|
|
Il luogo delle storie
Non bisogna esserci nato in questi luoghi. Non bisogna sentire
il mito nellaria che respiri. Non bisogna avere i destini
impastati con la storia. Non bisogna avere rimpianti, né
memoria, né passioni vecchie e nuove. Non bisogna conoscere
strade e direzioni, né sapersi muovere tra i vichi ad occhi
chiusi, né avere occhi abituati al vorticare della luce,
né un pensiero capace di confrontarsi con le ombre, con le
visioni che partorisce la controra.
Non bisogna aver appreso a sentirsi parte dinfinito guardando
il mare dallo strapiombo di una torre, né pensare a se stesso
come a una delle innumerevoli voci di un racconto, di uno di quei
racconti che frastornano la luna.
Non bisogna
Non sai, leggendo questa pagina o sentendola leggere, se in essa
vi sia un amichevole consiglio o un avvertimento minaccioso. È,
certamente, unintimazione.
Tu, lettore, senti che lautore dice a te, benché si
esprima in modo, si direbbe, impersonale. Se sei del luogo, sei
destinato a non capire questa terra nella quale hai aperto gli occhi,
respirato laria e la luce, imparato a muovere i piedi dai
primi passi a un camminare con speditezza e franchezza.
Non bisogna
Lintimazione suona insistente. O non è proprio unintimazione:
se mai, la registrazione duno stato infelice, duna condizione
che timpedisce di capire questo luogo. Perché questo
luogo, designato come spalto terminale duna mitica fortezza,
«non esiste».
Come si fa a capire questo? Lo può capire, ti si dice, solo
chi lo guardi dallesterno: un osservatore estraneo, non compromesso
con il semplice fatto dessere qui e di vivere qui, ma libero
dallincantesimo nel quale qui si vive. Laveva detto
Bodini, vero? «Vivamo in un incantesimo / tra palazzi di tufo,
/ in una grande pianura. / Sulle rive del nulla / mostriamo le caverne
di noi stessi
».
Si potrebbe andare a ruota libera, preso lavvio da questa
considerazione, accettando di perdersi con lautore del libro
di cui parliamo (Antonio Errico, Viaggio a Finibusterrae. Il Salento
fra passioni e confini, Manni, 2008); perdersi nei meandri di un
racconto che ambiguamente afferma e nega se stesso; oppure tenersi
fuori dal potere suggestivo di una pagina sempre sapientemente costruita
(direi, se mai, talvolta fin troppo costruita) e mettersi nella
condizione, parlando del libro, di colui che può capire ciò
che cè (o ciò che è) qui solo perché
assume veste e modi di disincantato osservatore. Ma al disincantato
osservatore quanto non sarebbe precluso?
Un libro del genere richiede unadesione che un osservatore
(un critico?) non può, certo non deve, permettersi. Si può
entrare nel gioco di Errico ed ammirarlo, ma occorre anche difendersene
per non restare intrappolati nel suo particolare punto di vista,
o nella spirale della sua musica ipnotizzatrice. Questo vuol forse
dire che si tratta di un libro che mira ad ingannarci? La risposta
è: no.

Ma il punto di vista di chi ci parla da quelle pagine è
tutto interno al racconto e alla sua linea apparentemente flessibile,
realmente rigida. Finibusterrae è un non luogo, è
semplicemente un indice che si sposta di continuo: ti delude quando
credi daverlo raggiunto. Inafferrabile, chimerico. Suggestivo:
questo, sì; molto suggestivo. Ma per accettarlo devi accettare
che la vita la vita comune, la vita degli uomini, sia in
un certo senso tagliata fuori, recisa, rescissa, azzerata, dimenticata
Diciamo, allora, che Finibusterrae è un luogo mentale, un
territorio dellimmaginazione. O, più di questo, un
luogo della parola che serve a costruire quellimmaginazione.
La materia di cui è fatto questo luogo è, diremmo
con Shakespeare, della sostanza dei nostri sogni. Miraggio, illusione,
gioco di fata morgana su un mare di memoria e di morte sulle cui
acque sembra che non navi o altri natanti savventurino ma
solo imbarcazioni mitiche, zattere che trascinano fantasmi
Del silenzio. Della luce. Della malinconia. Così sintitola
la prima delle prose del libro. Silenzio e luce sono riferimenti
immateriali: la malinconia ne è lanima. Il silenzio
è quello di una storia bloccata in un episodio, lassedio
e leccidio di Otranto nel 1480; la luce non è quella
gioiosa di cui godiamo anche in stagioni in altri luoghi non propizie,
ma è una luce di scena, innaturale: ingannevole come una
vita corrosa dalla sua stessa pienezza.
E i luoghi di questa luce.
È a Santa Cesarea che è delegato il ruolo di rappresentare
la malinconia: «Santa Cesarea è triste se non hai un
amore». Malinconia che rischia di sciogliersi in una facile
aria da canzonetta. Un po come
«Comè
triste Venezia / soltanto un anno dopo
/ se non sama
più»: triste nella memoria! Ma Santa Cesarea è
un luogo nobilitato, nella pagina di Errico, da una raffinata allusione
letteraria: un frammento del Montale di Dora Markus là dove
l«ansietà di un oriente fiabesco» richiama
un passo tenero e vivo: «E qui dove unantica vita /
si screzia in una dolce / ansietà doriente
».
Finibusterrae è un luogo di storie. Anzi, per chi ci vive,
per chi la cerca attratto dal suo oscuro fascino, un viluppo di
storie da ritessere, di continuo, le stesse, immobili, bloccate
per sempre nella loro fissità, in una memoria si direbbe
devitalizzata, o impietrita.
Eppure
è proprio da quella memoria impietrita che la
pagina spicca il volo, vincendo una certa inerzia della ripetizione
retorica, del gioco un po troppo scoperto, o dellabuso,
dellastuzia stilistica: basti lossessivo cadenzare la
pagina di anafore a cascata, rosario di parole sul filo di rasoio
di una inespressiva monotonia. La fissità della cosa raccontata
diventa la materia in movimento che anima la pagina, la muove, la
agita, la accende di toni vivi, la gioca in una partita nella quale
convenzionale e ricercato convivono armoniosamente e là dove
credi che stia per crearsi una dissonanza, larmonia si ricompone
ancor prima che due suoni cozzino o stridano emessi insieme.
