Latto daccusa del Sud è storia,
è narrativa,
è poesia, è diritto negato, è protesta inascoltata,
è voce nel deserto.
Poi, silenzio.
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«Il più sublime lavoro della poesia è alle
cose insensate dare senso e passione». Così, il Vico.
E in realtà hanno senso e passione i versi dedicati alla
terra natia, i sentimenti suscitati dalla visione di un orizzonte
o dal ricordo di un paesaggio, come la trascrizione realistica di
una condizione umana, oppure lispirazione determinata da uno
stato danimo, da un moto del cuore, da un presentimento, da
un sommovimento di pensieri, da unagitazione intima di emozioni,
di sensazioni, di fantasie, di slanci o di paure. Ma certamente,
almeno per quel che riguarda la poesia creata nel continente Sud
e nelle grandi Isole, che del Sud antropologicamente, culturalmente
fanno parte, sono il paesaggio e la rappresentazione di sé,
del contesto antropico, della rivendicazione della libertà
e dignità, dellaffrancamento da una storia più
tragica che grande a dare nerbo, consistenza e valore profetico
ad una poesia altrimenti immiserita da romantici afflati e ridondanti
svolazzi.
Poesia / è il mondo lumanità / la propria vita
/ fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante
fermento
, scrive Ungaretti. E Mario Luzi riecheggia: Cè
sempre qualcosa che rimane inespresso. La poesia è imprendibile.
Tutto sommato è la vita al suo più alto grado di partecipazione
intima. Mentre DAnnunzio sembra suggerirci che la natura,
che era specchio degli stati danimo delluomo, diventa
la materia da cui trarre infiniti echi visivi, uditivi e olfattivi.
Dunque: è la forma del messaggio, il modo in cui le cose
sono dette, a determinare lunicità di un testo poetico;
esso acquista un significato proprio grazie a una scelta di temi
e a una combinazione molto attenta, originale, e polisemica, delle
parole e delle immagini espressive. Con una caratteristica in più,
per quel che riguarda la poesia del Sud e delle Isole: mentre chi
legge la poesia di altre latitudini è chiamato in genere
a cooperare alla costruzione dei significati del testo, per quella
del continente meridionale e insulare la cosiddetta ambiguità,
propria del messaggio poetico, non soltanto evoca e allude, (proprio
in quanto ambiguità), ma dichiara e spiega, lasciando poco
spazio allimmaginazione e allinterpretazione.
Soprattutto per queste ragioni, di uno stesso autore, il siciliano
Mario Gori, abbiamo lautoritratto che coniuga contemporaneamente
dato biografico e fantasia significante: Io sono un saraceno di
Sicilia / da secoli scontento, / un antico ramingo che ha pace /
solo se va. // Ma il cielo è alto, / è altissimo /
e la mano delluomo non arriva / a rubare una stella. // Così
/ vado in cerca dun fiore / da appuntarmi sul cuore; e le
immagini impietose del mondo che lo circonda, del paesaggio sociale
che condiziona il destino delluomo: Nera miseria cova nei
catoi, / tossiscono bestie e fanciulli, / fave cotte quando si hanno,
/ cicoria amara e cardi senza pane. / Linverno è una
sentenza di dolore. // Lasino morto tutto pelle ed ossa, /
la tramontana che passa la porta / e non bastano i sacchi di concime
/ e le vecchie bisacce / a scaldarci le ossa trapanate. / E la luce
ci tagliano, / ci tagliano anche lacqua / e ci svendono allasta
il canterano. / Non contano più niente / i santi protettori
/ e il ferro di cavallo sulla porta / e le croci di palma benedetta,
/ non cè misericordia, / ci tolgono anche i chiodi
dalle mura. // E le madri son come coniglie, / coniglie nere sepolte
dai lutti / e i padri se ne stanno sulla piazza / a guardare la
pioggia maledetta / che gonfia le fiumare / e dieci son le bocche
da sfamare / dieci paia di scarpe sono un occhio...
Se la Calabria di Repaci era grande e amara, che cosè
la Sicilia di Giuseppe Longo? ...È ginestra, / è marzapane,
/ limone, lupara, / pane sudato, / tentazione. / È fuoco
/ e gelo dodio. / È questo sangue / questa fredda mente.
