Larte di tacere...
Solo a pensare
a quante parole
girano per
il pianeta in un
singolo momento viene davvero
langoscia, sorge unimprovvisa
nostalgia del
silenzio.
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Arrivato buon ultimo, Eugenio Scalfari sentenziò in un editoriale
domenicale: Bassolino e la Jervolino devono dimettersi! E a noi,
che di politica qui non ci interessiamo, ma che abbiamo buona memoria
dei dati di cronaca, emerse un atroce sospetto: ma non era stata
proprio Repubblica il principale cantore del cosiddetto
Rinascimento napoletano, sbocciato proprio quando i
due personaggi sopra citati erano stati eletti presidente della
Regione, il primo, e sindaco di Napoli laltra? Un Rinascimento
che, ha poi raccontato Ermanno Rea, sul Corriere della Sera,
«è stato un grande equivoco, fu un momento di euforia,
poi deformato da quella parola insulsa: rinascimento. I politici
ci hanno marciato. Anche Bassolino».
Già. Ma ci hanno marciato anche gli intellettuali. Lui stesso,
per dire, come racconta Fabrizio dellOrefice, ebbe nel 99
un contributo dal Comune per narrare la favola della bonifica di
Bagnoli, mai completata, e oggi simbolo della nullafacenza partenopea.
Tutto qui? No. «Ora torno in fabbrica, torno alla classe operaia
che va in paradiso», annunciava alla fine della torrida estate
di quellanno. Scrisse, invece, un libro, La dimissione,
pluripremiato. E quattro anni dopo, quando già si aprivano
le prime crepe sulla Napoli rinata, era tra i fondatori
di Diametro, unassociazione di fedelissimi di
Bassolino, nata per sostenerne limmagine ormai in via di sbiadimento.

Lopportunista Rea era in buona compagnia. Mario Martone,
nel 97, aveva dedicato al presidente campano addirittura un
episodio, La salita, del film Vesuviani.
Eravamo in piena agiografia filmica, come riferisce DellOrefice,
visto che lopera usciva a poche settimane dal
voto che avrebbe portato lallora primo cittadino partenopeo
al secondo mandato. Il film aveva avuto anche un contributo dalla
Rai. Scoppiata la polemica, Martone sosteneva fra laltro:
«Ho il diritto di esprimermi come cittadino e come artista»,
e aggiungeva: «Mi auguro che Bassolino venga rieletto».
E incautamente sottolineava che nellepisodio si parlava «di
un uomo, in questo caso un simbolo, che messosi alle spalle le utopie
giovanili, si misura con la realtà e i problemi della città».
Nel 2006, firmava un appello a favore di un maestro di strada
(Marco Rossi DOria) che recuperava i ragazzi altrimenti destinati
alla delinquenza. Incipit dellappello: «Napoli è
in ginocchio».
Chi contrastava il potere? Non il senatore a vita Francesco De Martino
(«I nodi aperti? La soluzione non dipende dallamministrazione
comunale»); non lex deputato diessino, e già
elettore monarchico Biagio De Giovanni, secondo il quale se il partito
abbandonava Bassolino, «per Napoli sarebbe il sacrificio di
un patrimonio che non deve essere buttato via»; né
il presidente dellIstituto per gli Studi Filosofici, Gerardo
Marotta, che decise di riaprire il portone principale del Palazzo
Serra di Cassano, chiuso da due secoli, precisamente dal giorno
in cui (il 20 agosto 1799) il figlio del proprietario, Gennaro,
patriota repubblicano, lo aveva varcato per andare al patibolo.
Era il 25 aprile 1995, quando venne deviata la storia per celebrare
i fasti del grande sindaco napoletano. Il quale, parlando
ai colti e alle inclite, non mancò di ricordare i partigiani
del 44, e con gran solennità annunciò che il
20 agosto 1999 avrebbe rappresentato la vera ricorrenza, perché
si realizzava «la nuova data». Il Rinascimento napoletano
doveva nascere quel mattino. Oggi, a poco meno di dieci anni di
distanza, dopo le immagini di Napoli soffocata dalle immondizie,
ripulita dagli avversari politici, e defraudata dallincapacità
di gestione e da quella che lo stesso De Giovanni ha definito «una
deriva monocratica» che ha creato «un sistema che per
nutrirsi aveva bisogno di consenso e di separarsi dalle forze vitali
della città», nessuno parla più di Rinascimenti
né tira in ballo altre retoriche immagini e servili espressioni.
Tutti, anzi, ne disconoscono la paternità.

Abbiamo detto di Napoli, e lo ribadiamo, non per gli aspetti politici,
anche se proprio la politica di più bassa lega ha ridotto
quella che fu la capitale europea del Settecento a un mosaico di
corti dei miracoli; né per il versante igienico-sanitario,
che ha trasformato in una maleodorante discarica questa città
che, prima al mondo, nel 1832, con unordinanza della Prefettura
di polizia borbonica, vedeva regolamentati nei dettagli spazzamento
ed innaffiamento delle strade, compresa una raccolta differenziata
del vetro; ma come esempio della piaggeria degli intellettuali nostrani,
sempre organici al potere, e come emblema di uno zelo a traiettoria
variabile, in grado di garantire la sopravvivenza in ogni circostanza
e in qualunque mutazione della storia. È vero che
come scriveva Manzoni se uno il coraggio non ce lha,
non può darselo, soprattutto oggi, mentre dilagano sugli
schermi della Tv e fra le pagine dei libri volgarità e violenze
che dovrebbero far arrossire ogni persona perbene. Ed è altrettanto
vero, di conseguenza, che il confronto con il passato, anche recente,
è perdente.
Nel Novecento, sfigurato dal doppio totalitarismo stalinista e nazifascista,
in Russia, in Italia, in Germania, poi in tutta Europa, tranne che
nellindomabile Gran Bretagna di Churchill, il destino degli
scrittori coraggiosi è stato il silenzio, lesilio,
la morte. García Lorca fu assassinato nei primi giorni della
guerra civile spagnola. Cesare Pavese, Carlo Levi, Leone Ginzburg
finirono al confino. Thomas Mann, Nobel 1929 per la letteratura,
trovò rifugio negli Stati Uniti. Poeti e narratori russi
sono sistematicamente svaniti nei viaggi senza ritorno verso i gulag.
Il secondo Novecento non è stato da meno. In Cina, in Indonesia,
in Cambogia, in Cile, in Argentina, nellEst europeo incluso
nella Cortina di Ferro, la persecuzione non ha conosciuto soluzioni
di continuità. Poi è sopraggiunto anche il fanatismo
di matrice islamica, cominciato con le stragi algerine e proseguito
con la caccia ai giornalisti e agli scrittori soprattutto
donne che continuano a battersi per i diritti della persona.
