al capitano Andrew Kamarck
un rapporto intitolato “Le origini
dell’Iri e la sua azione nei confronti della situazione
bancaria”, che si apre con questa
considerazione: «L’Italia è stata definita come
il Paese dei salvataggi bancari. Paese relativamente
povero di capitali e di scarse
tradizioni finanziarie; la caduta di una banca
o la minaccia della caduta di una banca
non sono mai state considerate come eventi
normali della vita economica nella quale,
come in quella degli individui, alla prosperità
può succedere l’indigenza, alla salute la
malattia e la morte, sebbene come eventi di
carattere straordinario, capaci di commuovere
larghe sfere dell’opinione pubblica,
provocare dibattiti appassionati sulla stampa,
cadute di Ministeri».
La nascita dell’Iri – continua il futuro Governatore
di Bankitalia – non è frutto di un
disegno industriale: «L’Iri trae origine dagli
interventi bancari effettuati dal 1922 al
1932. Se lo Stato italiano (attraverso l’Iri) siè trovato a possedere le azioni delle tre
maggiori banche del Paese e molte grosse
partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto
in base ad un proposito dello Stato stesso
di voler assumere la gestione di importanti
complessi finanziari e industriali. È accaduto
invece che avendo lo Stato proceduto al
salvataggio di molte banche, esso si è trovato
ad essere il proprietario delle azioni degli
istituti stessi e delle azioni industriali da ciascuna
banca possedute».
Fu così che l’Iri divenne, quasi involontariamente,
il perno di quell’economia mista
che caratterizzò l’Italia repubblicana dal
dopoguerra alla fine del secolo XX. Venne
liquidato soltanto nel 2000, dopo la privatizzazione
delle società che controllava.
Tra cui le tre banche di interesse nazionale
che tuttora, dopo complessi processi di aggregazione
e con altri nomi, sono al vertice
del sistema bancario nazionale. Come
nel 1920.

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