Lo sviluppo di unimpresa non è solo
una questione di tecnologia o di risorse finanziarie. È prima
di tutto una questione
di cultura.
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Gestire unimpresa in Europa significa prima di tutto avere
a che fare con un modello di capitalismo che ha caratteristiche
molto specifiche. Alcuni economisti sono convinti che il sistema
europeo per migliorare produttività, efficienza e
profitti debba convergere verso il modello americano. Non
credo che questo tipo di convergenza sia possibile nel medio termine,
ma non credo neppure sia auspicabile. Le organizzazioni europee
sono nate e cresciute in un terreno culturale fertilizzato da due
condizioni storiche: una tradizione di apertura al mercato relativamente
recente e un forte senso di responsabilità sociale.
Non esiste un unico modello di capitalismo. Stati Uniti, Asia, Europa
sono tutti in competizione fra loro, ma nessuno converge verso nessun
altro. Lunico denominatore comune è il mercato. Queste
organizzazioni danno il meglio di sé quando sono messe a
bagno nella concorrenza aperta e globale.
È il concetto di responsabilità sociale che differenzia
lEuropa dagli Stati Uniti. Secondo unanalisi dellOcse,
la spesa pubblica sociale è circa il 27 per cento del Pil
in Francia, Germania e Italia in Svezia addirittura il 38
per cento mentre si aggira intorno al 16 per cento negli
Usa. La differenza tra i livelli di spesa pubblica europeo
e americano si manifesta in modo evidente a partire dal 1975.
Da quel momento vi è un notevole aumento della spesa in Europa,
mentre in Usa si mantiene costante nel tempo. Indagare quali siano
i motivi è compito dei politici.

Qualunque sia la ragione, queste differenze esistono e chiunque
operi in Europa deve considerare questo particolare contesto sociale
e politico. Sono convinto, sulla base della mia esperienza non solo
in Fiat ma anche in altre realtà industriali europee, che
si può e si deve cercare il dialogo costruttivo. E che le
soluzioni si possono trovare.
In Fiat abbiamo ottenuto risultati importanti sulla via del dialogo.
Dopo dieci anni e senza unora di sciopero, che è
un caso più unico che raro per lItalia è
stato rinnovato il contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni
sono stati assunti in fabbrica i primi giovani, in cambio di turni
straordinari di lavoro. Abbiamo siglato un importante accordo con
le istituzioni locali per la riqualificazione di Mirafiori, il più
grande complesso industriale italiano, che ha comportato anche lavvio
di una nuova linea di produzione e lassorbimento della cassa
integrazione congiunturale.
I risultati raggiunti dimostrano che trasformazioni simili sono
possibili, anche in un Paese con una forte coscienza sindacale e
con quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni chiamerebbe
«struttura del lavoro poco flessibile». Se dovessi scegliere
tra cercare di risolvere la relazione di General Motors con i suoi
sindacati (Uaw) o di trattare i livelli occupazionali in Europa,
io preferirei la seconda. Non cè dubbio che la produttività
e la flessibilità rimangano gli elementi-chiave del nostro
sviluppo industriale. In questo contesto, lItalia è
decisamente indietro rispetto al resto dEuropa, ma sono convinto
che è sulla strada del dialogo costruttivo che i problemi
si possono risolvere. Se una società liberale deve durare
nel tempo, è nel suo interesse sostenere coloro che sono
colpiti dal cambiamento.
LEuropa può e deve distinguersi nella creazione e nella
gestione di mercati liberi, riconoscendo e trattando in modo efficace
le conseguenze delle loro attività sui propri membri. E deve
farlo in maniera onesta e giusta, senza cadere preda di certi meccanismi
troppo protettivi che sono già in uso in alcuni Paesi membri
e che, soprattutto in Italia, possono seriamente minacciare la ripresa
industriale del Paese. Ma limpegno esiste e non può
essere ignorato.
Lo sviluppo di unimpresa non è solo una questione di
tecnologia o di risorse finanziarie. È prima di tutto una
questione di cultura. Le nostre imprese hanno bisogno di abbracciare
la sfida del nuovo e pensare al futuro come a una grande opportunità.
Hanno bisogno di un contesto trasparente e altamente competitivo.
Hanno bisogno di vivere la cultura del cambiamento come una necessità.
Di misurarsi ogni giorno sul merito, di fondare le proprie radici
sui valori della concorrenza e del mercato. Quello che ogni Paese
può fare è garantire che questa partita si giochi
alla pari, che le opportunità siano le stesse offerte ad
altre imprese in altri Paesi. In Italia non sempre queste condizioni
sono così facili da trovare.