In Russia è caduto il comunismo, ma chi critica il potere
non si processa, si uccide: Anna Politkovskaja è assassinata
sul portone di casa. Intanto, una fatwa islamica reclama la morte
di Salman Rushdie e dei traduttori dei suoi Versetti satanici,
mentre il Nobel turco Orhan Pamuk deve cercare riparo in America.
Nel microcosmo della narrativa italiana contemporanea, limpegno
civile trova uneco profonda quanto rara in Roberto Saviano,
costretto a vivere blindato per via del suo Gomorra.
Limmenso prestigio di cui gode per la sua professionalità
consente a Enzo Bettiza di sostenere a ragione che il Sessantotto
fu rivoluzione mancata ovunque, tranne che nella Praga invasa dai
carri armati del Patto di Varsavia. Altro caso a parte (ma sulla
scorta della grande lezione storica revisionista di Renzo De Felice),
quello di Giampaolo Pansa, la cui urticante immaginazione satirica
è dispiegata nel vasto bestiario storico-politico che affolla
le oltre 500 pagine dei Gendarmi della memoria, gli
implacabili personaggi che hanno imprigionato la verità sulla
guerra civile italiana. Sullo sfondo del testo, ancora un sequel
del Sangue dei vinti sulla tragedia della resa
dei conti, mentre in primo piano emergono le traversie ideologiche
e politiche subite dal suo libro precedente, La grande bugia.
I gendarmi sono personaggi dai nomi strambi, e tuttavia facilmente
individuabili: il Pelatone, cioè Marco Rizzo,
star Tv del Pdci; il Professor Basta, vale a dire Angelo
DOrsi, cattedratico a Torino molto di sinistra e firma frequente
sulla Stampa; il Signor Ghigliottina è
Sergio Luzzatto, storico prediletto del nuovo corso del Corriere
della Sera; il Cosacco è Bruno Gravagnuolo,
barometro culturale dell Unità; già
Parolaio Rosso, Fausto Bertinotti è diventato
Parolaio Revisionista perché condannato dal Pelatone
per aver preso parte a un dibattito con i giovani di AN; il ruolo
di Tartufone, alla maniera di Molière, è
assegnato dufficio al distinto Corrado Augias,
gran cerimoniere della Posta della Repubblica; e lUomo
di Cuneo è Giorgio Bocca, nel ruolo di intramontabile
testa di turco di tutte le polemiche intorno alla sacralità
ideologica della Resistenza...
Risvolto della saggistica storica narrata, quelle che
Sandra Petrignani ha definito «le penne della vanità»:
Vincenzo Cerami, Umberto Eco, Roberto Cotroneo, Roberto Alajmo,
Rosetta Loy, Marco Lodoli, Lidia Ravera, Dario Franceschini, Walter
Veltroni e alcuni scrittori della sua generazione, come Giorgio
Van Straten, Sandro Veronesi, Ugo Ricciarelli; tutti personaggi
che, in concomitanza con lavvento del nuovo Partito democratico,
hanno dato luogo a un rigurgito di qualcosa che sembrava archiviato:
«Chiamatelo impegno, engagement, partecipazione...».
Lodoli esprime «il desiderio di ritrovare unanima collettiva,
qualcosa che superi il narcisismo infelice di questi ultimi anni,
che agguanti lindividuo e lo costringa a scavalcare le sue
private malinconie, quelle transenne arrugginite...». Mentre
per Veronesi la parte che compete agli scrittori è idealistica:
«Ma bisogna essere idealisti con competenza, se si vuole prefigurare
un futuro in cui si risolvano le emergenze che bloccano il Paese
e si delinei una società basata su un rapporto con le cose
non consumistico». Per lui, negli scenari che dipinge, sia
pure nel contesto delleterno avvenire in cui si rintana il
sole del riscatto del genere umano, il riciclo è un business,
e le pale eoliche sono persino belle.
E fin qui, nulla da eccepire. Ma poi dice anche che i treni dovranno
arrivare in orario, e questo sul piano idealistico quanto
su quello ideologico non glielo possiamo consentire: è
stato detto da qualcun altro, che i treni li faceva arrivare davvero
in perfetto orario, utilizzando i macchinisti ferrovieri, e non
gli scrittori, che sono sempre stati in ben altre faccende affaccendati.
Frase letta su un muro di Palermo, alla fine dello scorso secolo-millennio:
«Dopo il gelo degli anni di piombo, teniamoci il calduccio
di questi anni di merda». Chi è che si intossica in
questo tepore? Quelli che hanno un po meno di
trentanni, essendo nati dopo l80, e che del terrorismo,
di Milano da bere e di Tangentopoli hanno solo sentito parlare.
Quelli che sono cresciuti con il mito di Falcone e Borsellino, fatti
fuori dalla mafia, ma che li hanno visti allopera soltanto
nelle fiction televisive. Quelli che si sono formati negli anni
Novanta, quando ledonismo reaganiano non era più la
sfaccettatura di un mondo in guerra, ma uno stile di vita accettato
e perseguito. Quelli che avevano notizie sulla guerra fredda solo
leggendo lultimo capitolo dei loro libri di storia.

Li chiamano della seconda ondata, per distinguerli
dai fratelli maggiori, autori nati negli anni Settanta, che avevano
esordito dopo il 2000 con temi più vicini ai luoghi e alla
realtà. Con costoro emergono «indecifrabili ossessioni»,
insieme con una «maggiore presenza della sfera personale».
In primis, il corpo con le sue mutazioni: malattie (soprattutto
bulimia e anoressia), depressione, maternità, che sostituiscono
tossicodipendenze e Aids, temi presenti nelle narrazioni giovani
di qualche anno fa. Poi, domina linfanzia, caratterizzata
da adulti che non hanno alcunché da insegnare. Non è
un caso che il romanzo archetipo sia Io non ho paura
di Niccolò Ammaniti. E non manca la scuola: basti pensare
a Ma le stelle quante sono di Giulia Carcasi, e agli
Alligatori al Parini del ventunenne Giacomo Cardaci.
I riferimenti letterari sono tutti doltre-Atlantico: Ian McEwan
molto più di Carlo Emilio Gadda e Alberto Moravia.