Che cosa racconta il libro di Errico, questo Viaggio a Finibusterrae?
Racconta il raccontare, perché altra materia non cè
che questa: il piacere del racconto o, anche, la necessità
del racconto là dove altro bene non è possibile se
non quello del raccontare. I luoghi non esistono come luoghi reali.
O, se ai luoghi reali legati a certi nomi si fa riferimento, si
registra una decisa separazione tra il nome fortemente evocativo
e la realtà piatta di una quotidianità priva di qualsiasi
attrattiva. Lo si legge nella prosa intitolata Le parole del confine:
Allora Finibusterrae può essere nostalgia anche di cose che
non sono mai state, un luogo generato dal pensiero, la fantasticheria
di una controra, una sensazione di estraneità alla storia
e di appartenenza alla condizione del mito, può essere soltanto
uninvenzione letteraria realizzata attraverso un processo
di trasfigurazione.
Insomma: «Finibusterrae è la residenza della scrittura».
Di una scrittura che ci conduce in un labirinto dal quale non si
vuole uscire. Seguiamo percorsi obliqui, cediamo al fascino di una
sirena che versa nel nostro orecchio il più dolce miele delle
sue canzoni. Ma cè, e domina, una nota dolorosa, perché
ciò di cui si parla è qualcosa che abbiamo perduto.
Ciò di cui si parla è invaso da un sentimento delladdio:
il luogo di transito, il territorio di confine, tutto ciò
che è o appare mobile e incerto entra nel dominio
dellambiguo e del probabile, nel territorio del forse, di
ciò che è, o non è, o potrebbe essere
Non vè certezza neanche del domani, del momento presente,
di un bene posseduto
Questo provoca un movimento di difesa, una chiusura, un muro innalzato
contro lesterno e lestraneo. Si legga, a p. 64:
Lungo i confini di Finibusterrae si alza un diaframma che la separa
e la difende dalle contaminazioni esterne, dalle corrosioni dei
mutamenti prodotti da miti stagionali e intrugli folcloristici
Ma lalzare un muro, interporre un diaframma, non vuol dire
tentare di tener fuori da un mondo presunto innocente la vita vera,
quella compromessa di continuo con le asprezze della realtà
e che non ha un riparo dietro il quale confinare ciò che
non saccorda alla sua purezza? Una domanda da lettore ingenuo!
Molti aspetti questo libro tende a illuminare con la sua luce particolare,
o solo a proporre. Unultima cosa si può annotare qui:
Viaggio a Finibusterrae è una sorta di Libro dei morti poiché
nel brano finale evoca le figure di alcuni scrittori di questa terra
che non è: Antonio Verri, Salvatore Toma, Claudia Ruggeri,
e De Donno, Bodini, Pagano, Fiore, DAndrea
E Comi
E Donato Moro. Ritratti. Piccoli miti destinati a rafforzare le
linee di quei ritratti, o a svanire.
Non si prende congedo da questo libro di Errico senza averne ripensate
le pagine ariose o quelle gravate da un certo rovello intellettualistico
che sembra incepparne a tratti la libera espressione. Preferiamo
le prime, e con una di esse vogliamo salutare questo nuovo libro
di Antonio Errico che potrà piacere o non piacere, ma non
lasciare indifferenti. Si parla delle chiese di Gallipoli:
Una dopo laltra. Una accanto allaltra. Come creature
di pietra che aprono le braccia per difendere qualcosa, per tenere
al riparo qualcuno da unincognita, da una minaccia incombente
o remota di tempesta.
Una dopo laltra. Una accanto allaltra. Come per fermare
il vento, o almeno distoglierlo, disorientarlo ingannarlo, domarlo,
aggiogarlo, come per farlo sfrenare lungo i bastioni, fino a sfiancarsi,
a dissolversi, senza entrare rapinoso nei vichi, senza
rovesciarsi bucaniere della natura sul mare.
Una dopo laltra, accanto allaltra: a volte pitturate
con i colori delle chiese di una fiaba; con le facciate rivolte
allinfinito, intrise della salsedine di secoli.
Una dopo laltra, accanto allaltra, proteggono la città
dalla paura di una rovina, dallincubo della marea che può
sommergere, dallangoscia per la furia irrefrenabile che a
volte può diventare il mare.
Poi guardano nella lontananza. Per accompagnare chi è in
mare, per sorvegliare il suo viaggio, il suo tempo dellincertezza,
il suo bisogno della terraferma.
Forse dal mare sintravedono. Forse sono solo una curva di
luce nel tramonto. Ma quella curva di luce basta come promessa di
pace, di ritorno.
Quella «curva di luce» è anche un segno forte
della scrittura di questo Viaggio a Finibusterrae.
luigi scorrano
1.
Non cè linea divisa tra il cielo e la terra.
A volte un angelo resta impigliato
sui portali a mezzaria
in pietra farina
o per soglie tiene il tempo
che passa. Non ti crede più di qualcuno,
altri ti tarpano lali per astio
di chi sulla terra fa voli diversi.
Per negarti il cielo non basta.
Il dio del sud
pierluigi mele
Il dio del sud guarda gli angeli
e dice: ho un passato non facile
neanche divino, lo accetto
come i figli che servo.
Li vorrebbe uguali come animali
meglio se uccelli capre la serpe.
Ha denti di sega, scarne mascelle
per colonia usa finocchio,
non è il dio di pianure irrigate.
Lo capisci da come congiunge le mani
fra i tronchi di secoli
i rami. Imbocca lostia del sole
aspettando il suo turno
col vino moro velluto.
Spesso lo si vede giocare a tressette
o tentare quel rebus:
verrà neve questanno o i turchi di nuovo.
Non dirige il destino ed è un privilegio
essere uomo per primo.
Sa di avere ricordi
e li ripara da un rogo,
àncora il cuore
e li imbottiglia nel vento.
Sono volti slavati
amori di ieri miti dispersi
cosette ma è tutto,
come pure il terrore
verso chi è assunto a tradire,
i funzionari col cristo alle spalle.