/ La Sicilia è mare, / pianura arsa, montagna, / roccia,
tepore / dentro le mani, / sapore di menta, / gentile carezza damore,
/ partenza, estraneità. / La Sicilia è la riva / ultima
/ dove approdano / levigate carcasse, / gusci, conchiglie / vaghe
forme di morte.
Certo, è terra che non dà tregua, che insegue e richiama
al nostos, al ritorno, al viaggio a ritroso, allostinato itinerario
senofonteo. Scrive Maria Luisa Spaziani: Lo vedi come lisola
si torce / nei suoi venti stasera, con che furia / tende a disancorarsi
dalle boe / profonde del terziario, come anela / al volo sparso
delle sue cortecce / e foglie e sabbie nei vortici caldi? / Venga
a sentire questa sarabanda / chi la sua patria cerca, che una legge
/ invoca del suo esistere, chi crede / alle dighe, ai bastioni,
alle colate / ferrigne di cemento, e cieco ignora / che siamo
antichi pellegrini in marcia / verso un santuario, verso una sorgente,
/ verso una valle dolce per fondarvi / la cittadella del tuo sogno,
// quella // che compirà a sua volta la parabola / dal nulla
allo splendore, e poi tinsinua / quella furia sottile, inestinguibile
/ di ritornare pellegrino. E ancora: Un giorno forse queste mie
parole / torneranno dal mare che le vide / fresche Veneri nascere
nellora / di quei lampioni, pallide meduse, / che tremano
con occhi di viola / lungo i sentieri di Cariddi. Al piede / delle
mimose gracili già leva / la testa corazzata la famiglia
/ dellortica invincibile. Raccogli / come conchiglie fragili
alla riva / come felici quadrifogli i suoni / che ti vado dicendo,
note scisse / da una musica lunga che nel mondo / non trova pentagramma
che la regga / nei suoi voli leggeri. E infine, di questa incantevole
poetessa, alcuni versi dedicati alla memoria di Lucio Piccolo: La
landa silenziosa dove il rantolo / lungo del mare e il vento a primavera
/ tessono un dolce gregoriano, rompe / tra i giardini daranci
a notte un lugubre / latrar di cani, cuori alla catena, / voci delle
dimore abbandonate / che invocano un padrone, che lagguato
/ rendono vivo nella fonda tenebra. / Corde spezzate, lèmuri,
coscienza / vigile della notte, i cani, in orde / fameliche, vagavano
nel tempo, / signori e subalterni duna legge / che fu soltanto
loro quando il mondo / conobbe incontrastato sotto il sole / limpero
della rosa. // Latra anche tu contro la vita breve, / contro quel
vento che cancella i versi / incisi, crocefissi nella neve.

Come il lutto ad Elettra, la morte si addice allantropologia
culturale dellisola? Scrive Salvatore Quasimodo: La mia terra
è sui fiumi stretta al mare, / non altro luogo ha voce così
lenta / dove i miei piedi vagano / tra giunchi pesanti di lumache.
/ Certo è autunno: nel vento a brani / le morte chitarre
sollevano le corde / su la bocca nera e una mano agita le dita /
di fuoco. // Nello specchio della luna / si pettinano fanciulle
col petto darance
// Chi piange? Io no, credimi: sui
fiumi / corrono esasperati schiocchi duna frusta, / i cavalli
cupi, i lampi di zolfo. / Io no, la mia razza ha coltelli / che
ardono e lune e ferite che bruciano.
Emerge, a tratti, unatmosfera idillica, e riecheggia una
stupefacente serenità di pensieri, come in unora sospesa,
come in una tregua concessa da dèi amicali. Scrive Giuseppe
Villaroel: Aria della mia terra, coi suoi miraggi lunari / quando
i campanili vegliano sopra il gregge dei tetti / e le strade costeggiano,
coi bianchi parapetti, / i precipizi dei torrenti e i boschi secolari.
/ Aria della mia terra, ove fiorisce il melo, / fra le sabbie del
vulcano e le oscure pietraie, / quando saprono dai sentieri
negli abissi le baie / ove lacque immutate hanno specchi di
cielo
// Voci e volti della casa: le parole tranquille / che
riecheggiano gli anni dalle stesse finestre. / Cè uno
sguardo materno, un respiro silvestre / dietro il chiuso delle ortaglie
e le siepi delle ville. / Quando giunge il mendicante nei portoni
scoperti / le fanciulle, affacciate su quel canto di dolore, / sospirano
tramortite dietro un sogno damore / che arriva, con la sera,
dai lontani deserti. / Aria della mia terra, ogni pietra è
fibra di cuore / e la strada è il cortile comune del paese.