Ma chi sono questi post-adolescenti? In principio furono Melissa
P. e il meno fortunato Andrea Santoianni. Poi sono venuti Mattia
Signorini, Martino Gozzi e Gabriele Dadati. Grazie alle riviste
letterarie e al web, la seconda ondata ha potuto consolidare le
proprie posizioni, con i nomi di Alessio Arena, Andrea Caterini,
Tommaso Giugni, Maura Gancitano, Barbara Di Gregorio (Eleanore
Rigby), Federica Manzon (nellantologia Tu sei
lei), Flavia Piccinni (Adesso tienimi)
Accanto
agli esordienti e alle promesse appena sbocciate, i giovani affermati:
Marco Missiroli, ad esempio, (Premio Campiello 2006 Opera Prima
con Senza coda, seguito da Il buio addosso);
o Alcide Pierantozzi (esordiente con Uno indiviso).
Mentre di recente si sono distinti Giorgio Fontana (Buoni
propositi per lanno nuovo), Matteo De Simone (Tasca
di pietra) e Paolo Di Paolo (frequentatore della Stanza
dellultimo Montanelli, e pubblicazione di Come unisola.
Viaggio con Lalla Romano); oppure, per il genere fantastico,
due autori: Licia Troisi (Cronache nel mondo emerso)
e Giovanni Montanaro (La croce Honninfjord); o, infine,
lultimo arrivato al successo, Paolo Giordano (La solitudine
dei numeri primi), con il suo romanzo che riassume tutti gli
elementi tipici della seconda ondata, dallinfanzia segnata
fino al male di crescere.
«Io scrivo per guadagnare soldi», ha dichiarato Mariolina
Venezia, Premio Campiello con Mille anni che sto qui.
Non è una boutade dellautrice di serial televisivi
come La squadra e di varie soap («È stata
una buona scuola»). È un dato di fatto: Venezia ha
scritto una saga familiare, ma condensata in poco più di
200 pagine. Come la seconda classificata, Milena Agus, autrice di
unaltra saga incasellata in meno di un centinaio di pagine:
altro che le grandi storie di una volta, come I Buddenbrook
di Thomas Mann o i Rupe di Leonida Répaci, o
la Pastorale Americana di Philip Roth! Oggi, le vicende
di più generazioni di una stessa famiglia hanno il ritmo
di uno sceneggiato in due o tre puntate. Buone, appunto, per far
soldi.
Lo Strega, il premio dei premi. Lo vince Ammaniti con Come
Dio comanda; al secondo posto, Mario Fortunato, con I
giorni innocenti della guerra: il primo non è certo
il migliore di Ammaniti; il secondo cede a uno stile ammiccante
e compiaciuto. Luno e laltro sembrano frutto dellossessione
di piacere a tutti i costi al lettore, cioè a una sorta di
alieno che ha bisogno di storie (i più sfrontati dice
Roberto Cotroneo lo chiamano plot), che non sopporta
scritture troppo lunghe (a meno che non si tratti di thriller),
e che soprattutto deve appassionarsi, come se leggendo pagina
dopo pagina stesse vedendo le sequenze di un film. Sostiene
Cotroneo: da questo punto di vista non esiste più la letteratura,
e quelli che scrivono i libri, quelli che li pubblicano, quelli
che vendono i libri, vivono un curioso disagio.

È il disagio di non crederci, di non credere alla letteratura
come un genere a sé, che si inserisce a pieno titolo in una
tradizione, che ha un suo linguaggio e talvolta persino delle sue
regole. E che serve a indagare la realtà e a trovare un modo
per spiegare e capire il mondo. Il romanzo ormai, nella maggior
parte dei casi, è diventato un manufatto intermedio, una
sorta di trattamento cinematografico che avrà una sua compiutezza
proprio nel momento in cui diventerà film.
Peccato che questa degenerazione valga solo per la narrativa italiana,
chiosa il critico. Nel senso che dagli autori stranieri si richiede
ben altro che scorrevolezza, brevità, ritmi e linguaggi da
fiction. Come dimostrano, ad esempio, oltre agli ultimi libri di
Philip Roth, anche La versione di Barney di Mordecai
Richler, buona parte dei titoli di McEwan, a cominciare da Espiazione,
e poi Javier Marías e Orhan Pamuk, Paul Auster e Abraham
Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, Mario Vargas Llosa, fino a Gabriel
García Márquez.
Come si spiega questa schizofrenia? A un certo punto, «la
debole e fragile cultura letteraria italiana si è dissolta
nel mare torbido di quello che chiamiamo il mercato. È accaduto
che il narcisismo letterario si è adeguato a dei modelli
di successo tra i più banali. Immaginando che il successo
non possa che passare, oltre che dal numero di copie vendute, dallapprovazione
e dal consenso popolare». Solo così si possono spiegare
le parole della vincitrice del Campiello, nel momento in cui, ricevendo
un premio che in passato era stato assegnato a scrittori del calibro
di Primo Levi e Giorgio Bassani, di Ignazio Silone e Mario Rigoni
Stern, non solo non si sente parte di una tradizione letteraria,
ma persino la rinnega, vantando modelli di riferimento che sono
il contrario della letteratura.
Forse non poteva essere diversamente. In questi libri, infatti,
non esiste unautentica ricerca linguistica, le strutture narrative
ricalcano di fatto le sceneggiature cinematografiche, la tradizione
letteraria (quella che il grande critico Harold Bloom definiva «langoscia
dellinfluenza») è del tutto azzerata. Non cè
stato passaggio del testimone fra la società letteraria dominante
tra gli anni Sessanta-Ottanta e quella di oggi, (anche se qualche
eccezione cè: rappresentata da un altro finalista di
quel premio, Romolo Bugaro, che con Il labirinto delle passioni
perdute prova a raccontare la ferocia del nostro Paese, attraverso
la sua esperienza di avvocato).
Il disastro era ampiamente annunciato, se è vero, come è
vero, che da almeno quindici anni media, editor e critici accademici,
oltre ai giurati dei premi letterari, hanno fatto di tutto perché
questo accadesse: critici scomparsi dalle pagine dei giornali, università
solo autoreferenziali, editor concentrati a pubblicare libri che
garantiscano il successo commerciale, importazioni massicce di autori
stranieri, scarse esportazioni di scrittori nostrani. «E così
ci siamo trasformati in un Paese dove non impera soltanto lantipolitica,
ma anche una antiletteratura, che nei fatti guarda alla letteratura
con disprezzo e ironia». Chi legge Gomorra legge
anche Federico Moccia? Chi compra grandi autori acquista anche romanzetti
da sceneggiature, magari venduti in centinaia di migliaia o in milioni
di copie, realizzando in libreria una sorta di brodo indistinguibile?
I tempi sono questi, dice Cotroneo: «E la letteratura italiana
è proprio in svendita».

