Un uomo
e un bambino
attraversano un paese devastato: intorno a loro, masse di rifiuti,
segni di incendi, mucchi di detriti, ammassi enormi
di macerie...
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Tutto quel che avanza di una cena, manifesti lacerati, insieme
con i resti di pareti scrostate, tubi di scappamento compressi,
fili di ferro, violini maciullati, tubetti di colori consumati,
ombrelli rotti, scarpe usurate, stracci ovunque
Potrebbe essere
la descrizione di una discarica, ma anche quella della sala di un
museo di arte contemporanea. Allora: icona della contemporaneità
è la spazzatura? A giudicare da un certo tipo di arte, si
direbbe proprio di sì. Un mondo che consuma moltissimo produce
unanaloga quantità di rifiuti. Lappagamento di
un bisogno, di un desiderio, lascia dietro di sé tracce destinate
ad essere buttate via. Ma gli artisti, comè noto, sono
sempre i primi a captare segnali e a riconoscere emergenze.
Possiamo dire che la storia cominci intorno agli anni Dieci del
XX secolo: è questo il momento in cui si iniziano ad utilizzare
gli scarti della società dei consumi e a sublimarli in opere;
non soltanto li si salva dalla scomparsa e dallinceneritore,
ma si elargisce loro una sorta di eternità. In altre parole,
gli artisti sono i pionieri del riciclo (Lea Vergine ne ha raccontato
lavventura in un bel libro, Trash. Quando i rifiuti diventano
arte).
In ambito dadaista gli esempi sono numerosi, ma con tutta probabilità
il più calzante è quello di Kurt Schwitters, il quale
realizzava dipinti con biglietti di autobus usati, con scatole di
fiammiferi vuote, con spaghi, con ferri, con ingranaggi vari, con
rotelle. Oggetti non più necessari, ma nei quali cè
una vita che, comunque, continua.
Negli anni Sessanta del secolo scorso sono gli esponenti del francese
Nuovo Realismo i nuovi sacerdoti di unestetica della spazzatura.
Il teorico del movimento, Pierre Restany, predica lappropriazione
diretta della realtà. E questa realtà, comè
ovvio, è fatta anche di pattume: Arman crea le Poubelles:
mucchi di rifiuti situati in contenitori trasparenti. Spoerri realizza
tavole imbandite a parete con piatti sporchi e fiori rinsecchiti.
E Cesar sostiene che «la spazzatura non è ciò
che rifiuta la società, ma un materiale utile che qualcuno
ha lasciato in giro. Allora lo prendo io».

Che cosa afferra Cesar? Di tutto. Vecchie macchine, plastiche,
ferri, impianti di illuminazione: tutto viene compresso e si trasforma
in scultura, cioè nella più tradizionale delle arti.
Anche Pistoletto riflette su questo, circondando la sua celebre
Venere, eterno simbolo di bellezza nuda, di stracci, emblematizzando
la moda che passa. E convinta riciclatrice è Enrica Borghi,
con la sua statuaria fatta di bottiglie di plastica o con carta
di caramelle. E ancora, langlo-palestinese Mona Hatoum ha
addirittura realizzato una collana di capelli lasciati sulla spazzola,
mentre il partenopeo Maurizio Cannavacciuolo inventa gioielli di
scarti: unghie, peli pubici, mozziconi di sigarette finiscono in
spille e in anelli. Ma si vada a spiegarlo ai suoi concittadini
sepolti dallimmondizia!
Un uomo e un bambino attraversano un paese devastato: tutto intorno
a loro, masse di rifiuti, segni di incendi, mucchi di detriti, ammassi
enormi di macerie. Un paesaggio post-catastrofe. Spingono, forse
non a caso, un carrello da supermercato, dentro il quale hanno stipato
le loro poche cose: coperte, derrate alimentari, oggetti che ritengono
utili. Il paesaggio che Cormac McCarthy descrive nel libro La strada,
il suo ultimo romanzo, è coperto dagli avanzi della società
industriale collassata: lattine vuote, bottiglie di vetro, stracci,
mobili abbandonati, ferri vecchi, cumuli di pattume.