Sono soddisfazioni anche le croci.

2.
Come ulivo potrei dire molto di lui
ne so tanto oramai.
Ma le definizioni le lascio
a chi scarabocchia finzioni
e ne muore.
A chi mi vive mi scuote
sono attento do ombra.
Ho da lavorare il giorno
che viene e la notte.
Come ulivo non gemo,
sono cose che riguardano voi
la bellezza e il rancore.
A sradicarmi basta quel vento
che non maledico,
frusciano altri miei pari.
Di lui posso dire
io non lo vedo, è in me
nei tralci nei frutti
nel sangue ai miei piedi,
la terra, rossa perché incinta di pena
sbronza o lunare, non so,
sono cose che vi riguardano
il tempo e la morte.
Ho il mio da fare
per mare per zolle
coi ratti le volpi e quei nani
dai nomi che sembrano dolci,
forzieri, avete tutte le balle
ed il vero a disposizione.
Non chiedetemi ora.
Fidatevi del succo chè mio
che lascio nel segno di lui.
3.
Pure succede che una pecora nera
si guadagni il volo per farsi santo
e cadere. Non solo angeli,
giullari stanno a mezzaria e poeti.
Questo dio è in chi fugge, in chi viene.
E chi lo bestemmia, lo fa per pregarlo
due volte. Pecca chi non lo sente,
e chi non lo teme lo uccide.
Nelle notti darsura è il mare che sana.
Ma solo destate.
Il dio del sud non ama il mare,
lo vive distante come chi
ne ha paura fa con i cani.
Predilige le cave i gelsi la vite
la ferrovia lenta assonnata
i trappeti le volte e le corti
dove si gioca a restare antichi.
Ma si è adattato allasfalto di moda.
Per chiamarlo, ciascuno ha il suo lessico
povero vivo. Finali
doppie tra i denti e la gola.
E cè una lingua di supplica
a salutare partenze e ritorni.
Pier Paolo era là per saperne
nel 75, a due passi da Ostia.
Lingua per nove natali
nove pasque le strofe
nove mele daddio
nove veli la sorte
nove letti la luna
nove orci di fichi
nove mandorle in dote
nove anelli di pane
nove gonne sfilate
lega unalfa i capelli.
Qui dio ha la voce di tutti
e se la perdi risponde
sono nel mezzo, tra il tuo nome ed il mio.
4.
Siamo cresciuti, oh se siamo cresciuti.
I capelli un palmo di brina
la bocca una casa divelta
ma la voce, la tua voce è limpida ancora
dà il fuoco e la forza.
Sospiro il tuo nome
e mi scaldo con quello.
Noi ci parliamo
nessuno ci vede,
è bianco lorto in cui ti sento fiorire
più alto più sano di ieri.
Ma le preghiere spedite tornano indietro
e mi tocca parlare più forte
perché tu mi risponda.
A dire il vero la tua voce è una nube
oscura alle volte scompare.
E i miei occhi non sanno più se cercarti
o lasciarsi dormire.
5.
Lho visto commuoversi
per una madre che invecchia
e non era il tempo a mancarle
ma le parole per dirlo, dire tutto
lamore versato a invecchiare col figlio.
Per una bestia colpita
spezza il cuore ugualmente.
Sembra così vendicarsi
nello scemo di piazza,
la luce che brucia terra
miraggi, e scirocco
chè un modo di battezzare chi vive.
Poi tace, succede linverno.
Ha lo sguardo alla strada,
primavera è lontana.
La ricordano appena ragazze
imbronciate ai diari.
Ciondola goffo pierrot,
ogni passo è una lacrima nera
più larga profonda,
ecco la notte.
Qualcuno scalcia bottiglie
e ancora si beve. Roca
una compagnia, morde il buio, deride.
Qui è la città senza voli
Lecce che si guarda lombellico
in galleria. Un tenore
quisquilia, alla città piace
ninnare in un seggiolino.
Il santo alza il tre di picche e benedice.
Balilla dentro, fuori giacobina,
la colora chi diverte e si conta le ferite:
è dolce morire senza guardarsi
le spalle, vociare
tra i vichi i portoni,
fregarsene delle bestemmie
che urlano dietro, della fame
lo stato lamore e di questo finire
come i gatti ma in pace.
Le stelle stanno come vedove
a cui nessuno chiede la mano.
Meglio lasciarci con la speranza ciascuna.
è così dicendo che albeggia.
6.
Quando partii ricordo il cuore
di mia madre, un fico dIndia.
Non venne a salutarmi, non lo volli.
Mio padre disse solo non guardarmi.
Ricordo le facce intorno a me
le voci di contrada Matera Catanzaro
sui gommoni a rotaie del sud.
Ricordo i casotti che abitammo
il vino al posto della nafta per scaldarci
e la voce di mio padre
non guardarmi, non ho colpa.
Ora sono qui, tornato si dice.
Guardo ai bordi lagrifoglio
i cani urinare,
scelgono i margini
mai gli orti sontuosi,
semplicemente fanno i cani.
E guardo un tarocco daddio sulla schiena.
È lungo i miei anni. Ho allacciato
i risvegli alla cena,
questo il lavoro giusto e balordo.
Non oltraggio il passato,
le cose cambiano per chi non ne ha.
7.
Camminando lungo i valloni
tu senti una tregua, uno strofinio
sulla schiena ma lieve,
una cicala in groppa ti guida
per favi le querce
cavalli tra i muraglioni.
E timbatti
nei borghi allinterno, generosi
goduti come denti su un seno.
Qui tutto coincide,
piazza edicola chiesa
è il futuro. Paesi benedetti,
innamorarsi è la notizia del giorno
diffusa da gallo e barbiere.
Qui vive il topo da biblioteca
che sa tutto duna marchesa,
di pittori che affrescarono vergini
dal volto di zie, grassi amorini,
di scrittori che nessuno ha mai letto
e conosce tutti i nomi che una parola
può avere, farfalla, vagina.
Qui è unaltra storia anche fare lamore.