Tra il serio e il faceto, parliamo della letteratura in fotocopia.
Il più irriverente dei critici, Giulio Ferroni, afferma:
scritture e parole sono ovunque, messaggi molteplici percorrono
il mondo nellimmensa circolazione di carta stampata, nei discorsi
senza fine del cinema e della Tv, in quellarchivio senza fondo
di scritture vecchie e nuove, rigorose e bislacche, pesanti ed evanescenti
che è Internet. Tutti parlano e tutti gridano, esibiscono
se stessi e cercano un posto al sole con le parole dette e scritte,
e, se con immagini, anche queste sostenute da parole. Solo a pensare
a quante parole girano per il pianeta in un singolo momento viene
davvero langoscia, sorge unimprovvisa nostalgia del
silenzio.
Un sollievo, dunque, ci è dato dalla riedizione di un libello
del 1771, Larte di tacere seguita dallarte dello
scriver poco, dellabate Dinouart, che esalta il silenzio
(offrendoci una vera e propria tipologia), scagliandosi contro leccesso
di parole e di scritture, contro la diffusa smania di dire la propria
a proposito e più spesso a sproposito, contro
la narcisistica vanità del mondo delle lettere.
Vi troviamo pungenti riflessioni sugli «uomini che scrivono
tanto per scrivere», che «non comprendono neppure le
loro stesse opere», presi dal «piacere di credersi autori»;
e sullossessione di parlare e scrivere di tutto, che minaccia
di sommergere il mondo con una sterminata «moltitudine di
libri che hanno soltanto un istante di vita, che nascono e muoiono,
che poi rivivono e di nuovo scompaiono». A tratti, labate
sembra parlare proprio di oggi, della inessenzialità sia
dellinfinito numero di libri pubblicati che nessuno legge
sia di quelli che diventano best-seller; dellimmane cumulo
di carta che riempie edicole, librerie e biblioteche; della disinvoltura
con cui viene detto e scritto tutto e il contrario di tutto; degli
invadenti e inutili libri e libercoli di politici, di attori, di
comici, di cantanti, di giornalisti, di accademici grandi, piccoli
e microscopici.
Gli obiettivi dellabate erano in realtà diversi da
quelli che possono essere i nostri: egli aveva di mira i philosophes,
si scagliava contro la libertà e lirriverenza della
letteratura illuministica, invitava a tacere «in materia di
religione» (e lo faceva plagiando clamorosamente un libro
anonimo del 1696). Ma al di là dellobiettivo apologetico,
Larte di tacere intriga, perché spinge
a guardare alle storture delleccesso comunicativo in cui siamo
presi: eccesso giunto ormai al paradosso di creare facoltà
universitarie di Scienza della comunicazione, cioè di vere
e proprie moltiplicazioni delleccesso di eccesso. Formidabili,
al di là del plagio, la classifica dei vari tipi di silenzio,
le battute sullinvadenza delle scritture, sui discorsi di
secondo grado, su chi pontifica su tutto non solo se sa, ma soprattutto
se non sa. Sicché si è portati a credere fermamente
che la coscienza civile avrebbe molto da guadagnare se, ad esempio,
ci fosse anche una moratoria dei talk show, delle tavole rotonde,
dei voce e controvoce, dei dibattiti a più voci. Insomma,
dei rumori assordanti delle voci. Magari affiancata da una moratoria
per tanta carta scritta e stampata, a partire dai libri degli uomini
di spettacolo. Lamenta Ferroni: se poi si guarda alla narrativa,
si trova il vastissimo campo dei romanzieri che scrivono troppo
o che scrivono sempre la stessa opera. Proliferano i romanzi fluviali,
che si muovono verso le mille pagine, che fanno bel vedere accatastati
nelle librerie: «Ma io mi domando sempre chi mai li legge
e chi mai arriva fino in fondo».
Quanti sono poi i replicanti, quelli che trovano una formula e la
ripetono allinfinito, dando luogo a una letteratura in serie
che esclude qualsiasi ricerca, o confronto con il mondo, e che nulla
aggiunge al filo della nostra vita! «Lasciamo da parte le
elucubrazioni sadomaso e le contorsioni erotiche eroiche eroiniche
di Isabella Santacroce, che per ora si esauriscono in libri di modeste
dimensioni pur se insistentemente replicati. Ma che dire della costrizione
a inciampare nelle librerie in montagne di nuovi ponderosi Giorgio
Faletti, con impaginazioni chilometriche di killeraggi extraterritoriali?
Assistiamo alle trionfali ripetizioni del Federico Moccia similadolescente,
con i suoi abbandoni sentimentali impacchettati con nastro, fiocco,
fiorellino e lucchetto...; e alle più mature e severe oblazioni
di nuovi Salvatore Niffoi, con miscele saporose e ostinatamente
nostalgiche di pecorino sardo».
Finita qui? No. Se guardiamo fuori del nostro orizzonte casalingo,
le cose non sembrano cambiare più di tanto: che dire dei
thriller culturologici di Dan Brown e alla Dan Brown, con le stucchevoli
messe in scena di misteri estratti da manipolazioni della storia
religiosa, politica, culturale? E delle magie artificiose e speziate,
sontuosamente accattivanti, dellAmerica Latina da feuilleton
di Isabel Allende?
Ma torniamo dalle nostre parti. Dice il critico: «Tornando
in Italia, mi sgomenta ancora il moltiplicarsi delle indagini su
fattacci vicini e lontani, con misura ben calibrata e tutto sommato
politically correct, a cui insistentemente lavora, in stampa e in
video, il vitalissimo Carlo Lucarelli. E ancora la Sicilia arroventata
e casereccia, elementare e sovraccarica, parodistica ed evanescente,
di quello che comunque è il più bravo e simpatico
di tutti e a cui si perdona la torrenziale e disinvolta facondia,
la disponibilità a sfornare illimitatamente libri, lottimo
Andrea Camilleri».
Insomma, differenze fra questi e tanti altri date per scontate,
viene comunque la voglia di consigliare una tregua, se non altro,
per evitare che prima o poi si faccia avanti qualche altro abate
che, senza plagiare lo stesso Dinouart, ci inviti a non leggere
più nulla, come già consigliavano i versi finali di
un sonetto del Belli: «Li libbri non zò rrobba da cristiano:
/ fiji, per carità, nnu li leggete».
