Un risvolto quanto mai intrigante:
i due fratelli
erano analfabeti
musicali, non sanno leggere
gli spartiti, ancora oggi compongono a orecchio,
cantando
e suonando
per ore e ore.
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Ne ha parlato con entusiasmo Goffredo Fofi, ipotizzando che qualcuno
li può ricordare in una scena di Il talento di mister Ripley,
«lambiguo giallo di Patricia Highsmith portato
sullo schermo da Anthony Minghella, in una scena di processione
in cui cantavano una loro composizione, Bella Maria». Qualcun
altro può averli incontrati e ascoltati a teatro, nellottima
Medea siciliana di Emma Dante. O ancora: più di uno avrà
sentito i loro dischi, quelli di produzione nazionale, nel senso
di italiana, (per esempio, Sutera, dedicato al loro paese dorigine,
che sta al confine tra la provincia nissena e quella agrigentina,
che è come dire nel cuore dellisola); oppure quelli
di produzione iberica (Nesci Maria, che prende il titolo da una
delle più splendide creazioni, per una Madonna tra religiosa
e pagana, o Romances de ally de acà, o ancora lo stupendo
e più recente Trazzeri); oppure ancora quelli di produzione
nordamericana (Italian Odissey), «di incontro e sintesi fra
tradizione e innovazione, e tra sperimentazioni vecchie e nuove».
Moltissimi, infine, li avranno ascoltati dal vivo, in piazze e in
strade, in chiese e su sagrati, e persino in accademie, in Italia
o in Francia, in Spagna o in Germania, in Gran Bretagna o in Canada
o negli Stati Uniti dAmerica. Ed è necessario parlare
dellInghilterra, perché è proprio in questo
Paese che i due fratelli Enzo (Vincenzo) e Lorenzo Mancuso, oggi
intorno ai quarantanni di età, emigrarono a metà
degli anni Settanta, abbandonando il loro bianco villaggio contadino
e artigiano per trasferirsi oltre le bianche scogliere di Dover
e andare a lavorare nei grigi complessi industriali del settore
metalmeccanico, trovando però nella musica il riscatto dalle
quotidiane fatiche e dalle altrettanto quotidiane alienazioni indotte
dal nuovo ambiente, dalle radici almeno superficialmente tagliate,
dalla solidarietà vicinale sostituita dai rapporti formali
(se non addirittura algidi, e anche improntati alla diffidenza per
laltro, per il nuovo, per lestraneo).

In sostanza, la musica divenne il fulcro dei loro interessi, il
baricentro della loro esistenza. Ma con un risvolto quanto mai intrigante:
i due fratelli siciliani erano (e restano) analfabeti musicali,
non sanno leggere gli spartiti, non sanno scrivere le note, ancora
oggi, dunque, compongono a orecchio, provando e riprovando senza
soluzione di continuità, cantando e suonando per ore e ore;
ma attualmente, trascorso un lungo periodo di sacrifici, valicati
coraggiosamente tutti gli ostacoli, sono diventati celebri, e li
si ritiene a buon diritto raffinati concertisti, «amati da
studiosi eccellenti della musica più rara, da esecutori che
hanno amato unirsi a loro in questa o in quella occasione».
Su quali dati si basa questa loro fortuna? Enzo e Lorenzo hanno
portato avanti una grande storia, prestando orecchio alle grida
dei venditori ambulanti e dei banditori di paese, alle melopee e
ai canti dinvettiva dei carrettieri, alle nenie
dei contadini e ai cori dei minatori, vale a dire a tutti i repertori
della tradizione melodica popolare del Sud continentale e insulare,
in gran parte andati perduti (anche nella memoria), e soltanto in
piccola misura salvati da raccolte rarissime di amanti del folk.
E vien da pensare con rammarico a tutti gli echi dei canti popolari
che emergevano dalle campagne e dalle strade (ma anche, soprattutto
nelle sere primaverili ed estive, dalle puteche paesane
del Salento), che non riusciamo più a sentire: e mi pare
che sia stato un innamorato di questo mondo particolare, Brizio
Montinaro, a raccogliere e pubblicare in 33 giri un certo numero
di bellissimi brani musicali registrati dal vivo.
Fra laltro materiale repertato nello scrigno della memoria,
i due fratelli hanno incluso il canto sacro delle devote di vari
santi e sante. Delle novene dei Natali (ad esempio, nella loro Sutera,
quelle dei suonatori ciechi migranti di paese in paese) e nei funebri
lamenti, e inoltre le esplosioni di gioia delle Pasque, precedute
dai canti dolorosamente cupi delle Passioni, quali anche noi abbiamo
conosciuto, e per fortuna in parte conservato, con i cantori in
lingua grica che erano attivi fino a qualche anno fa soltanto nella
Grecìa Salentina.
Giustamente Fofi ricorda che i due Mancuso hanno fatto tesoro della
lezione poetica e musicale dei Ciccio Busacca, degli Ignazio Buttitta,
delle Rosa Balistreri, che essi hanno fatto in tempo a conoscere
e a frequentare: e questo ha decisamente contribuito a farli distaccare
dai più impegnati, per il rifiuto di qualsiasi
concessione retorica (anche di qualunque compromissione stilistica),
e dalla ortodossia del canto popolare «per la voglia di cambiare
e di portare nella musica antica sonorità nuove e azzardi
inediti».

È ormai acquisito che attualmente i due fratelli siciliani
sono ugualmente apprezzati sia dai cultori della musica colta che
da quelli della musica folk, per il loro rispetto delle lezioni
del passato popolare e della tradizione religiosa più radicata;
ma anche per il coraggio che hanno avuto di mediarle senza tradirle,
e portando nel loro rispetto e nelle loro dissonanze, come essi
stessi sostengono, «un suono osseo, un suono di pietra».
Le loro composizioni prendono corpo poco alla volta, parola dopo
parola, musica (cantata) dopo musica: provando e riprovando. Come
è stato notato, in questo modo con loro il canto religioso
diventa laico, e quello laico si trasforma miracolosamente in canto
religioso.
Lidentità riconquistata tanti anni fa grazie alla musica
«dal dentro dellanonimato della vita in fabbrica»
ha generato frutti inattesi, e le lacerazioni che hanno inizialmente
espresso si sono ricomposte in una liberazione di cui nel nostro
Paese e tra gli italiani non ci sono esempi minimamente paragonabili.
Anche se sono rintracciabili nel mondo, e in qualche modo cominciano
a verificarsi tra noi ad opera esclusiva di musicisti immigrati.
Cantano Timidi lisuli su, in una delle loro più
ammalianti composizioni, questi due coltissimi, straordinari analfabeti
musicali: ed è una canzone che parla di isole concrete e
di isole metaforiche, degli arcipelaghi delle nuove comunità.
Fuse, autobiografia e nostalgia, in un fondale semantico originale,
per noi ancora tutto da scandagliare.
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