Le donne guardano e thanno preso
già le misure,
parlano al gusto di giuggiole
ordiscono trame
siedono tavole per tredici santi
e votano solo perché fa bene
allumore uscire di casa.
E accarezzi la costa
seguendo le scale del cielo.
Eccolo il mare,
il teatro dove dio fa la parte
senza avere studiato. Quel che sa
è la strada, nostalgie doltremare
e canta della figlia del re
e si crede suo padre.
Sulla faccia ha i segni di tutti gli ami
e dei pesci che non hanno abboccato.
Sono angeli anche i diavoli
che ha per capello,
li guarda mansueto e li offre a chi va
per lacqua celeste.
La memoria
e il revisionismo
Caro Aldo,
leggo sempre con interesse la tua bella rivista cui, grazie a te,
ho lonore di collaborare. Questa volta lho letta anche
con grande emozione: per due personali motivi che, conoscendoti
come uomo di grande sensibilità, sento il bisogno di portare
alla tua attenzione, sperando che ti faccia piacere.
Primo motivo, per me, di personale emozione è stata la lettura
del tuo saggio Cronache della grande disfatta. Con ricchezza
di particolari, in gran parte, credo, poco noti e con giudizi che
non posso non condividere mi ha portato dentro una tragedia nazionale
che è stata per la mia famiglia, come per decine di migliaia
di altre famiglie italiane, anche una tragedia particolare.
Io mi chiamo Mario perché questo era il nome di un fratello
di mia madre, un ragazzo del 99, andato in guerra volontario
e morto a Caporetto sotto un fuoco nemico che non era quello degli
austriaci e dei tedeschi, ma quello dei carabinieri italiani cui
gli inetti comandi responsabili della disfatta avevano ordinato
di sparare sui nostri soldati in ritirata. Il ricordo di questo
zio mai conosciuto personalmente, visto soltanto in una grande foto
appesa nel salotto di casa mia, a Firenze, ha accompagnato gran
parte della mia vita finché nel corso dei miei tanti cambi
di città ho perso, si può dire, di vista limmagine
di questo ragazzo diciottenne, ritratto sorridente in divisa proprio
il giorno della sua partenza per il fronte. Leggendo il tuo articolo
lho ritrovata con la memoria.
Come con la memoria, leggendo il brano di Molnar e guardando le
belle foto di Budapest, ho ritrovato unimportante ed emozionante
esperienza professionale, in cui anche tu, sia pure da lontano,
fosti coinvolto. Tutto questo infatti mi ha riproposto il ricordo
della mia personale via Pal. Che cosa fu e che cosa
rappresentò per me? Preferisco che ti rispondano i due brevi
testi allegati. Il primo è stato pubblicato il 19 novembre
dello scorso anno sulla newsletter quindicinale della Rappresentanza
Italiana della Commissione Europea, il secondo apparirà sul
prossimo numero di Rai fly, il periodico dei seniores dellazienda
in cui, con la collaborazione di tanti amici, te compreso, maturarono
i successi di I giovani incontrano lEuropa, compreso
quello che nel 1987 ci portò a Budapest, in via Pal, per
un gemellaggio ideale con lo spirito che aveva animato i ragazzi
del romanzo di Molnar.
Concludo prendendomi la libertà di un abbraccio.
Mario
Caro Direttore,
ho letto, più in fretta che in altre occasioni, Apulia,
07, IV
Ho letto il suo pezzo su Caporetto. Di quella terribile
esperienza rimane vivo in me quanto mio padre mi riferiva e che
io rievoco in uno scritto di famiglia che le accludo
in copia
Vi è laccenno ad una foto: lho trovata, insieme
ad un vecchio album, sbiadito e consunto. Non so cosa se ne potrebbe
fare: anche cederlo allArchivio della BPP di Matino e salvarlo
così da una probabile futura completa distruzione. Io daltra
parte non ho modo di servirmi delle moderne tecniche che riescono
a far diventare nuove le cose vecchie e rianimare anche le foto
più sbiadite.
Per una prevedibile prossima rievocazione del 1918 qualcuna di tali
foto potrebbe essere utile. È solo unidea.
Ho letto Noi suonavamo le nostre campane di Enzo Bianchi
Quanti ricordi mi ha suscitati: potrei dire allora che anche noi
suonavamo le nostre trombe: quando non pioveva, a Vernole, intorno
agli anni 30, S. Anna veniva portata in processione una prima
volta, e poi, se la pioggia si faceva ancora attendere, alcuni giorni
dopo la statua usciva, ma senza corona, per punizione
(della Santa!).
Abitava accanto a noi, alla via E. De Carlo, la zia Celeste, depositaria
della statua e dei festeggiamenti per la Madonna di Roca. Suo padre,
Pietro De Carlo, e suo nonno Luciano impacchettavano
la Madonna fra cuscini e assicelle, e, come in barella, la trasferivano
in pellegrinaggio sulla marina di Roca, attraversando viottoli e
campagne.
Se il tempo, lultimo sabato di aprile, pioveva o minacciava
la pioggia, quei miei lontani parenti litigavano con
la Madonna, rimproverandola per il cattivo tempo e usando anche
nei suoi confronti parole del tutto irriguardose, veri e propri
epiteti infamanti, con condimento di parolacce.
La zia, poi, lo ricordo benissimo, quando la statua si allontanava
da casa, veniva consolata dalle vicine, quasi fosse
rimasta orfana; così come, al ritorno, riceveva festeggiamenti
e congratulazioni, perché la zia ritornava a stare di nuovo
con la mamma sua. E lei, la zia Celeste, per loccasione
distribuiva una pezza di formaggio o qualche altro dono
casalingo alle persone che erano andate a farle visita.
Cose di ieri, caro Direttore, non del Medioevo!
Suo Luciano Graziuso
La memoria
e il negazionismo
Lultimo viaggio collegato al concorso promosso dal Gr3 mi
offrì limmagine, vorrei dire tattile, della giovane
Europa emersa anno dopo anno grazie allo spirito diniziativa
di Pinzauti, direttore di una coltissima testata del servizio pubblico
realmente a servizio del pubblico.
