Tirannia.
Il petrolio rimarrà ancora con noi
per molti anni,
ma abbiamo tutti
interesse
a renderlo meno fonte di dittatura energetica.
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Parigi vuol battere Londra nel campo dei sukuk, le obbligazioni
islamiche. È cominciata così la corsa per superare
i cittadini britannici in un settore nel quale sono sempre stati
campioni: gestire il proprio e laltrui denaro. La Ville Lumière
vuole diventare la nuova capitale finanziaria dEuropa, grazie
alle banche musulmane. E, a questo fine, ha introdotto alcune misure
per rendere il Paese un catalizzatore di fondi a livello globale.
Gli oltre sei milioni di islamici che popolano la Francia, rispetto
ai soli tre milioni del Regno Unito, sembrano dare una
sponda migliore per mettere le basi di un nuovo baricentro finanziario
mondiale. Così si potrà fare conto sui soldi raccolti
e utilizzati secondo le leggi di Allah.
Dovremo abituarci alle regole del riba (il divieto del tasso dinteresse
o usura), del gharar (il divieto sullincertezza degli affari),
del maysir (il divieto della speculazione) e di tutte quelle distinzioni
fra haram (vietato) e halal (consentito)? Non possiamo ancora dirlo,
ma sarà bene prepararsi, visto che con gli attuali prezzi
del greggio allincasso ci sono loro. Noi siamo in fila per
pagare.

Che impatto potrà avere una scelta del genere, visto anche
il ruolo che Parigi vuole giocare nei nuovi equilibri continentali?
Potrebbe essere un cavallo di Troia e la fase finale del grande
progetto dEurabia ben descritto nel libro di Bat Yeor,
(e avversato con il coltello tra i denti da Oriana Fallaci), oppure
una sana iniezione di princìpi etici in un sistema finanziario
malato e senza regole? Cè chi considera le banche islamiche
un grande bluff e che la proibizione degli interessi sia in realtà
limitata al solo divieto dusura. Vietata dal Corano, ma anche
dalla tradizione cristiana. In effetti, nel periodo della Tanzimat,
la riorganizzazione, tra il 1836 e il 1876, si importarono nellImpero
Ottomano le istituzioni bancarie di stampo occidentale, nel tentativo
di puntellare il gigante con i piedi dargilla.
Nel 1856 furono autorizzate ad operare le istituzioni bancarie a
capitale straniero, legalizzando così il tasso dinteresse.
Un divieto spesso eluso anche nel Medioevo. Le strutture, cui la
Francia ha spalancato le porte, sono nate invece mezzo secolo fa.
I due fondatori si chiamavano Abul Ala Mawdudi,
che mosse i primi passi nellIndia britannica degli anni Quaranta,
e Sayyed Qutb, lideologo dei Fratelli Musulmani, morto nelle
carceri egiziane. Non essendo pratici di questioni economiche e
di fattori come linflazione, avevano costruito un sistema
che produceva soltanto perdite. Poi la svolta, e la nascita del
concetto di compartecipazione.
Nelle banche islamiche creditore e debitore dovrebbero rischiare
e guadagnare insieme nella condivisione. Musica per le nostre orecchie,
intasate da scandali dogni genere, e alla ricerca di unetica
che non sia soltanto enunciata. Però pare che ci sia il trucco
e che dunque tassi dinteresse comunque si paghino. Anche scandali
e truffe non sono mancati, soprattutto in Egitto, dove lArabia
Saudita è stata costretta spesso a metter mano al portafoglio
per chiudere voragini e per salvare il concetto di banca islamica.
La prima iniziativa con rilievo funzionale viene attribuita alleconomista
Ahmad al-Najjar, che nel 1963 fondò la Cassa di risparmio
di Mitt Ghamr. Ma il progetto di sbarco sul Vecchio Continente dei
broker del risparmio secondo Corano prosegue da tempo
e non mancano iniziative di rilievo, come quella del Robert Schuman
center for advanced studies, che sondano il fenomeno, anche analizzando
lo stato dellarte e le prospettive future della finanza e
delle attività bancarie, secondo le regole della sharia.
Con previsioni sullappeal dei servizi di questo tipo, anche
in vista delleventuale entrata della Turchia nel club di Strasburgo.
Un primo appuntamento di lavoro si è visto lo scorso gennaio
a Firenze, dove fra gli altri si sono incontrati esponenti dellAbi
e della Uab (United Arab Banks), insieme con esperti di università
inglesi e americane. Nel settembre 2007 proprio Abi e Uab avevano
firmato un memorandum di cooperazione.