Nella letteratura americana limmagine della discarica, dellaccumulo
di rifiuti, è tuttaltro che rara. Al contrario, è
consueta. A partire dagli anni Sessanta, momento culminante della
American way of life, le deiezioni della società industriale
sono apparse agli scrittori di quel Paese lesatto rovescio
del consumo, la parte caduca, la quantità morta dellimmenso
magazzino delle merci offerte a profusione da negozi, centri commerciali,
ipermercati.
Richard Brautigan, scrittore beat, nel libro chiave degli anni Sessanta,
Pesca alla trota in America, (esattamente del 1967), descrive un
Deposito demolizioni di Cleveland nel quale, rovesciando
il sogno edenico della natura incontaminata del narratore trascendentalista
statunitense Thoreau, è possibile acquistare un ruscello
da trote di seconda mano, scarto di un paesaggio che annega nel
pattume. I dropouts (gli emarginati) di Brautigan sono essi stessi
dei rifiuti, delle deiezioni del Grande Paese, non soltanto perché
vivono in mezzo alla spazzatura, ma perché producono opere,
romanzi, racconti destinati allo scarto.
Ma il testo che celebra lepopea dei rifiuti è senza
alcun dubbio Underworld (del 1997) di DeLillo. Il protagonista,
Nick Shay, manager, si occupa infatti di smaltimento di rifiuti.
A partire dai suoi ricordi, spazzature che galleggiano sulla superficie
della memoria, Shay ha compreso che il pattume rappresenta lultima
frontiera dellautonomia umana, lostacolo contro cui
cozza la nostra idea di essere noi gli autori della nostra stessa
biografia. Underworld, che riteniamo sia uno dei più potenti
romanzi degli ultimi decenni, è uninclemente analisi
dellAmerica; il suo protagonista e la moglie, Maria, ossessionati
dalla spazzatura, vedono tutto in termini di futuro pattume.
Al confronto, gli scrittori europei appaiono meno catastrofici,
più disposti a leggere il rovescio del consumo in termini
di un equilibrio che qualcuno ha voluto definire cosmico.
Michel Tournier, in uno dei più bei romanzi francesi, Le
meteore, ci presenta la figura di Alexandre Surin, dandy del pattume,
gestore di una discarica, omosessuale ed estensore di una estetica
del pattume. In un passaggio di questa narrazione, Alexander
spiega e chiarisce che limmondizia non è il nulla in
cui viene inghiottito loggetto scartato, bensì «il
conservatorio dove esso trova posto dopo avere attraversato con
successo mille prove. Il consumo è un processo selettivo
destinato a isolare la parte indistruttibile e veramente nuova della
produzione».
Il libro che ha ispirato Tournier con tutta probabilità è
il penultimo romanzo pubblicato da Charles Dickens, Il nostro comune
amico, (pubblicato nel 1864-65), al cui centro cè leredità
lasciata dal defunto Re del Pattume. Il racconto dello scrittore
inglese è giocato per intero sulla coppia lusso/immondizia,
e Tournier sviluppa questidea mettendo bene in evidenza lossessione
delle società occidentali, e il suo stesso terrore: sprecare.
Il sogno del capitalismo è quello del consumo eterno,
oggetti che durano per sempre, in netto contrasto con la struttura
stessa della sua economia, per cui le cose sono prodotte per usurarsi,
rompersi, essere sostituite. Lo scrittore francese parla del «sogno
della costipazione urbana integrale» come di sogno decisamente
schizofrenico.
Italo Calvino, che ha inserito nel suo capolavoro Le città
invisibili (del 1972) alcune città della deiezione, dello
scarto e del rifiuto, in un bellissimo racconto, apparso inizialmente
in rivista (La poubelle agrée, del 1977, ora in La strada
di San Giovanni), propone una lettura diversa del pattume. La poubelle
è la pattumiera che Calvino, in quanto unico maschio della
casa di Parigi dove abita insieme con la moglie e con la figlioletta,
deve curare giorno dopo giorno. Si tratta dellultimo anello
della catena del consumo casalingo: deve preparare la pattumiera
foderandola di giornali, e, quando è colma, deve scendere
le scale e vuotarla.
Racconto di antropologia quotidiana, La poubelle ci fa capire il
possibile rapporto che possiamo intrattenere con i rifiuti. Svuotare
la pattumiera è, a detta dello scrittore, un rito di purificazione,
metafora di una condizione esistenziale più ampia: «Soltanto
buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è ancora
stato buttato e forse non è né sarà da buttare».