Lo ricordo bene, Mario. Eravate partiti da Roma con un treno speciale,
prima tappa Vienna, dove vi raggiunsi in aereo (allepoca dirigevo
il Televideo, testata che seguiva lavvenimento con i servizi
di Mariella Morosi). Poi, ferrovia fino a Monaco di Baviera, visita
al campo di concentramento di Dachau, e di nuovo strada ferrata
fino a Praga: per non dimenticare le persecuzioni razziali e lo
sterminio degli ebrei, di là; per non dimenticare lanelito
alla libertà e il sacrificio di Jan Palach, rievocato da
te, nella magica piazza Venceslao, il gran boulevard della capitale
boema.
Si proseguì in volo per Mosca, e lì i giovani ebbero
modo di visitare, fra laltro, il Cremlino: in una chiesa sconsacrata,
ma sopravvissuta nel cuore della cittadella moscovita, (altre centinaia
di edifici religiosi erano stati rasi al suolo per far posto agli
anonimi falansteri sovietici), erano in mostra decine e decine di
meravigliose icone, riemerse con i pope dai rifugi catacombali nei
quali erano rimaste sepolte per settantanni, negando a tutti
non soltanto lesercizio dei riti religiosi, ma anche il godimento
di incantevoli opere darte, e lammirazione in presa
diretta di un miracolo di luce: lo splendore delle cornici doro
e dargento bastava da sé a illuminare le grandi navate.

E poi ancora in volo, questa volta per Pietroburgo (solo allingresso
dellaeroporto sopravviveva la sgangherata insegna in caratteri
cirillici: Leningrad), la più europea, e vorrei
dire la più italiana delle città russe, con i palazzi
per tanta parte realizzati da architetti nostrani, e con lErmitage,
che raccoglie non meno di tremila capolavori provenienti da tutto
il mondo.
Credo che sia stata, quella, lultima delle iniziative annuali
di I giovani incontrano lEuropa: una favola speciale
per adolescenti che coniugava conoscenza e amicizia, riscoperta
delle radici comuni e progetto di una Patria che poteva coincidere
con lintero (o con la maggior parte del) Vecchio Continente.
Lutopia possibile, sorretta nella sostanza dal tuo pensiero
predittivo. Se è vero, comè vero, che oggi il
numero di Paesi aderenti allUe è cresciuto in linea
esponenziale. Paesi tuttavia legati da norme e vincoli quasi del
tutto di natura economica e finanziaria, per insufficienza (per
latitanza) di quelle spinte ideali semmai rimaste cultura in potenza,
e non più trasformate, o non più proseguite, come
vitale cultura in atto.
Il fatto è che sono, questi che stiamo vivendo, tempi grossolani
di grandi fratelli, di gossip ridanciani e di informazione-spettacolo,
cioè di vuoti verticali e di valori negati in nome del nulla.
Pessimismo di maniera? Franca osservazione della realtà che
ci assedia e mortifica, piuttosto. Oggi non contano le idee, valgono
le cordate; non si apprezzano limpegno per la
crescita civile e limperativo della legge sovrana, si scelgono
gli scandalosi e impuniti peccati di omissione e, al cospetto delle
libertà negate, si reagisce con sguardi pallidi, o con gli
occhi rivolti altrove; non si accolgono i moti, gli slanci creativi,
si presta orecchio allinsipienza edonistica e al conformismo
più stucchevole. Esattamente ciò che non determinavano
la sostanza propositiva connaturata in te della tua
professionalità e il fine nobile del tuo lavoro.
Non per scarsità di quattrini disponibili è calato
il sipario su I giovani incontrano lEuropa. Ma
per la ragione che, lavorando con dedizione e con consapevolezza,
non ci accorgevamo forse che il mondo stava cambiando, ovviamente
in peggio, e perciò reclamava altri scenari, (esangui, scialbi,
formativamente ininfluenti o perlomeno neutri). E questi scenari
hanno finito per avere la meglio, con complicità imperdonabili.
Questo il mio giudizio, questa la riflessione sconfortante
per me che ho vissuto in Rai analoghe esperienze.
Scrivo di Caporetto in seconda battuta, perché il tema è
trattato sia pure in modo diverso dalluna e
dallaltra lettera. Il tuo, in un contesto che riporta alla
mente il dramma vissuto da non poche famiglie italiane, è
un momento di abbandono al ricordo inaspettatamente riemerso, e
ha la sincerità dolorosa del destino rivelatosi agli occhi
di un bambino; quello di Graziuso (nel racconto di fatti e tradizioni
di una freschezza tacitiana, che in me salentino lascia una scia
di pensieri e nostalgie, come quella del profumo del buon pane di
una volta, appena sfornato) sul versante della memoria storica,
che riporta, senza dubbio involontariamente, alle roventi polemiche
che hanno coinvolto uomini di studio e uomini in divisa ancora fino
a poco fa.
E qui bisogna fare un discorso più articolato, muovendo da
taluni atteggiamenti di certi storici e di certi scrittori in genere
tuttaltro che condivisibili. Un esempio per tutti. Tra coloro
i quali, nel bene e nel male, hanno fatto lItalia
e hanno provato, con scarsi risultati, a mettere un po di
fuoco nelle vene dei propri concittadini, il torinese Massimo Taparelli
marchese DAzeglio è tra quelli ormai ridotti a fantasmi
nelle antologie scolastiche (e nelle iniziative editoriali contemporanee)
che si fa fatica a rivestire di letture vicine alla nostra sensibilità
e ai nostri interessi rivolti al confronto e alla riesplorazione
delle vicende storiche peninsulari. Scomparsi nei vortici opachi
dellOttocento minore La disfida di Barletta e
Niccolò de Lapi, che pure ai tempi loro non solo fecero
fremere i lettori, ma misero in allarme censure e Cancellerie. Né
è toccata al DAzeglio maggior fortuna per la sua attività
di pittore. Quasi abolito come Padre della Patria, dunque, sebbene
fosse stato proprio lui, con Gli ultimi casi di Romagna, a far passare
il balbettante Risorgimento dalle inefficaci congiure mazziniane
alle vicende concrete delle guerre regie e della diplomazia dispiegata
in mezza Europa.