/ Stanno in crocchio gli abitanti sui gradini delle chiese / e si
nasce quasi insieme ed insieme si muore.
Mentre Ippolito Pindemonte ha uno scrigno di immagini omeriche,
che ci porge con un linguaggio poetico nobilmente antico: ...Il
mar Sicano / solcai non una volta, e a quando a quando / con piè
legger dalla mia fida barca / mi lanciava in quellisola, ove
Ulisse / trovò i Ciclopi, io donne oneste e belle. // Cose
ammirande io colà vidi: un monte, / che fuma ognor, talora
arde, e i macigni / tra i globi delle fiamme al cielo avventa; /
templi che vider cento volte e cento / riarder lEtna spaventoso,
e ancora / pugnan con gli anni, e tra larena e lerba
/ sorgon maestri ancor dellarte antica...
E subito torna la voce del cireneo, del Gori che deve farsi carico
della croce di tanti, di troppi altri, per una sorte fatalmente
perdente, senza che nemmeno sia stata tirata ai dadi: ...A questora
son tombe al mio paese / le case e il vento dondola ai crocicchi
/ le lampade, la piazza è già deserta / ed i santi
di pietra son rimasti / umiliati in penombra. I carrettieri / vanno
tramando amori e gelosie / con le nenie covate nella gola / e giù
nella campagna tra i canneti / i cani sospettosi urlano al giallo
/ cerchio di luna se nellaria cupa / va delirando un fischio
disperato. / Come un ramingo sono andato via / con la lagrima grossa
del rimpianto / alle strade che amai, alle finestre / dove appesi
i bei sogni dei ventanni, / un garofano rosso, una canzone...
Chi non parla più la propria lingua è destinato a
restare senza identità? Non proprio, sembra rispondere Andrea
Genovese, messinese emigrato in quel di Lione. Semmai, acuisce i
paradigmi della memoria (della nostalgia) per la terra natale: Limpeto
dellalga / non dà del pesce Cola / unidea marittima
ben chiara / sembra Messina una remota / bruma di colline calve.
// Appena un anno santo mi separa / dallultimo scirocco menzognero.
E quasi nella struttura metrica di folgoranti haiku:
Un fiore / su quel petto ondoso // poi lo scompiglio del vento /
la musica di morte / della tonnara. Oppure: Forcuti dèi /
della mattanza ribollente // e noi allincrocio / del loro
scontro feroce / del loro dilemma insoluto. O infine: Angurie insabbiate
/ vecchi pescatori / sorpresi nel fossile sonno // che non regge
allurto di Cariddi / e al leggendario guado. Mentre Giovanni
Alfredo Cesareo dipinge di madreperla la messena Zancle percorsa
dal canto del chiù: Le cime impallidiscono: / langue la luna
stanca / nel cielo solitario / che da levante, verso il golfo, sbianca.
E Luigi Fiorentino, scendendo più a sud, ritrae la piana
catanese come in una sequenza impressionistica, veloce alla partenza,
poi in vischioso rallentamento al culmine del componimento, quando
le immagini cedono il passo alle note ondulari che quasi fasciano
il paesaggio: Lucide arance della Conca dOro / tra cielo e
mare, e luccichio dalloro. // Fuggono / campi di grano ai
margini dulivi, / crune di campanili / e cupole moresche alte
nel sole. // (Albica vele, intorno, il mar di Scilla; sembra la
terra supplichi Aretusa). // Colà, le donne han gli occhi
di giaietto, / e il sangue avvampa / nei miti venti che sui colli
strisciano
// Narcisi, i mandorli nei fiumi / creano sogni
bianchi / e a spigolo di strada, / a mezzo dagavi e vigne,
/ stride lento il carretto / già che tra sparsi templi, /
figlia del sole, la locusta grilla. / Tutta la terra è musica
che vive.