Da qualche tempo a questa parte circolano un bel po di libri,
come definirli?, trasgressivi, parzialmente disimpegnati, nel senso
di impegnati a magnificare il sesso, e soltanto questo, lungo il
confine erratico tra erotismo e pornografia. Partiamo dalla fine,
cioè da Lola Beccaria, a quanto pare discendente del giurista
Cesare, autrice di Una donna nuda, epigono di una pruderie
tradotta in romanzetto autobiografico che ha ascendenti ovunque,
da Terence Sellers (La sadica perfetta) a Princess Spider
(Esperienze di una dominatrice), alla più casereccia
Isabella Santacroce (V.M. 18), alla pornoromantica Carolina
Tutolo, a Guia Soncini, alla transpasionaria bolognese Porpora Marcasciano
(Tra le rose e le viole. La storia e le storie di transessuali
e travestiti), fino ai colpi di spazzola di Melissa P. e allesordiente
Monica Bisighini (Tamara di Dio), e alle più
morigerate Clara Sereni o Rosy Campo, che ricordano da vicino la
scrittura (di tempi ormai remoti) di Lidia Ravera, con la noiosa
pedagogia di chi fa del sesso una nenia di liberazione e/o di oppressione
assoluta, con contenitori sentimentali a lingua prestampata, con
le consuete cianfrusaglie cuore-amore-anima, iniziazione sessuale-organi
(ancora impuberi) titillati, passaggi da amante ad amante; e con
linvalicata palude degli stereotipi della vecchia letteratura
rosa di basso profilo, comprese le narrazioni in pagine omo e lesbo,
che neanche lontanamente riescono a sfiorare la grandezza di Proust,
Gide, Genet, Whitman, Pasolini, Testori, Gadda, Arbasino, Busi
Quasi a battesimo del nuovo secolo, nel 2001 Christopher Hitchens
scrisse Letters to a Young Contrarian, (Consigli
a un giovane ribelle), una sorta di manuale a uso dellovvio
sovversivo. Radicale e rivoluzionario, comunista, inglese, ma vicino
alle posizioni della destra americana di Bush, padre di una velenosa
invettiva contro Madre Teresa di Calcutta, lautore di Dio
non è grande può a buon diritto ritenersi il
primo tra i presuntuosi della Terra, unico interlocutore possibile
di quel testimone della religione secolarizzata che, secondo il
colombiano Nicolás Gómez Dávila, è Satana,
linquisitore per eccellenza che non si attarda con la carità
e con la pietas. Hitchens si ritiene un eroe della ribellione. Ma
si chiede Pietrangelo Buttafuoco non lo è,
forse, della rivolta? Sullonda della compianta Oriana Fallaci,
aggiunge il critico, proprio costui «rivela come la destra
in guerra contro Dio non sia altro che la sinistra nella sua fase
senile». Quella che ha fatto la Rivoluzione francese, quella
bolscevica, le varie e controverse Resistenze, tutte le rivoluzioni
arancione dellEuropa dellEst e che infine ha issato
il patibolo per Saddam Hussein: per farne poi che cosa, uno starnazzare
incontrollato perché i Draghi della Cina e le divinità
dellIndia si stanno prendendo il cuore della Terra per dominare
il mondo?
La carica emozionale della disubbidienza richiede una forte dose
imaginale (termine che è una categoria fondamentale
della dottrina musulmana sciita, un capitolo dellopera di
Henry Corbin). «Insomma, senza la dimensione spirituale non
si dà rivolta: da Prometeo a Lucifero, dal Sol dellavvenire
alla Conquista delle stelle, tutto è un reclamare luce e
spirito. E la nostra proposta di ribellione al ribelle tiene conto
di Dio, della fantasia e dellunica vampa di sincerità
nella libertà, quella dellarte, tanto è vero
che fra i libri da scegliere per i giovani ribelli, mettendo da
parte lovvio sovversivo, forse è più efficace
Capitan Harlock, eroe dei manga, che non Omaggio alla Catalogna,
di George Orwell». Che cosa segnalare ai giovani ansiosi di
delinquere? Presto detto: Il trattato del ribelle, di
Ernst Jünger, e poi Lezioni spirituali per giovani samurai,
delizioso vangelo redatto da Yukio Mishima.

Forse, solo stare ai margini dellOccidente è ribellione.
E lo è lintridersi del nulla dei nichilisti del secolo
scorso, come fa questo autore archetipico, che rabbiosamente tiene
lontani Iddio in persona e Satana unico testimone. «Forse
solo quellinsieme di parole arcaiche, remote e oscure, quella
stessa tradizione primordiale del Dio dei popoli cui il polemista
di Portsmouth ha rivolto la sua scienza e la sua foga distruttrice,
è il fuoco che eternamente attende di essere rubato per restituire
allOccidente almeno il senso stesso del proprio suicidio».
Ogni epoca, si sa, ha i propri idoli. Il guaio arriva quando lo
Spirito del tempo, notoriamente conformista, arruola sempre più
adepti in linea con landazzo. Come per un inglese, un americano
e un italiano, insieme per un caso editoriale. Tre autori, altrettanti
best-seller: The God Delusion di Richard Dawkins, Letter
to a Christian Nation di Sam Harris, e Babbo Natale,
Gesù adulto di Maurizio Ferraris. Si badi, nessun invito
allateismo, ma un approccio meno rispettoso alle fedi religiose,
(Dio, nella migliore delle ipotesi, «ottativo del cuore»,
come lo definiva Feuerbach); una critica alle ingerenze delle Chiese
in campo politico-sociale; la considerazione delle religioni come
sponde di fiumi parallele, dunque destinate a non incontrarsi mai;
lattacco alla loro presunzione di regolare nascita, morte,
ed eventi principali che si collocano tra luna e laltra.
Ispiratore devastante di questi pensieri, non un ateo né
un agnostico, ma un credente, addirittura una porpora, lex
vescovo di Edimburgo, Richard Holloway, che in Godless Morality.
Keeping Religion out of Ethics (Una morale senza Dio.
Tenere la Religione fuori dallEtica) suggerisce alluomo
raffigurato in copertina, sperduto in un incrocio di strade, di
tenere separate le due indicazioni, gli dice che non deve necessariamente
credere per essere buono, e aggiunge che «la morale si basa
su effetti dimostrati, non su convinzioni o superstizioni».
Con tanti saluti a chi, nel nome della fede e delletica che
implica, ha affrontato anche il martirio.
Vautrin, lultimo figlio di Caino; Milady, lattrice che
impersona Satana; Uriah Heep, la malvagità strisciante; Stavrogin,
luomo vuoto, il nulla profondissimo: questi, i personaggi.
Parigi, «flagello ardente e fumoso», dove tutto è
abietto; Londra algida, nera, tetra città che nessuna luce
può rischiarare: questi, i luoghi. Tutto fango. Che però
si trasforma in oro nelle mani dei grandi scrittori. Come quelli
che Pietro Citati, nella sua raccolta di saggi Il Male assoluto.
