Una tomba
ha moltissimi
fiori, più di
qualsiasi altra.
È su in cima alla balza del Grappa, sul lato nord del sacrario
austriaco. Il nome che vi è inciso fa venire
il groppo in gola: Peter Pan.
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Il Piave in grigioverde era lì, dopo un interminabile filare
di pioppi. Fu questo il teatro della più terrificante battaglia
combattuta sulle opposte rive del fiume, vinta dallItalia
dopo unoffensiva austro-tedesca scatenata dalla pianura fino
alle falde del Grappa, tutta in provincia di Treviso. Linferno
cominciò la notte tra il 14 e il 15 giugno con uno sfondamento
sul corso dacqua, e in poco tempo tutto finì, con decine
di migliaia di morti e con la rinuncia del nemico esausto ad ogni
altro progetto di avanzata su Venezia e verso la Valle del Po. Gli
ultimi lembi dello Stivale erano redenti, grazie al
sacrificio di 600 mila vite umane.
Dallalto, la battaglia del Montello può immaginarsi
ancora oggi come su una carta militare aperta sul tavolo di un quartier
generale. Cera tutto: la 31ma divisione degli ungheresi che
guadava il Piave dalle parti di Falzè, dove il fiume è
più stretto; la 13ma divisione degli Schützen, che gettava
un ponte di barche allaltezza di Villa Jacur; la 17ma divisione
Honved che attaccava a Nervesa, poco a monte del ponte della Priula,
il punto più avanzato, dove gli austriaci videro Venezia
ed esultarono.
Da queste parti precipitò lo Spad 13 monoposto di Francesco
Baracca, come ricorda un sacello di bianche colonne circondato dagli
alberi di un bosco. Fatale 1918, anno in cui crollò un mondo,
sotto lurto della modernità: nel giro di pochi mesi
arrivarono la corrente elettrica, la radio, i motori, i cannoni,
la carne in scatola, le macerie, le evacuazioni. E la fame. E la
morte di massa.

Arrivarono, soprattutto, gli aeroplani, che riempivano il cielo.
Ben milleduecento, tra la Laguna e le Prealpi. I piloti erano i
più esposti fra tutti i soldati al fronte, la loro vita media
in prima linea era di nove giorni: un suicidio. Ad abbatterli bastava
una fucilata, i motori prendevano fuoco una volta su tre, la visibilità
era nulla, laddestramento veloce e approssimato, la velocità
non superava i 160 chilometri orari. Mai unindustria, più
di quella aeronautica dellepoca, ebbe tanti disperati collaudatori.
Il Piave non mormorava. Ruggiva, gonfio e incattivito, schiumoso,
tagliato a sghembo da isole piatte a forma di pesce. Una venne chiamata
Isola dei Morti per lecatombe di cui fu testimone.
Tante cose cambiarono nome, in quei giorni. Anche il fiume. Da secoli
era stato chiamato la Piave, come a indicare una dea
fertile. Poi lo arruolarono, gli cambiarono sesso e ne fecero il
Piave. Sorte analoga ebbero la Brenta sotto il
Ponte di Bassano, e la montagna detta Grappa, che non
potevano essere femmine lungo quel fronte gremito di maschi.
A Nervesa, in un museo a cielo aperto allombra delle Dolomiti
innevate, cè una squadriglia di aerei depoca,
incluso quello dei fratelli Wright e il rosso triplano Fokker
B1 dellasso austriaco della Grande Guerra, il Barone
Rosso. Non è materiale inerte, è roba che ancora oggi
vola. Dallalto, il Montello è una sorta di zatterone
di fortuna inclinato verso la pianura. Qui sono i punti nevralgici,
i luoghi-chiave di quella Guerra. Nervesa ne è il baricentro:
sulla sommità di un colle il candido sacrario, poi nubi,
venti capricciosi, infine lo scheletro dellabbazia di SantEustachio,
maceria monumentale sopravvissuta alle bombe di giugno, dove monsignor
Giovanni Della Casa scrisse Il Galateo.