Epipoli-Neapolis-Tiche-Acradina-Ortigia: le cinque Siracuse federate
in una sola Siracusa sotto tiranni e geniali pensatori. Si parla
di Catania, vertice della Conca, e si celebrano i fasti del Barocco.
Si parla di Siracusa, e si cede il passo alla memoria delle grandi
migrazioni del VII-VI secolo prima di Cristo, quelle che diedero
linfa vitale alle civiltà di Magna Grecia, da una parte,
e della Sicilia dallaltra. Non sa (o non vuole, o non può)
sfuggire a questa memoria Lorenzo Giusso: ...Bronzei fragori dagguerrite
spade / evoca un ronzio dapi sulla piana / scabra di sassi,
e il solo che si allontana / sembra lo scudo dun eroe che
cade. // Fra i rottami del forte calcinoso / lazzurro scende
lento a intenerire / due vagabondi sposi forestieri. // Nelle fosse
serbate ai prigionieri / un solitario sogna stabilire / la signoria
di Dioniso radioso.
E quasi di rimando, come in speculare sintonia, Luciano Nicastro:
Sopra i campi di Siracusa, presso le scogliere, / ove, lasciata
la sua bianca voce, / londa che urta si ritrae nel mare, /
con rauco grido salza la cornacchia. // Immensa solitudine!...
Contro il mare e il sole, / il ripetersi continuo di quel volo e
di quel grido. / Teocrito, Archimede, i trionfi, le bighe / spariscono
quali schiume sul duro / esistere; ma della rauca voce, del volo
nero / mai non perdono lorma le scogliere.
Si è quel che sono stati i nostri antenati. I lari domestici,
prima del diritto di Roma, conobbero la cultura dellEllade.
Fortunati popoli per secoli, quelli che poi, nel Sud diventato tragicamente
profondo, caddero come in un precipizio senza uscite
di sicurezza. Fino al momento in cui se ne è presa coscienza:
con la storia chiamata in causa (per la leggenda di Teodorico) nientemeno
che dal Carducci, (Ecco Lipari, la reggia / di Vulcano ardua che
fuma / e tra bòmbiti lampeggia / de lardor che la consuma...);
con la metafora di Quasimodo, (Tindari, mite ti so / fra larghi
colli pensile sullacque / dellisole dolci del dio, /
oggi massali / e ti chini in cuore. // Salgo vertici aerei
precipizi / assorto al vento dei pini...); con le immagini malinconicamente
realistiche di Federico De Maria, (Rovine, non più vive di
canti, di danze, di preci, / dincensi ai piedi dei propizi
numi, // eppure eterne. Tutto è trascorso nel mondo: la gloria
/ di capitani insigni, di Empedocle e Terone; // perfino gli dèi
sono svaniti per sempre. Soltanto / lopera eretta a gara con
Dio resta, sì, rotta // e frantumata, ma tuttora in cospetto
del mare, / baciata dalla luce, carezzata dal vento); o infine con
linvettiva quasimodiana, mossa da motivi che da personali
possono leggersi come universali, come espressi da uninfelice
comunità insidiata dallegoismo di uomini materiali,
(Su la sabbia di Gela colore della paglia / mi stendevo fanciullo
in riva al mare / antico di Grecia con molti sogni nei pugni / stretti
e nel petto. Là Eschilo esule / misurò versi e passi
sconsolati, / in quel golfo arso laquila lo vide, / e fu lultimo
giorno. Uomo del Nord che mi vuoi / minimo o morto per tua pace,
spera: / la madre di mio padre avrà centanni / a nuova
primavera. Spera: chio domani / non giochi col tuo cranio
giallo per le piogge).
Di Quasimodo fu amico Giuseppe Longo, per necessità di mestiere
(oltre che scrittore, fu giornalista, direttore di quotidiani, in
Venezia e poi a Roma) emigrato al di qua dello Stretto. E alla morte
del Premio Nobel, gli dedicò memoria e pensieri sodali, in
un (com)pianto che era allo stesso tempo confessione e denuncia:
E così / anche tu taci, / Quasimodo. / È già
sera
// Affacciati alla balconata / di Tindari mite / guardavamo
fiorire / nellacqua del nostro mare / i regni dellal
di là. / Bastava voltarsi, posare il piede / sullantica
pietra dellanfiteatro / per vedere / nella frastornante luce
/ Roccalumera / lunga e sottile, / la stazioncina del padre / con
le lampade a olio / e Messina / sterminato campo / di baracche di
legno
// Il tuo cuore / era pieno di Sicilia. / Essi non sanno
/ come sia pesante / nel nostro sangue / la memoria, / la storia,
/ la nostra povera storia / di negri senza ghetto, / di negri della
diaspora / diffusi come / un diffuso seme / dappertutto / con il
cuore pieno di Sicilia. / Essi non sanno. / Essi ci invidiano /
il prodigo cuore. / Ci strappano / come fossimo / senza radici...