Nel cuore del romanzo dellOttocento, ha legato in una
sottile e fitta rete di parentele, di odi fertili, di amicizie pericolose,
da Proust a Kafka, da Goethe a Tolstoj, e a Balzac, a Dumas, a Dickens,
a Dostoevskij, coniugando racconto e arte del ritratto, che è
il suo modo di fare critica letteraria.
Citati vi sostiene che il male attraversa tutta la letteratura,
«ma l800 è come se lo avesse riscoperto. In quasi
tutti i grandi scrittori, Balzac, Stevenson, Dumas, Hawthorne, James,
soprattutto Dostoevskij, la condizione del male è un dato
essenziale. In Dostoevskij cè la più grandiosa
figura del malvagio del secolo. Nessuno è più grande
di Stavrogin. È la chiave del romanzo, dà vita e idea
a tutti gli altri personaggi».
Che cosè, allora, il male assoluto? Quello che si compie
sui bambini. Per Dickens non cè peccato più
grande, e lo scrittore russo lo ha appreso da lui. Stavrogin stupra
una bambina e aspetta che lei si impicchi, pregusta la visione,
poi contempla a lungo il piccolo corpo appeso. Qui lautore
varca ogni limite, ci sembra di abitare dentro il male.
Stavrogin è tanto terrificante quanto affascinante: ha lincanto,
la bellezza, la dolcezza, il dono di sedurre. In un certo senso,
però, non è il male, fa il male, ma non riesce a coincidere
con esso. Non coincide con niente, è niente. Lunica
cosa che si può dire di lui è che è una sorta
di immenso vuoto, probabilmente la vera forma del male. Forse, se
fosse veramente malvagio, negativo, potrebbe salvarsi, e invece
non si salva, deve uccidersi perché è posseduto da
questo suo immenso vuoto. Dickens è poco letto. Per Citati,
è il narratore più comico del secolo, «suscita
il riso più esilarante e radioso», ma allo stesso tempo
è lo scrittore del delitto, delloscurità tenebrosa,
dellinconscio, della città moderna. Dostoevskij e Tolstoj,
Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lo lessero con la passione
e con «lincoerente gratitudine» che egli richiede
a ciascuno di noi.

Il male, infatti, è tante cose in questi autori. È
una forza di concentrazione terribile, un peso, nel balzacchiano
Vautrin, il cattivo dalle molteplici incarnazioni. È fascinazione
come in Stavrogin e nei personaggi di James. Poi lindagine
dei romanzieri si sposta sui rapporti tra bene e male. Se scorriamo
le pagine del Manzoni, sappiamo che tra bene e male assoluto, come
lInnominato e il Cardinal Federico, cè una complicità.
In Delitto e castigo non cè alcuna armonia,
eppure emerge una sorta di lieto fine: gli umili e le vittime sono
salvati, anche se soltanto per grazia del male assoluto.
E a proposito di questultimo: ha avuto un prologo nel 700,
con De Foe, Jan Potocki, Goethe; e un epilogo, con Linterpretazione
dei sogni, di Freud. Questi insegna al 900 larte
dellintrospezione. Per lui il libro è stato una specie
di salvezza psicologica: sentiva che mentre i suoi amici erano felici,
lui era freddo, austero, senza gioia. Con quel testo cercò
di imparare a vivere. Alla base, non era unopera scientifica,
lispirazione veniva da Wilhelm Fliess, un ciarlatano, ma anche
un erede di quella scienza unitaria della natura che risaliva al
500. Anche Freud cercò di generare una scienza unica,
che spiegasse tutta la realtà. Cè il riconoscimento
che nel suo rapporto con Dio lui è stato sconfitto, e i soli
dèi che possono aiutarlo sono quelli dellAverno. Ma
dagli dèi delle tenebre ha desunto una scienza nitidissima.
È stato il maestro di una tecnica dellinterpretazione
che è alla base di quasi tutta la saggistica e di molto romanzo
del 900.
Gli epigoni contemporanei? Immaginiamo una psichiatra bellissima,
che è anche una sadica serial killer. È pure «una
mente malata fra le più grandi della storia americana»,
che ha ucciso e torturato centinaia di persone, non risparmiando
sevizie atroci neanche al poliziotto che lha incastrata, facendola
arrestare, ma che ne è divenuto succubo, visitandola continuamente
in carcere, facendosi centellinare una settimana dopo laltra
i nomi delle vittime. Siamo nelle prime pagine di La ragazza
dei corpi, truculento thriller della statunitense Chelsea
Cain, che il critico Jeffery Deaver ha iperbolicamente definito
«una geniale esplorazione della natura del male». Nel
cuore del romanzo, un altro mostro si mette a seminare il terrore
tra le adolescenti della città. E il poliziotto sa che soltanto
la psichiatra può penetrare nella mente dellassassino.
Questa storiaccia ci ricorda qualcosa? Lo schema è quello
del Silenzio degli innocenti, con una beauty killer
al posto di Hannibal the Cannibal e con un maschio masochista al
posto della poliziotta Clarice Sterling.
Allo stesso modo, si immaginino un gruppo di normali ragazzi americani
che unautorità superiore ha strappato di colpo alla
routine quotidiana, trasferendoli in una situazione eccezionale,
cioè trasformandoli in guardie carcerarie dotate della liceità
morale, oltre che dellassoluto potere di sorvegliare e di
punire. Lesempio sembra riportarci dal regno della fiction
allatroce realtà: ai soprusi e alle sevizie contro
i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib.
Ma la vicenda è più complessa. Abu Ghraib, infatti,
ha un precedente in un esperimento di psicologia sociale promosso
dalla Stanford University nel 1971 e sfuggito di mano agli scienziati,
come il mostro dellambulatorio del Dottor Frankenstein. Lo
racconta il suo ideatore, Philip Zimbardo, in un saggio, Leffetto
Lucifero, dal sottotitolo eloquente: Cattivi si diventa?.
La risposta è: sì. Si prendano degli studenti dallequilibrato
profilo psicologico, si dividano a caso in guardie e reclusi. Siano
isolati in uno spazio concentrazionario e inchiodati ai loro ruoli.
Ben presto i primi si trasformeranno in carnefici, i secondi in
vittime. Tantè che lesperimento di Stanford dovette
essere sospeso, prima che si giungesse a un punto di non ritorno.