Ma torniamo sulle sponde della Senna per dare i numeri dellultimo
progetto. Attualmente, due colossi come Bnp Paribas e Société
Générale offrono un servizio ampio, ma non completo,
di prodotti finanziari islamici. Ciò che preoccupa è
che il Senato francese stia mettendo insieme politici, banchieri
e giureconsulti musulmani per discutere come supportare i nuovi
modelli di gestione del denaro. È un passo decisivo verso
un cambiamento del quadro legislativo e fiscale dello Stato, come
ha sottolineato il Financial Times del maggio scorso: una scelta
quasi obbligata di un Paese ostaggio della propria comunità
musulmana, oppure, secondo la versione ufficiale, un mero calcolo
economico. Il fondatore, nel 2004, di Isla Invest, la prima società
di consulenza del settore in Francia, Zoubair Ben Terdyet, è
convinto che a spingere Parigi verso gli islamic bond
siano le grandi prospettive di guadagno. Insomma, tutti alla ricerca
del profitto moralmente corretto, nella speranza che rimanga qualcosa
dellEuropa, oltre la carta moneta, se Dio vuole.

La crescita delle banche islamiche, che sono solo una parte della
finanza araba, è stata del 20 per cento allanno dal
Duemila. Le attività consolidate secondo le leggi di Allah
ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari (stime di Moodys).
Anche in Inghilterra si è cercato di adeguare la legislazione
per favorirne la crescita. Ad esempio, la Islamic Bank of Britain
continua a svilupparsi nonostante la crisi delle concorrenti laiche,
terremotate dai ninja loan ovvero subprime e prodotti collaterali
e derivati. Con sede a Birmingham, ha visto i suoi clienti crescere
del 38 per cento nel 2007.
I depositi si sono incrementati del 61 per cento in valore, fino
a un ammontare di 135 milioni di sterline, circa 170 milioni di
euro. Numeri ancora modesti, rispetto ai colossi del denaro, ma
che sembrerebbero immuni dalle perdite che stanno dissanguando altri
protagonisti del settore. Un fenomeno che non riguarderebbe solo
la finanza islamica, ma più in generale le banche degli Stati
del Golfo.
Nella classifica dei cosiddetti writedowns le perdite legate
ai subprime solo la Gulf International Bank raggiungerebbe
quota un miliardo di dollari, seguita molto da lontano dal gruppo
formato dalla Gulf Investment Corporation e dallArab Banking
Corporation, con poco più di 200 milioni di dollari, poi
scemando verso perdite sempre minori, fino alla Saudi Investment
Bank, con solo poche decine di milioni di buco. Una tendenza che
farebbe pensare più a oculate scelte strategiche che allobbedienza
teologica.
Ma dove finisce la gran parte dei soldi arabi? Negli anni Settanta
ci furono due grandi shock petroliferi. Il primo, provocato dalla
guerra arabo-israeliana del Kippur, quadruplicò in quattro
mesi il prezzo del barile. Il secondo, provocato dalla rivoluzione
iraniana del 1979, ebbe per leconomia occidentale conseguenze
ancora più negative. Nei mesi seguenti gli europei e gli
americani furono costretti a rivedere i propri bilanci, a calcolare
limpatto dellaumento dei prezzi sulle rispettive economie
e a predisporre piani energetici. I più lungimiranti decisero
che occorreva ricorrere a fonti alternative, e la Francia, in particolare,
mise in cantiere un ambizioso programma per la costruzione di centrali
nucleari.
Cominciò allora un dibattito, nel corso del quale lOccidente
parlò soprattutto di se stesso e si occupò poco di
un altro problema al quale avrebbe dovuto dedicare maggiore attenzione.
Laumento del prezzo del petrolio ci avrebbe reso più
poveri, ma avrebbe enormemente arricchito i Paesi fornitori. Che
uso avrebbero fatto delle loro nuove straordinarie ricchezze? Oggi
sappiamo che i petrodollari furono investiti principalmente in acquisto
di armi e in operazioni immobiliari o finanziarie, ma anche per
finalità religiose. LArabia Saudita, per esempio, ha
ritenuto di dover giustificare il proprio ruolo di fornitore dellOccidente
finanziando la fornitura di scuole islamiche dalle quali sono usciti
negli anni seguenti i quadri dei movimenti islamici, soprattutto
in Afghanistan e in Pakistan, e la costruzione di moschee grandiose
sia in territori musulmani che nel campo degli infedeli,
Roma inclusa. Prima di essere colti nuovamente di sorpresa, dovremmo
chiederci quale uso i Paesi fornitori faranno delle loro nuove ricchezze.
I Paesi più piccoli e meno assillati dal problema del proprio
sviluppo stanno facendo acquisti di partecipazioni importanti sulle
maggiori Borse del mondo. Qualche esempio: dopo avere inutilmente
tentato lacquisto della società che gestisce alcuni
fra i maggiori porti degli Stati Uniti, Dubai ha comperato il 20
per cento del Nasdaq, il 28 per cento del London Stock Exchange
e un glorioso transatlantico britannico (Queen Elizabeth II), destinandolo
a diventare un albergo sulle coste del Golfo Persico.