Fa freddo, a man a mano che si sale sul Grappa, dove si era aperto
un altro fronte del Solstizio: Monte Fenera, la Valle dei Solaroi,
serene praterie a quota media e alta impregnate di ferro e di balistite.
Il Ponte San Lorenzo, sullaltro versante, quattro case e un
piccolo hotel, segna il punto massimo dellavanzata austriaca
e quello dinizio della vittoriosa controffensiva italiana
raccontata, proprio in questo luogo, da Ernest Hemingway in Addio
alle armi.
Osservata da oriente, la cima calva del Grappa si presenta come
la chiglia di una nave rovesciata in un fondale oceanico. La prua
guarda la pianura. Uno spazio magico, abitato da chissà quali
dèi, colpito per primo dal sole che nasce e per ultimo dal
sole che muore. Anche qui, sacrari: uno italiano e uno austro-ungarico.
Dinverno si coprono di gelo e il vento fa vibrare le stalattiti
di ghiaccio come canne dorgano. Per rientrare, è necessario
passare accanto al sentiero delle Meatte, scavato per i fanti in
uno scenario dantesco di picchi e strapiombi, con un orizzonte immenso
sulla pianura. Ottanta teleferiche scalavano il Grappa per rifornire
la prima linea. Tutte sistemate a mano, con uno sforzo logistico
inenarrabile.

Il racconto è stupendo. Ed è vero. Comè
vero che attorno ai sacrari di guerra si costruisce più facilmente
la pace. Allora: in uno di quei sacrari, una tomba ha moltissimi
fiori, più di qualsiasi altro loculo. È su in cima
alla balza del Grappa, sul lato nord del sacrario austriaco. Il
nome che vi è inciso fa venire il groppo in gola. È
scritto: Peter Pan. Lassù, sul suo galeone rovesciato,
nellIsola-che-non-cè, quel ragazzo venuto da
chissà dove accende la commozione di tutti, come se il tempo
non esistesse. Sul monumento garrisce la bandiera austriaca, ma
i morti dellImpero furono anche sloveni, croati, polacchi,
bosniaci, ungheresi, persino italiani rimasti fedeli a Vienna e
a Francesco Giuseppe. Appartiene a tutti, questo Angelo alato, con
i suoi sogni tramontati tra i bagliori di un solstizio silente,
con gli occhi perduti dentro tutti gli orizzonti.
Galleria Vittorio Emanuele III, cinque chilometri scavati a mano
per i passaggi dalla prima linea alle retrovie, camminamenti da
talpe, larghi cunicoli con i cannoni incavernati che ad ogni colpo
lasciavano echi da oltretomba, con rinculi da paura. Dicono quelli
di Treviso, la provincia più leghista dItalia: «La
memoria storica passa da padre in figlio, come una corrente carsica,
attraverso i luoghi-simbolo di unidentità».
Da un fojaròl, una casetta a tetto di foglie di faggio che
tiene la pioggia a meraviglia, sotto il Sasso delle Capre, oltre
le linee austriache, gran vista sul versante di Feltre. Ma da questi
monti si vedono anche lIstria e lAppennino. Se lacqua
vien giù abbondante, il terreno si fa molle, e ad affondare
le mani si possono tirar fuori scaglie marroni a forma di losanga.
Balistite, a chili, a tonnellate, ovunque. Funziona ancora. Venivano
a prenderla da qui, negli anni Sessanta, quelli che lAlto
Adige lo volevano a tutti i costi chiamare soltanto Tirolo del Sud.
Non solo balistite. Emergono ancora ghisa, ferro, bronzo, acciaio;
reticolati, divise, elmetti, baionette, sciabole, gavette. E anche
barche. Una guerra di pochi anni può produrre rottami reperibili
per molti decenni. Roba utile per i ricicli.
Ma dà luogo a centinaia di migliaia, a milioni di vite spezzate,
di gioventù stroncate: croci e croci sulle balze e sulle
pianure dei fronti visitate ancora oggi da uomini di tutte le nazioni
non più nemiche, e obelischi e bronzi sulle piazze di tutte
le città, testimoni silenziosi (e forse per questo più
eloquenti) dei lutti cagionati dalla lunga guerra civile europea.
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