Il caso fa da ponte tra la realtà e la fiction. Testimonia,
cioè, lesistenza di un nesso mitologico forte tra il
piano dei fatti e quello dellimmaginazione. Effetto Lucifero,
appunto. Ovvero, quando il diavolo ci mette la coda, rendendo indistinguibili
vita e letteratura, realtà e finzione, fino a trasformare
il crimine in un reality. E viceversa. Il bene e il male, poli della
nostra costellazione morale, sfumano nella dimensione virtuale dellaudience
televisiva.
Due romanzi recenti, declinando in forme icastiche il rapporto tra
Nazismo e Male assoluto, hanno riacceso le discussioni. Le
Benevole di Jonathan Littell, e Hitler di Giuseppe
Genna, infatti, sono stati accusati da Giuseppe Bonura di risolversi
in una perniciosa pornografia del male, anziché
nello svelamento della sua concretezza sociale che dovrebbe costituirne,
aristotelicamente, la catarsi. Reazione di Sergio Altieri, consulente
editoriale mondadoriano per prodotti da edicola, alias Alan D. Altieri,
narratore di storie ultranere, (Kondor, Luomo
esterno
): la vera pornografia è quella che si
annida passivamente dentro la società contemporanea. Altieri
è autore della trilogia di Magdeburg. «Il
Seicento del mio testo, o il Medioevo in cui Valerio Evangelisti
ambienta le storie dellinquisitore Eymerich, non erano secoli
ipocriti», sostiene. «Il potere era assoluto e come
tale veniva gestito. Oggi, invece, domina lipocrisia. Qualcuno
ricorda Apocalypse now? I piloti incendiavano col napalm
interi villaggi, ma sui loro aerei era proibito scrivere le parolacce.
Dicono: ma che fate, mettete solo violenza nei vostri libri? Come
se il mondo qui intorno fosse tutto rose e fiori». Troppo
facile, insomma, prendersela con i bravi cattivi ragazzi
del noir e dellhorror, del thriller e dello splatter, le cui
gigantografie del male a tinte forti rischiano al massimo, come
certi farmaci, di darci assuefazione.
Che sia anche questo effetto Lucifero? A farci ripensare
a quell«essere oscuro e conturbante» che «esiste
davvero» e muove il male del mondo, è Adesso
viene la notte, il nuovo romanzo di Ferruccio Parazzoli. Tra
le sue pagine il diavolo dilaga in panni gesuitici, mentre cerca
di scardinare la salda fede di Paolo VI, mettendolo al cospetto
del silenzio di Dio e al sacrificio del giusto, nella persona di
Aldo Moro, rapito e trucidato dalle Brigate rosse. «Sin dalle
origini della mitologia cristiana», butta là Parazzoli,
«Satana assume su di sé la parte maledetta. Carl Gustav
Jung lo considera addirittura una specie di quarto incluso nella
Trinità: lAltro che è implicito in Dio stesso
e viene simboleggiato dal quarto braccio della croce, quello che
sprofonda nella terra». Ma allora, il Cannibale e la beauty
killer, i criminali trasformati in eroi positivi, saranno
i protagonisti delle favole raccontate per addormentare i bambini
prossimi venturi?
Mentre siamo ancora nel gorgo della disperazione formale ed esistenziale
del Novecento, (si arriva a un capolinea radicale e a uneclissi
definitiva dellumano in Il treno dellultima notte,
di Dacia Maraini), e se scorgiamo una riva come scrive John
Banville è dal ponte di una nave che affonda, ci potrà
salvare larte, come nelle stagioni classiche? La domanda è
rivolta, in un libro-intervista di Daniela Padoan, a Ermanno Olmi.
Al regista si chiede come abbia «affrontato la parte del negativo»,
vista la sua vocazione a rappresentare la speranza, lumanità
schietta e fraterna, la grazia della vita. Sostiene Claudio Magris
che Olmi trova lumano in unantica semplicità
e pietas familiare e contadina, «certo personalmente vissuta
ma anche idealizzata, vista nella sua fraternità con le cose
piuttosto che nella sua anche regressiva brutalità».
Ma in molti capolavori La leggenda del santo bevitore;
Il mestiere delle armi la verità poetica
dellesistenza «è colta nella solitudine, nella
sconfitta, nellurto spietato, nel fallimento». Infatti,
Olmi risponde che oggi i conti si possono far quadrare con un «cambiamento
totale» dellesistenza, e dunque con una sua negazione,
assumendo su di sé tutto il negativo dellepoca, come
voleva Kafka.
Egli sa bene ricorda Magris che lo scenario della
salvezza può essere non solo il dolce fiume dei suoi Cento
chiodi, ma anche la discarica dei rifiuti, il cumulo corroso
di macerie, i bidoni di immondizie in cui forse è scivolata
e si è nascosta qualche perla di cui andare in cerca, così
come i personaggi de Il poeta e lo spazzino di Dante
Maffia trovano, frugando tra i cassonetti, veri libri che li illuminano
proprio perché finiti tra gli scarti. Da Beckett a Mattioni,
la spazzatura è un grande paesaggio della letteratura moderna,
con una sua aura di squallore e insieme di redenzione: «Dopotutto,
nella Bibbia il Signore dice di avere scelto quale pietra angolare
della sua casa la pietra rifiutata dai costruttori, infima e disprezzata».
Ma forse oggi è la poesia, più della prosa, a poter
offrire unimmagine autentica non consolatoria, non
rassicurante, non analgesica di speranza e di significato,
conclude Magris. «
Sperperare il nostro avere / fino
allultimo sguardo, lultimo / paesaggio di rovine»,
dice in alcuni suoi versi incisivi Alberto Bevilacqua, un romanziere
per antonomasia che si interroga sui propri fondamentali e confessa
di aver «passato una vita decifrando / piaghe e vuoti dellaltrui
esistere», forse perché sofferente di «un po
di vertigine, claustrofobia / nellabitare solo me stesso»,
dunque fuggiasco dalla propria angustia nel vuoto di altri, di tutti.
Probabilmente, la poesia può dire, senza falsità,
un senso forte della vita che il romanzo, quando lo enuncia, può
facilmente svisare nella retorica. Forse perché «il
linguaggio della poesia, impervio anche se certo non ermetico né
sibillino, richiede al lettore di conquistarlo, con lintensità
dellavventura e della salita, anziché di consumarlo,
mentre il romanzo è più facilmente consumabile, assomiglia
troppo spesso a una comoda passeggiata in piano, e per acquisire
verità deve rendersi meno assimilabile, più indigesto,
trasformare la passeggiata in un cammino pieno di frane, di buche,
di sabbie mobili».
Il Corriere della Sera dedica una pagina allultimo
romanzo di Carlo Lucarelli, Lottava vibrazione.