Un fondo sovrano dello stesso Paese ha acquistato il 3,1 per cento
dellEads, il costruttore di Airbus. Il Qatar ha rilevato un
altro 20 per cento della Borsa inglese. LArabia Saudita compra
armi e realizza importanti operazioni finanziarie, ma sembra decisa
a fare investimenti considerevoli nelle infrastrutture necessarie
alleconomia nazionale. Ancora più interessante è
forse il fatto che gli Stati del petrolio facciano acquisti in altri
Paesi del Vicino e Medio Oriente, e che parte della ricchezza sia
destinata a restare nella stessa regione.
Ma anche i ricchi hanno i loro grattacapi. I Paesi produttori, infatti,
osservano con occhio preoccupato landamento del mercato. Debbono
spendere 130 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni per essere
in grado di produrre 5 milioni di barili di greggio al giorno in
più (Cina e India, insieme con altri Paesi in forte sviluppo,
sono affamate di materie energetiche). Incassano dollari in un momento
in cui la moneta americana si deprezza, e gli aumenti del costo
del barile non solo non compensano sempre le scivolate del dollaro,
ma inducono i Paesi consumatori a ridurre le importazioni di greggio
e ad imporre al proprio interno politiche di austerità. Constatano
che lo stesso aumento del prezzo del greggio ha risvegliato linteresse
per le energie alternative. E si chiedono quali effetti questi fattori
avranno sulla futura domanda di petrolio.
Nulla di nuovo. Il caro-greggio suscita sempre reazioni che finiscono
per provocare, prima o poi, un fenomeno di segno opposto. Secondo
alcuni osservatori, occorrerebbe aiutare i produttori a sviluppare
altri settori economici. E non hanno torto. Esiste una tirannia
del petrolio che pesa, al tempo stesso, anche se in forma diversa,
su produttori e consumatori. Il petrolio rimarrà ancora con
noi per molti anni, ma abbiamo tutti interesse a renderlo meno fonte
di dittatura energetica.
Paesi produttori di petrolio e grandi nazioni stataliste sono dunque
a caccia di prede, approfittando degli eccessi e delle bolle speculative
che da tempo caratterizzano Stati Uniti e Gran Bretagna. Sarebbe
opportuno meditare con maggiore attenzione anche sugli acquisti
della Cina, ma pure della Russia e del Giappone, di Treasury
bills (Bot americani) e valutare con minore leggerezza le
incursioni di Dubai e Qatar, di cui abbiamo detto appena sopra.
La penetrazione di società dipendenti da governi esteri in
gangli rilevanti delleconomia anglosassone non è cosa
di poco conto: potrebbe influenzare e distorcere i mercati internazionali
e le politiche di quei Paesi e dei loro alleati.
Abbiamo ricordato lacquisto di una quota Nasdaq da parte della
Borsa di Dubai e quello di una quota London Stock Exchange da parte
della Qatar Investment Authority. Ebbene, il London Stock Exchange,
che si fonde con il listino italiano, ha un rilievo internazionale
notevole, nonostante il valore residuale delleconomia britannica
e della sterlina, e potrebbe essere controllato da società
dipendenti da Stati arabi. Questi, insieme al Nasdaq sconfitto a
Londra, sono allattacco delle Borse scandinave. Si tratta,
forse, di investimenti solo finanziari, ma resta un legittimo sospetto,
visto che i prezzi pagati sono realisticamente eccessivi e fuori
mercato.
La Cina ha investito circa 1.500 miliardi di dollari nel debito
pubblico statunitense, e soltanto nel 2007 si è assicurata
oltre 600 miliardi di Treasury bills, con una crescita esponenziale,
senza dubbio allarmante. I cinesi tengono in piedi la politica economico-monetaria
americana, che viaggia sul ciglio del burrone, abusando di droghe
e trascurando i fondamentali. La decisione del presidente della
Federal Reserve di ridurre i tassi ha provocato la caduta del dollaro
su tutte le valute mondiali, non su quella cinese. Almeno per ora,
Pechino difende i suoi investimenti, per garantire vantaggi commerciali
spesso indebiti alle sue merci, distorcendo la concorrenza; ma cè
da chiedersi che cosa potrebbe accadere qualora approfittassero
dellarma potente di cui dispongono, per imporre pretese e
ambizioni di grande portata. Non sempre è agevole usare la
forza delle armi per contrastare le armi della finanza, come sanno
bene gli anglosassoni.
In conclusione: gli investimenti sul listino inglese di Dubai e
Qatar, forse non convergenti, hanno risvolti geopolitici meno inquietanti,
per quanto siano indicativi di una tendenza da non sottovalutare:
alcuni Paesi dellOccidente capitalistico spendono molto più
di quanto producono, non risparmiano e inducono i loro cittadini
a vivere come cicale dissipatrici, confidando con avventatezza sulla
bontà di formiche straniere che li foraggiano con i loro
risparmi. Le formiche si faranno sempre beffe di cicale che cantano
lestate incuranti dellinverno, come ci hanno insegnato
Esopo e Jean de la Fontaine. Imprese cinesi, russe, arabe agiscono
sul mercato, ma non sempre rispettano le regole, e possono essere
indotte a rispettarle come variabile dipendente dalle strategie
politiche (o addirittura religioso-politiche) dei loro Stati.
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