Nei labirinti delloblio, comunque, non soffre di solitudine,
visto che gli tengono compagnia torme di malconciati dal tempo:
Gioberti, tanto per dire; o il Cantù (che i meridionali definiscono
farfugliante al cospetto del loro Colletta); oppure il Rattazzi,
o il Ricasoli (questultimo ricordato persino da Cavour come
saccheggiatore dellargenteria e della cantina nella dimora,
da lui occupata dopo lannessione, del Duca di Modena); o ancora
il trasformista Depretis, o linetto Persano
Sia come sia, i Ricordi del DAzeglio furono per alcune generazioni
un manuale di pedagogia laica, e a rileggerli ai nostri giorni,
per stile ironia vivacità, tengono il campo a fronte di tanti
nostri coevi celeberrimi scribacchini. Litalico smemoramento
che avvolge questo rappresentante di unetà che simultaneamente
fu eroica di purezze e audacie, e lorda di sangue fraterno,
non è forse la conseguenza del suo ingenuo tentativo di forgiare
il carattere degli italiani, impresa rivelatasi già allepoca
donchisciottesca? Le asinate e le inettitudini del senno del poi
fanno ricordare di lui che laveva previsto. Questo
carattere, questa Italia morale la pensava come il contrario
del garibaldinismo, delle sette e delle consorterie,
come un ideale poco spettacolare di ordine, di serietà, di
misura, di onestà politica e intellettuale. Era il Paese
sconosciuto di cui parlava già Stendhal.
Caporetto, dunque. Le versioni sulle responsabilità di quella
tragica rotta sono contrastanti. In effetti, come è qui ricordato,
venne accusato (e silurato) Cappello, che in seguito cercò
una rivalsa aderendo al Fascismo. Arrigo Petacco non la pensa così,
scagiona il generale e incolpa sia Cadorna (che perdette il comando
delle forze armate) sia Badoglio (che invece sfuggì alle
epurazioni, e fece la gran carriera che conosciamo).
Io propendo per la versione Petacco, che ha condotto a termine una
convincente revisione storica degli avvenimenti legati alla vicenda.
Comunque, Caporetto è stata a lungo rimossa, e oggi è
ricordata solo grazie alle rivisitazioni di quellevento, più
tragico che grande.
Capisco che in tanti infastiditi non ci stiano, e
che le revisioni (più semplicemente, il revisionismo) turbino
il pensiero di chi ha sedimentato come definitivi e inappellabili
i giudizi sulla nostra storia, soprattutto quella degli ultimi due
secoli. Eppure, è proprio dalle riletture, dalle ricerche
scientificamente più accurate e dalle documentazioni più
attendibili e aggiornate che è possibile realizzare ricostruzioni
meno strumentali, non retoriche e soprattutto non più funzionali
alle agiografie non disinteressate che ci hanno tramandato versioni
oniriche, lontane e spesso remote dalla realtà del nostro
passato.
Dico questo, dopo aver letto una lettera inviata a un quotidiano
nazionale da un lettore, il quale vi sostiene che nei manuali scolastici
e nelle fiction radiotelevisive «il Risorgimento italiano
è stato caricato di una retorica che gli studi recenti stanno
smentendo». Ad esempio, ribadisce lautore della missiva,
quella dei Savoia nei confronti del Sud dItalia fu una conquista
violenta, e non una spontanea adesione per libero plebiscito, come
si evince da molti studi di questi ultimi anni, culminati appena
qualche settimana fa con il testo di Gigi Di Fiore, intitolato Controstoria
dellUnità dItalia.
Rispondendo, Sergio Romano afferma che quella del suo interlocutore
(un materano) «è in realtà una versione negazionista
del Risorgimento, molto di moda ormai da parecchi anni». E
aggiunge lambasciatore: in realtà, le versioni negazioniste
sono due. Vi è quella della Lega Nord che denuncia lannessione
piemontese delle province settentrionali e si è servita del
bicentenario della nascita di Garibaldi per deplorare la spedizione
dei Mille. E vi è quella di tanti meridionali, convinti che
«i famigerati briganti fossero devoti partigiani dei Borbone
e che la guerra del brigantaggio, fra il 1861 e il 1865, fosse la
versione italiana di quella che si combatteva durante gli stessi
anni negli Stati Uniti. Da quando Bossi ha fatto la sua apparizione
nella vita politica italiana e molti meridionali hanno deciso paradossalmente
di imitarlo, il Risorgimento e lUnità nazionale sono
soggetti a una sorta di fuoco incrociato proveniente dal Nord e
dal Sud».
Secondo Romano, il guaio è che le due «ideologie antirisorgimentali»
sarebbero costruite su basi insicure e su pilastri traballanti:
«La borghesia veneta era stanca del dominio austriaco, ma
il collasso della nuova repubblica veneziana, nel 1849, dimostrò
che il progetto di Daniele Manin non era politicamente e militarmente
realistico. Carlo Cattaneo desiderava che il Lombardo-Veneto avesse,
nellambito dellimpero asburgico, i diritti e lautonomia
che la Catalogna ha conquistato nella Spagna postfranchista. Ma
lAustria non aveva alcuna intenzione di rinunciare al centralismo
viennese».
La situazione al Sud, secondo Romano, era ancora peggiore: «Non
è necessario aver letto le lettere scritte su Napoli nel
1851 da un grande uomo politico britannico, William Gladstone, per
riconoscere che il Regno borbonico, verso la metà dellOttocento,
era poliziesco, reazionario, male amministrato e terribilmente arretrato.
Credo anchio che occorra rendere onore ai difensori di Messina
e Gaeta. Ma lesercito, la flotta e la pubblica amministrazione
del Regno delle Due Sicilie si sfaldarono come neve al sole».
Insomma, nel 1860, quando Cavour decise di cavalcare gli eventi
e di estendere al Sud il processo di unificazione nazionale, «non
esistevano alternative». Se la Penisola voleva scrollarsi
di dosso il torpore che aveva spento, dallinizio del Seicento,
i suoi spiriti vitali, «non vi era altra prospettiva fuorché
quella offerta dal disegno unitario dei piemontesi. Dobbiamo al
Risorgimento il ritorno dellItalia in Europa e i suoi innegabili
progressi» in oltre un secolo e mezzo di vita nazionale.