Ogni grido rimasto senza eco. Forse qualche riverbero, ma esangue,
e poi molti silenzi infastiditi, gli occhi non chiusi, ma rivolti
altrove. Latto daccusa del Sud è storia, è
narrativa, è poesia, è diritto negato, è protesta
inascoltata, è voce nel deserto. Poi, silenzio. Ascoltate
il silenzio, ci disse una ragazza che un giorno ci guidava per Napoli
sotterranea: il buio era totale, il colore annientato, e quel non
vedere ci faceva anche non sentire. Ecco, la metafora del Sud è
questa dellatro muto immoto ventre partenopeo che annienta
corde vocali e pupille.
E forse proprio per questo vogliamo richiamare le parole di chi
fu scrittore, saggista e poeta e testimoniò perché
non fosse dimenticata la condizione di unIsola che pure era
stata matrice di storia e di cultura europee di altissimo livello.
Dico di Donato Moro, che un giorno volle percorrere gli itinerari
siciliani che sempre lo avevano affascinato, lettura dopo lettura,
con le pagine dei classici, dei moderni, dei contemporanei che lì
nacquero, e che da quella terra generosa assorbirono gli umori vitali,
linclinazione al sofisma, laristocratica insularità:
in una parola, la Sicilitudine, metafora delle terre
di un Sud che fra loro confinano per fronteggiarsi. Scrive Moro:
Cane capra mulo scapolare / lisola passa ai margini di strade
solitarie / lasfalto nel crepuscolo non porta unillusione.
/ Aspri orizzonti avvinghiano / le ruote fonde degli scialli neri.
/ La cornacchia è calata dentro il nido / lorgoglio
è rimandato / il silenzio sommerge la paura. / Lento moto
del cielo / greggi di cime e nubi ad occidente / verso Rocca Busambra,
/ fosco mantello / ciclopico pastore al centro della terra / puntigliosa
misura del pane e dellacqua. / Sbanda lala del pipistrello.
// Adesso il telamone ha già finito / il suo giorno di pietra
arroventata / il fedele si umilia alla moschea / il trono è
giustizia del barone / il barone destino del suo servo. / Nellombra
è ormai difficile scoprire / il pianto di ciascuno. / La
risacca ha deposto strati a strati / non li tocca neppure la radice
dellulivo. / Il pescatore con le braccia in croce / le donne
delle terre deflorate / il colono trafitto fra le rocce / sono volti
musivi imprigionati / sugli sfondi delle absidi dorate. / E loro
più non splende nella sera. // Amaro commentare della guida
/ a San Giovanni degli Eremiti / Chi vince ha sempre ragione
di disfare . / A orde gli invasori battevano su ciuffi di
palmizi / con violente libecciate. / Rotolava sul mare londa
fresca / il forestiero si lavava il viso. / Ogni cupola rossa nel
suo cerchio / ogni arancia matura in fondo al pozzo, / alle varie
vicende degli dèi / lo stesso sconsolato sacrificio. / I
vecchi fichidindia immoti, / stirpe desseri incisi / da mille
punte di coltello. / Più duri della selce nella scorza. //
Il vento del deserto non ha canti / la musica è lamento /
ogni porta si chiude sul tramonto. / È lora del governo
delle bestie / del boccone a fatica masticato / dello sguardo fissato
contro il muro./ La speranza è la notte.