Che è come dire: è proprio necessario separarsi dalla
propria spoglia, o crisalide, o infine limone spremuto del proprio
vivere, affinché ne resti la sostanza, e aggiunge
lo scrittore «domani possa identificarmi per completo
(senza residui) in ciò che sono e che ho».
È senzaltro una morale stoica, da antico ragazzo ligure,
che sembra contrastare con quella contemporanea in cui lo scarto,
lo spreco, il rifiuto è soltanto la parte negativa dellesistenza
che ci perseguita, come nei cumuli di scorie per le vie di Napoli
e delle città finitime, che ci tallona da vicino, fino a
farci credere che noi stessi, come i personaggi del racconto di
McCarthy, siamo una deiezione, un rifiuto, uno scarto.
I rifiuti sono diventati il nostro specchio, e non più,
come in Tournier e in Calvino, laltra faccia della medaglia,
il rovescio necessario e indispensabile del positivo, della vita
stessa: il mondo ctonio, regno di Plutone, con cui venire a patti,
senza farci mai divorare. Lo sappiamo, o almeno dovremmo saperlo,
fin dal lontano 1967, quando Michelangelo Pistoletto incominciò
ad utilizzare con crescente frequenza gli stracci nelle sue installazioni,
e quando espose la splendida Venere marmorea vista di spalle, e
dirimpettaia rispetto a un gran cumulo di cenci e brindelli. Al
modo di Napoli dei nostri giorni: la città che fu capitale
europea, oggi ridotta a visione apocalittica della sporcizia, dellabbandono,
della miserabilità urbana collettiva inscritta nella universale
miserabilità degli egoismi italiani. Larte povera e
la letteratura realistica avevano avuto strabilianti capacità
predittive. Ma anche il mito ci insegna che si può essere
profeti non attendibili, come Cassandra, la più bella delle
figlie di Priamo, che inutilmente tentò di dissuadere i troiani
dallintrodurre il cavallo di legno in Troia, e che fu ritenuta
dea e credibile profetessa soltanto quando emigrò in Occidente,
stabilendosi su terre pugliesi, quelle contigue alle rive del fiume
Ofanto.
Allora ci si espone allingiuria di chi, nel nostro Paese,
napoletano o meridionale non è; e, oltre le nostre frontiere,
ad esempio in Francia, in Germania o in Inghilterra, al sarcasmo
dei giornali, allironia afosa degli untorelli che ignorano
che tutto il Sud, dai Bizantini in poi, ha subìto una storia
pesante. Come scrive in un commosso articolo Raffaele La Capria,
la pesantezza di questa storia laveva percepita George Gissing
quando, viaggiando in Calabria, allinizio di questo secolo,
aveva sentito venire dai campi il canto malinconico di un contadino,
«una nenia simile a un lamento» che gli era arrivata
diritta al cuore e gli aveva dettato queste parole: «Razze
brute si sono gettate luna dopo laltra su questa terra
dolce e luminosa; la sottomissione e la schiavitù sono state
attraverso i secoli il destino di questo popolo. Dovunque si cammina
si calpesta sempre terreno che è stato inzuppato di sangue.
Un dolore immemorabile risuona anche attraverso le note dei loro
canti. È un paese stanco, pieno di rimpianti, che guarda
indietro attraverso le cose del passato; perduto nella vita presente
e incapace di sperare sinceramente nel futuro [...]. Commosso da
queste voci che cantavano nei campi [...], chiedevo perdono di tutta
la mia stupida irritazione, delle mie critiche sconvenienti. È
legittimo condannare i dirigenti dellItalia, quelli che sincaricano
di plasmare la vita politica e sconsideratamente la caricano di
pesi insopportabili. Ma fra la gente semplice che vive sul suolo
italiano uno straniero di passaggio non ha nessun diritto di coltivare
sentimenti di superiorità nazionale, indulgere a una sprezzante
impazienza. Questo è segno di volgarità turistica».
Si ricordino costoro, dunque, e quantaltri si voglia in Europa,
che la loro prima barbarie fu cancellata dalla Grecia e da Roma,
e la seconda dal Rinascimento. Allora, giù le penne!
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