Ovviamente, riconosce infine lambasciatore Romano, «non
tutti hanno tratto dallUnità gli stessi vantaggi»,
ma anziché incolpare la classe dirigente risorgimentale,
«molti italiani del Nord e del Sud dovrebbero guardarsi allo
specchio e fare un contrito mea culpa».
Ecco serviti, in un solo colpo, il revisionismo storico e montagne
di libri e di documenti non soltanto di studiosi e politici meridionalisti
attivi subito dopo lunificazione, ma anche di scrittori che
nei giorni stessi della spedizione dei Mille e dellintervento
di Vittorio Emanuele II denunciarono laggressione (linvasione
senza alcuna preventiva o simultanea dichiarazione di guerra) piemontese.
Lasciamo pure da parte Carlo Alianello, che dallAlfiere fino
a La conquista del Sud ha scritto le più intriganti pagine
dellimpresa vista dallaltra parte, quella
borbonica; trascuriamo anche gli studi di tutti coloro che hanno
trattato il tema delle relazioni diplomatiche che precedettero,
accompagnarono e seguirono i giorni dellUnità; e prendiamo
in considerazione, invece, alcuni brevi testi di autori filopiemontesi,
che fra laltro oggettivamente osservarono che Gladstone non
pronunciò mai, né mai scrisse, ad esempio, la frase
del Reame come «castigo di Dio», inventata dalla pubblicistica
filosabauda per alleggerire il cumulo di accuse di tradimento (politico,
dei vincoli di sangue che lo legavano a Francesco II, dellintervento
a guerra già vinta da Garibaldi) rivolte al monarca sabaudo.
Cesare Bertoletti, un novarese che si dice «orgoglioso di
aver fatto parte del piemontese corpo dei bersaglieri», mette
in evidenza il valore dei soldati borbonici, in omaggio alla convinzione
che per giudicare e per stimarsi reciprocamente solo alla verità
occorra fare ricorso. Arturo Fratta afferma esplicitamente che Cavour
tramava contemporaneamente contro il re di Napoli e contro Garibaldi:
«Sia detto una volta per sempre: il 60 fu possibile
per la situazione politica e diplomatica creata nel 59 dal
Conte di Cavour
Tuttavia, la condotta che egli tenne nei confronti
di Garibaldi non fu certamente leale
». La spedizione
dei Mille? Garibaldi non aveva alcuna intenzione di capeggiarla,
né erano favorevoli i mazziniani. Il Nizzardo si decise solo
quando seppe che i siciliani (i Crispi, i Rosolino Pilo
) stavano
per partire senza di lui ed erano decisi a sbarcare non più
su un lido del Sud continentale, ma per la prima volta
nellisola che fu sempre ritenuta inaffidabile e tendenzialmente
separatista dagli stessi Borbone. Tantè che quando
Garibaldi passò lo Stretto e sbarcò in Calabria, la
più gran parte delle squadre siciliane che lo avevano seguito
fin lì si sciolsero e lo abbandonarono. E, contestualmente,
mentre nellisola il crollo del regime borbonico si produsse
con il collasso generale dellintera base sociale della monarchia
borbonica e delle sue strutture organizzate, minate dalla spinta
indipendentista, dagli agenti cavouriani e dallazione della
Massoneria, nel Sud continentale quel collasso si produsse esclusivamente
nelle zone alte del sistema di potere. Non vi parteciparono le masse.
Garibaldi doveva ancora giocarsi il tutto per tutto alla battaglia
del Volturno, e già Francesco Nullo doveva correre ad Isernia,
per domarvi la prima di una serie infinita di insorgenze che riguardarono
tutto il Mezzogiorno e che furono filoborboniche e antipiemontesi,
e non brigantesche. Il brigantaggio venne dopo, appoggiato in modo
particolare da unirriducibile Maria Sofia (leggere La regina
del Sud, di Petacco), ma alimentato oltre che dalle rapine
fiscali sabaude e dalla sottrazione di braccia ai campi per via
del servizio militare obbligatorio dalle stragi, dai saccheggi,
dagli incendi dellesercito sabaudo, sulla lezione della ferocia
di Girolamo Bixio, detto Nino, il cui possente pugno omicida si
fece esempio emblematico a Bronte, a Randazzo, a Castiglione, a
Regalbuto, a Centorbi, ad altri villaggi «colpevoli di lesa
umanità
» come ebbe lo spudorato coraggio
di proclamare i cui abitanti gli gridavano dietro «Belva!»,
senza che nessuno potesse più difenderli.
Certo, il Sud che pure aveva avuto in Napoli non una, ma
la capitale europea del Settecento non era esente da colpe.
Francesco II morto Ferdinando era salito al trono
mentre mutava il quadro politico peninsulare: il Regno di Sardegna
si era notevolmente ingrandito; fiumi di denaro torinese assicuravano
corruzioni e disponibilità di gruppi e classi dirigenti delle
Legazioni, dellUmbria e delle Marche; lo Stato Pontificio
era percorso da fremiti libertari. Complessa la situazione nel Reame:
dal momento che erano in esilio le personalità più
dinamiche e colte, più legate ai centri di influenza sullopinione
pubblica europea, a disposizione del nuovo re di Napoli erano rimasti
i gruppi meno attivi, meno moderni della classe dirigente meridionale,
la cui cultura era ancorata alle sistemazioni del tardo Illuminismo
e aveva assorbito poco dello spirito delletà posteriore,
per poter fronteggiare convenientemente la nuova cultura romantica
nella quale si erano formate le giovani generazioni ed erano maturate
le nuove esigenze nazionali. La monarchia borbonica aveva dunque
a disposizione la parte deteriore della classe dirigente meridionale,
con le sue tradizioni di corruzione, di vischiosità, di formalismo,
di qualunquismo, di pigrizia, di scarsa funzionalità.
Allora è facile capire la gravità dei problemi nellestrema
stagione del Reame, e quale danno avesse procurato a se stessa la
Dinastia, rompendo di nuovo nel 1848, come nel 1820 e nel 1799,
con la parte più avanzata della classe dirigente e intellettuale
del Sud. La frattura fra regime e Paese era diventata profonda.