Straordinario il fatto che a cantare la Sardegna siano stati non
pochi poeti nati in terre lontane da questa, che è la più
antica terra emersa dellemisfero occidentale. A cominciare
da Quasimodo: Nellora mattutina a luna accesa, / appena affiori,
geme / lacqua celeste
// Graniti sfatti dallaria,
/ acque che il sonno grave matura in sale
// Deserto effimero:
in cuore gioca / il volume dei colli derba giovane; / e la
fraterna aura conforta amore; passando per Biagia Marniti: ...Tu
isola, ove il cuore solitario brucia / e ridi nei tramonti / negli
occhi dei pastori / sul mare che fa onda da Spartivento a Stintino
/ solleva il tuo umano tronco di roccia / il grano da seminare nel
sole di platino / è fatica, è lotta...; per giungere
infine a chi sardo a pieno titolo è, a Sebastiano Satta,
cantore delle genti della sua antica terra: Or i sardi pastori,
allindorarsi / dei cieli, mentre van con tintinnio / dolce
le greggi a ricercar gli sparsi / rivi, levan le fronti e adoran
Dio
// Poi vanno lungo il risonante mare, / fra prati dasfodelo
e per le rupi, / vanno fantasmi dunantica età;
// torbidi e soli nel fatale andare, / il cuore schiavo di pensieri
cupi, / locchio smarrito nellimmensità. E lo
stesso autore, con i medesimi protagonisti, sul monte Ortobene:
Meriggiano le pecore e i pastori. / Elci e felci non fremono a una
stanca / ala di vento; il mare si spalanca / da monte Bardia fino
a Galtelli. // Lombra di un volo e un grido di rapina: / laquila.
Con un dondolio lento / si rimescola il branco sonnolento: / lombra
dilegua in seno al mezzodì; o infine nel cuore fosco dellIsola,
a Orgosolo, dove la legge barbaricina dà nome e sostanza
a una cultura primordiale: La madre cerca il figlioletto ucciso:
/ era una palma, un fiore di narciso! // E aspettandolo, in pianti
saddormenta: / un nembo di vendette fuori venta. // Sognando
cerca tutta la campagna, / la valle il piano il bosco la montagna.
// E cerca e cerca lo ritrova in cielo, / con la mandra, in un campo
dasfodelo. // O mamma, taspettavo e sei venuta:
/ ma come piangi, come sei sparuta! // Oh rimanti con me! Ecco,
è laurora, / e il padre, il padre mio non viene ancora.
// Babbo non viene ancora a queste parti, / è rimasto
laggiù per vendicarti!.
Scabre figure nuragiche, i pastori di Sardegna. Uomini di roccia,
di rudi istinti e di fieri sentimenti anche nelle espressioni più
intime, quale può essere, più dogni altra, una
preghiera. Scrive Tonino Ledda: Puoi udirci, Signore? Non sappiamo
pregare! / Non troviamo parole, leggère come fiori, / quali
Ti salgono dalle labbra dei preti, / e i nostri volti, saldati dalle
pene, / fanno timore, non portano al perdono! / Odoriamo di capra,
di denso concime, / pensiamo solo allerba, al cacio, e alla
lana, / sogniamo lacquavite, balli sui sagrati, / lamore
cantiamo, e imprese di banditi. / Non possiamo elevarti le lodi
delle Chiese, / non possiamo pensare alle cose dei Santi! / Però,
se torni, anche in carestia, / gli agnelli uccidiamo, per farti
la cena: / O Dio del cielo, Ti tendiamo le mani: / Tu non guardarle,
sono tanto scure
/ Siamo pastori, non sappiamo pregare!
E infine Francesco Zedda, il narratore e poeta intriso di aneliti
indipendentisti (espressi in un corposo romanzo, Maracanda, che
è nome immaginario di un reale paese isolano, e ripresi in
un altro testo, più contenuto, Cè unisola
antica), autore fra laltro di un Inno sardo che
riportiamo a coronamento di questo discorso sui luoghi della poesia
(e sulla poesia dei luoghi).
Scrive Zedda: Nel regno derbe e dacque / fui re pastore.
/ Trassi le leggi dalle leggi eterne / delle stagioni. / Nellaccorante
immensità dellonda / di questisola antica / non
ebbi mai altro amico che il fuoco. / I miei pensieri milioni duccelli
/ salutavano il giorno. / Le fontane spaccate nella roccia / dalla
gioia dellacqua, / le selve innamorate / e i venti azzurri
dallala dargento / sanno come felice alla pastura /
andavo col mio gregge in transumanza / dalla mia tanca al piano
/ e dal piano alla riva lungo i fiumi / miei fratelli maggiori.