Firma larticolo Giancarlo De Cataldo, anche lui scrittore.
Il suo Romanzo criminale e gli altri suoi titoli sono
nel catalogo Stile Libero dellEinaudi, che accoglie
anche Lucarelli. Fuori discussione bontà del libro e onestà
del recensore. Ma vien da chiedersi: si può sospettare un
conflitto di interessi?
Non è un caso unico. Pochi critici in Italia fanno soltanto
i critici. Molti sono critici e, simultaneamente, scrittori. Scrivono
romanzi Lorenzo Mondo e Giuseppe Bonura. Ne ha scritti Giovanni
Pacchiano. Li scrivono Luca Doninelli, Nico Orengo e persino Pietro
Citati. Recensiscono e scrivono romanzi Mario Fortunato, Giorgio
Montefoschi, Alessandro Piperno, Giuseppe Genna, Giulio Mozzi, Massimiliano
Parente, Tommaso Pincio. È romanziere e blogger Tiziano Scarpa
Il dubbio che, oltre al valore letterario, contino le amicizie,
vale per tutti. Paolo Di Stefano, anchegli giornalista del
Corriere, autore di Nel cuore che ti cerca,
riconosce il conflitto e ne segnala un altro: «I consulenti
editoriali recensiscono libri che hanno fatto pubblicare; i responsabili
di pagine culturali scrivono prefazioni o traducono per le stesse
case editrici libri che poi segnaleranno e recensiranno; i docenti
universitari usano gli incarichi editoriali per costruire le carriere
dei loro allievi».
In unindagine che ha riguardato due settimane di attenzione
sul tema, Mariarosa Mancuso ha registrato quanto segue: Paolo Collo,
responsabile dellEinaudi per la letteratura spagnola e portoghese,
ha firmato un lungo ritratto di Javier Marías, autore della
stessa editrice. Su un numero di Alias, supplemento
culturale del Manifesto, Marco Belpoliti ha recensito
i Saggi di letteratura e politica di Susan Sontag; cinque
pagine dopo, lo stesso Belpoliti è favorevolmente recensito
da Daniele Figlioli (per Le foto di Moro). Andrea Cortellessa
fa il critico e dirige una collana di narrativa italiana per leditrice
Le Lettere. Lintreccio romanzieri-recensori-curatori di collana
alla Minimum Fax è inestricabile, come gli incarichi editoriali
di Emanuele Trevi. Ed emerge persino un conflitto sfuggito alla
casistica: quello delleditore che intervista un autore della
sua scuderia, come nel caso di Sergio Fanucci con Richard Matheson
sul Venerdì di Repubblica.
Né va meglio per il settore blog: gli stessi nomi tornano
e si intrecciano tra recensori e recensiti. Gianni Biondillo, quattro
romanzi da Guanda e molti articoli sul blog collettivo Nazione
indiana (dove scrive anche Roberto Saviano, quello di Gomorra),
nega laddebito, ma tratteggia scenari della repubblica delle
lettere poco edificanti: È un mondo brutto e piccolo,
dove vige la mistica dellinciucio . Si capisce, allora,
perché gli esponenti della casta siano rancorosi: una recensione
fredda può rompere unamicizia, mentre la doppia verità
(esaltare un romanzo in pubblico, criticarlo negativamente in privato)
aiuta comunque a vivere e a pubblicare senza problemi. Andrea Vitali
insegna: sebbene sia autore di classifica, non vorrebbe che ad occuparsi
di un suo prossimo libro fosse «lanima caustica di Giovanni
Papini». Dimostrazione, questa, dellesser colti e scaltri:
Papini non è più pericoloso, da mezzo secolo non può
mettere nessuno sulla graticola.
Succede così che Federico Moccia definisca «una donna
che scrive sul Manifesto», senza citarne il nome, la critica
che ha stroncato Tre metri sopra il cielo; che Giorgio
Faletti dimentichi, perché li ha cancellati,
i nomi di coloro i quali hanno sostenuto che i suoi libri vendono
grazie al nome dellattore, e non per i contenuti; che Andrea
Di Consoli, autore dei racconti di Lago negro, spari
su Giovanni Pacchiano, critico di riferimento del Sole 24
Ore, mentre Silvia Ronchey ricordi che il recensore del suo
Lenigma di Piero, Piero Boitani, docente alla
Sapienza, le ha già «nociuto allUniversità»;
che Gaetano Cappelli, autore di Parenti lontani e Il
primo, si scagli contro non uno, ma due critici, Marco Belpoliti
e Carla Benedetti, il primo della Stampa Tuttolibri,
la seconda dell Espresso; che Giuseppe Scaraffia
finga di non voler essere recensito da Antonio DOrrico (Corriere
Magazine), mentre più ingenuamente Aurelio Picca lamenti
la mancanza di attenzione da parte di Citati, lenzuolista
di Repubblica, e Antonio Scurati (autore de Il
sopravvissuto) quella di Franco Cordelli; anche se poi recensore
che loda non si cambia, come accade a Ermanno Paccagnini del Corriere,
prediletto da Nicola Lecca (romanzo Hotel Borg) e da
Paolo Bianchi; senza che nessuno, neanche un Alessandro Piperno
o un Sandro Veronesi per dire abbia mai fatto i nomi
di Giulio Ferroni, di Massimo Onori, di Filippo La Porta, o di Alfonso
Berardinelli, i cosiddetti magnifici quattro della stroncatura,
autori di Sul banco dei cattivi, libro edito da Donzelli,
che ha riportato la critica letteraria al centro dellattenzione
e fuori dagli orizzonti fumosi dei recensori di fiducia.
Allestero, dove vige una salutare separazione delle carriere,
una critica negativa è considerata parte del gioco. Sul Sole
24 Ore di una ventina di anni fa, Roberto Cotroneo stroncava
con lo pseudonimo di Mamurio Lancillotto.
Poi si è messo a scrivere romanzi (quattro), ha diretto le
pagine culturali dell Espresso, e ora dichiara
di non essere stato mai stroncato, perché avrebbe «spiazzato
i critici fin da Presto con fuoco». Sarà
così. In ogni caso, è convinto che i libri vengano
scelti soprattutto con il passaparola, mentre, sempre sul piano
dellautoreferenzialità collettiva, Paolo Di Stefano
sostiene che «le recensioni interessano soprattutto gli addetti
ai lavori», e Gianni Biondillo proclama che tra le pagine
culturali e i lettori «si è aperto un abisso».
Tranquilli, i lettori se ne erano accorti da un pezzo. È
la casta nana che continua ad ascoltare solo se stessa. E a far
finta di niente.
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