Lisolamento delle Due Sicilie, regno dislocato fra acqua
santa e acqua salata, come era solito dire Ferdinando
II, divenne via via più evidente. Fino ad essere decisiva.
Questa tristissima condizione del Sud si sommò allincapacità
predittiva e allalgida politica di repressione e di sfruttamento
attuata da Torino subito dopo la conquista. «Non tutti hanno
tratto dallUnità gli stessi vantaggi», riconosce
Romano. Il quale tuttavia non cita a chi quellUnità
abbia giovato, né chi ne abbia pagato il costo in termini
che furono (e per tanta parte della vicenda unitaria sono rimasti)
semplicemente e tragicamente di colonizzazione. Sembrerebbe un ritratto
oleografico, se non cogliesse tutta una sua drammatica realtà,
limmagine di Zanardelli (primo presidente del Consiglio italiano
ad aver varcato la linea Gustav, diretto a Sud) portato in giro
a bordo di uno char-à-bancs, di un traino tirato da una pariglia
di buoi lungo le carrarecce della Lucania, regione che conosceva
poche e fragili strade bianche aperte come nel resto del
Mezzogiorno dagli ingegneri di Murat; o quella di De Gasperi
scoppiato in lacrime di fronte alla bolgia infernale dei Sassi,
costellata da uomini e donne in nero, sulla soglia delle loro tane
condivise con le bestie. Anche questa è storia, per chi vuole
capire come realmente stavano le cose. Come è storia che
sugli interessi del Paese, che avrebbero reclamato politiche di
progresso in favore dei napoletani, finirono col prevalere
quelli dellarea settentrionale della Penisola, votati al pagamento
dei debiti della Cancelleria torinese con i Rotschild finanziatori
del Piemonte nelle guerre di Indipendenza, prima di tutto; in seguito,
al protezionismo dellindustria e dei commerci in favore dellaltra
Italia; infine allaggancio delle regioni privilegiate
con lEuropa, e al contestuale abbandono alla deriva mediterranea
di quelle penalizzate.
Ci si guardi pure allo specchio, dunque. Ma si abbia il coraggio
di dire, senza più infingimenti, quel che realisticamente
esso riflette, per una parte e per laltra. Perché per
la gente del Sud, ossessionata dalleredità ricevuta
dalla storia, memoria e revisione come giusto processo dappello
sono elementi culturali ancora vividi, fondanti. E ineludibili.
Quella che il Tommaseo definisce inscienza, cioè ignoranza
di quel che saremmo tenuti a sapere, e che avremmo il diritto di
sapere, deve avere per forza di cose vita in qualche modo effimera.
Storie e cronistorie possono nascondere anche a lungo, ma non per
sempre, la verità su certi eventi. Come nel caso di Caporetto,
delle responsabilità, del fuoco amico, della
tragedia collettiva e di quelle singole vissute in quella fornace
e, di conseguenza, nel Paese. Come nella strumentale definizione
di lotta al brigantaggio con la quale si coprì
la nuda e cruda realtà della prima guerra civile italiana
e dei massacri consumati dai Fanti e dai Cialdini. Come nella seconda
guerra civile che (non senza alcuni lati oscuri coevi e immediatamente
successivi) fu vinta, a metà del secolo breve,
dalle formazioni (da tutte le formazioni) della Resistenza. Inevitabilmente,
ci sono un frammento che emerge, uneco che si fa parola, una
riflessione persino anonima (anche dolorosa, anche avvilita) che
si traduce in apologo. Al modo di una monografia sulla Questione
napoletana priva del nome dellautore, senza alcuna
indicazione del luogo di edizione, ma con ben visibile lanno
della sua stesura, il 1862 che ci offre lanalisi accorata
del primo, decisivo anno di vita unitaria nel Sud, quale del resto
era descritto anche da una trascuratissima stampa liberale: «Non
scrivo per avere giustizia: dove sta la consorteria che oggi infesta
lItalia non vi sarà giustizia mai; io scrivo per protestare
in nome del paese che è minacciato dalla guerra civile, in
nome dellumanità, in nome delle famiglie che sono state
orbate dei loro capi, in nome del nostro diritto, in nome del sangue
che allaga le nostre provincie
Io non ti temo, governo piemontese,
dacché non ti stimo
Eppure ti amavo, o governo piemontese.
Tutti ti amavano un giorno! Un anno addietro, quando non pur anco
ti si conosceva, bastava in Napoli parlar del Piemonte per vedere
la speranza irradiare tutte le fronti, il patriottismo riscaldare
tutti i petti, la fratellanza stringere le mani: ed oggi? Oh oggi!
Ma guardatela dunque lopera vostra, o governanti. Venite,
percorrete le vie, girate per le case, penetrate negli uffici. Che
cosa vedete? Squallore, miseria, scoramento!».
Ecco, è necessario conoscere le diversità del mondo
italiano, apprezzare la ricchezza indotta dalla federazione dei
suoi contrasti, illuminare i coni dombra della sua storia
labirintica, per non andare incontro al disastro etico, alla disfatta
civile, al monadismo culturale. A questo soltanto non ci sono alternative.
Le splendide foto di Budapest, firmate da Dario Carrozzini, infine,
ci riportano alla mente i calzoni corti, gli slanci generosi, gli
ideali purissimi dei nostri amici della via Pàl;
i luoghi di quella magnifica storia; i sogni davventure tante
volte progettate; i volti dei ragazzi tante volte immaginati; lepica
battaglia, il coraggio del soldatino-eroe caduto vincendo, la stessa
vittoria e la disillusione culminante, metafore cruciali della nostra
vita, linea dombra che chiudeva letà delloro
delladolescenza e apriva lorizzonte della presa di coscienza
delle asperrime difficoltà della vita adulta
E forse
anche per tutto questo lo spazio di libertà della via Pàl
si fa possibile punto di ripartenza della corsa sospesa, chissà,
o nocciolo nucleare che può irradiare una nuova forza centrifuga
e ricreare le condizioni che riaprano un altro capitolo di I
giovani incontrano lEuropa
In bocca al lupo!
Aldo Bello
|