// Ebbi nellaula fiorita / mio maestro di logica il serpente
// Sulla vetta dei monti che dallalto / tutto vedono e giù
lungo le strade / che tutto sanno edificai i nuraghi / solo con
le mie mani / senza bava di schiavi senza calce / squadrando le
pietre a spirale / posandole luna sullaltra / seguendo
soltanto a modello / la mole perenne del cielo. / Non fortezze di
guerra. / Monumenti di pace e di giustizia. / Guardateli nel sole
dei millenni
// Fuoco e ceneri in secoli dispersi / ma il
rosso fiume della mia memoria / fugge dal Sulcis alla Nurra e a
lungo / narra la storia che non sanno i libri. / Qui nella pergamena
/ della mia pelle è scritta la mia storia. / Leggete sul
mio petto le ferite / della spada dei consoli romani. / Qui sulla
schiena i lividi decreti / della frusta spagnola. / Sui polsi il
punto a fuoco / delle catene ribadite in cella. / Guardate qui sulla
mia pelle gialla / di fame e di malaria le sentenze / dei giudici
sabaudi. / Il sangue bruno delle fucilate: / sigillo dei re. / Da
Lepanto a Custoza / dal Piave ai bianchi fiumi della Russia / per
un pezzo di pane e per un soldo / ho combattuto nelle grandi armate
/ per servire linganno e la follia / dei sacri imperatori
e dei tiranni. / Nelle battaglie a fuoco e a ferro freddo / chi
fu di me più intrepido e feroce? / I vinti vivi e morti ho
depredato
// E i melodiosi secoli che vissi / nel verdissimo
verde delle selve / e delle tanche? E dovè la mia pace
/ con i pensieri milioni duccelli? // Tomba il nuraghe / la
mia tristezza è laquila dei monti. // Sardegna mia!
/ In questora ti sento ancora più mia / mentre dal
Sarrabus alla Romàndia / tu emergi dagli oceani della notte.
/ Il Flumendosa è un velo dacqua casta / sopra il tuo
grembo di vulcano spento. / Dallo stupore antelucano al sole / si
solleva il Carrasì con la mole / delle rosate rocce. / E
le querce e gli ulivi non più neri / non verdi ancora grondano
di luce. // Dal Logudoro alla Marmilla agnelli / vanno pascendo
sul tuo seno derba
/ Nel Gocèano il cielo è
così dolce / che lo tocco e lo sento nelle dita / come un
mandorlo in fiore. // Sotto i monti corruschi del Sulcis / ogni
dì più profondo ritorco / le mie mani radici di foreste
/ carbonizzate con il fior di sangue
// In tanto duolo metto
allardua fronte / del Gennargentu le bende di lutto. / Mattendo
solo la pace dei giusti. / E coi giusti combatto. Certo un giorno
/ davanti al mar di Cagliari mudranno / salutar la mia patria
/ con me rinata libera e felice / fatta sovrana con la sua bandiera.
Possiamo dire, in conclusione, che non ci sia luogo della Penisola
che non abbia ispirato un poeta, e al quale non sia stata consacrata
una poesia, come dimostra questa sommaria rassegna. Identificare
di volta in volta i luoghi e raccordarli ai versi che sono stati
loro dedicati è un modo di arricchire le proprie conoscenze,
di affinare la propria cultura, di prendere atto che la civiltà
di una terra risuona anche attraverso i canti composti dai poeti.
Questo, quantomeno, è stato lintento che ha impegnato
lindagine sulla Geopoesia. Questi i fini proposti.
Compreso quello della scoperta, o della riscoperta, della nostra
poesia. Perché, come ha scritto Dylan Thomas, una bella poesia
è un contributo alla realtà: il mondo non è
più lo stesso dopo che gli si sono aggiunti dei bei versi.
E, dal canto loro, gli uomini anelano alla poesia, anche se non
lo confessano: vogliono che la gioia sia aggraziata e che il dolore
sia augusto, desiderano che linfinito abbia una forma. E sanno
bene che la poesia non tollera ipotesi, ma soltanto levidenza
dei miracoli.
(6 - Fine. Le precedenti puntate
in Apulia, nn. I, II, III, IV/2007 e I/2008)
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