Qualche ragione cè, se gli investimenti esteri sono
ancora così bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia,
servizi, infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza
personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono
aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo
e nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti. La
burocrazia non fa che alimentare se stessa. Perché porta
la società a chiudersi a riccio, a proteggere quello che
già esiste, senza mai affrontare le sfide del cambiamento.
Allo stesso modo, ci sono altri elementi importanti per costruire
un sistema economico che possa mostrarsi attrattivo
non soltanto per chi opera oggi in Italia, ma anche per le aziende
estere. Penso al miglioramento dei servizi pubblici, alla creazione
di una rete di infrastrutture efficiente e moderna, a cominciare
dal sistema viario e dei trasporti in genere. Ma penso anche alla
riduzione della pressione fiscale e ad un tema come il costo dellenergia,
che in Italia è decisamente eccessivo rispetto al resto dei
Paesi industrializzati.

Tutti questi ragionamenti valgono a maggior ragione per il Sud
Italia, dove è prioritario colmare il gap nei confronti del
resto del Paese. Ma la prospettiva con cui ci si deve muovere non
può essere quella assistenziale. La cultura dellassistenzialismo
produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso
di responsabilità. Il lavoro si crea solo se i meccanismi
economici sono efficienti e se gli stimoli del mercato sono forti.
In questo modo anche la cultura del cambiamento e quella della competizione
possono trovare un terreno fertile.
Credo che il caso della Fiat sia solo un esempio della ristrutturazione
dellindustria in Europa e della forza positiva del cambiamento.
Il nostro cambiamento è stato realizzato da un gruppo di
manager internazionali, molti dei quali italiani, che hanno abbracciato
lidea della competizione globale e che sono disposti a mettersi
in gioco e a coinvolgere gli altri stakeholders nel sistema economico
per raggiungere i necessari livelli di competitività. Grandi
organizzazioni sono il risultato dellesercizio della leadership
di uomini e di donne che comprendono il concetto di servizio, di
comunità, di rispetto fondamentale per gli altri, e che ispirano.
Cè una storia che non vi ho raccontato. In un certo
senso è troppo presto per raccontarla, è la storia
della trasformazione personale dei leader che sono stati coinvolti
nel rilancio della Fiat e delle persone che gestivano. Ci sono dozzine
di esempi simili e indubbiamente più validi e significativi:
General Electric negli ultimi 25 anni, prima con Jack Welch e adesso
con Jeff Immelt; la resurrezione di Ibm operata da Lou Gerstner;
le esperienze di Robert Oppenheimer nel Manhattan project con il
team che ha costruito la bomba atomica, lincredibile vittoria
di Bill Clinton nelle elezioni presidenziali del 1992... Ma lelemento
comune a tutti questi casi è che tutti hanno lasciato un
segno indelebile sulla formazione e sulla crescita dei leader. Sono
cambiati per sempre.
Stiamo imparando come si vive da sopravvissuti e stiamo sviluppando
le capacità di pensare al futuro in modo aggressivo e positivo.
E lo stiamo facendo in un Paese che è stato etichettato dallEconomist
strutturalmente e cronicamente perdente con titoli quali Arrivederci,
dolce vita e Dont cry for me, Italia. Ma
questa è la prova che cè speranza per tutti
noi: nemmeno gli inglesi hanno la capacità di andare oltre
i limiti della credulità e dellimmaginazione.
Dopo tutto, la storia della Fiat è la storia del potere della
leadership e della mancanza di paura di un gruppo di leader integri
impegnati a raggiungere gli obiettivi. Come dice Mel Gibson nel
film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini. Gli uomini
seguono il coraggio». E forse dobbiamo dare ragione a un teorico
politico molto frainteso Niccolò Machiavelli
che circa seicento anni fa disse: «Il ritorno al principio
è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo.
Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano
imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria
al suo esempio».
Noi stiamo costruendo un gruppo guidato da uomini e da donne di
virtù. Ed è grazie al loro coraggio e alla loro virtù
se oggi posso concludere citando la fine del libro Una storia tra
due città, di Charles Dickens, parafrasando le ultime parole:
«It is a far, far better thing Fiat does, than it has evr
done. It is a far, far better place, it is going to than it has
ever gone». Tradotto: «Fiat sta facendo molto, molto
meglio di quanto non abbia mai fatto. Sta andando verso un posto
migliore, molto migliore di quanti non abbia visto mai».
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