Se la memoria ha un nome, Caporetto oggi è,
oltre lantico confine, in una terra che fu italiana e che
è in mano ai nemici di allora, e si chiama Kobarid.
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Sono passati novantanni, ma la ferita di Caporetto sanguina
ancora. Anche se la ricorrenza è passata sotto silenzio.
Nel nostro Paese, dilaniato dalle ideologie in ritardo, è
così. Facile profezia: si parlerà a proposito e a
sproposito del quarantennale del Sessantotto, e se ne parlerà
in lungo e in largo, interverranno politici, sindacalisti, sociologi,
storici di tutte le scuole e di tutte le parrocchie, saccenti di
tutte le estrazioni, relativisti di tutte le compromissioni culturali,
reduci e superstiti; e nella gran confusione che sarà creata
non emergerà nulla di nuovo: la consueta kermesse allitaliana
vedrà sfilare nani e ballerine in televisione, nei salotti
cosiddetti buoni (a nulla!), negli inutili e balbettanti circoli
letterari, nelle noiosissime e antiquate tavole più o meno
rotonde, e ci proporrà dotti elzeviri sui giornali e frettolose
inchieste negli instant books; ci ricorderanno che il Maggio
francese fu preceduto di un anno da quello ruspante
delluniversità di Trento, dove Renato Curcio
e compagni inaugurarono i giorni della rivolta, culminati nellidea
armata di quella Brigata rossa che poi fu volta al plurale
e diede origine alla sanguinosa stagione del terrorismo nostrano;
e qualcun altro ci rammenterà che lo stesso Maggio francese
era stato anticipato di parecchi mesi a Berlino, e che già
nellautunno 67 Rudi Dutschke aveva fondato una contro-università,
che si proponeva il fine di appropriarsi collettivamente della cultura
e di rovesciare la società di massa dal suo interno, condannando
la meritocrazia, e dandoci come esito finale il crollo delle intelligenze
di élite, quali sono invece attive oggi, per favorire la
crescita della cultura e della scienza europea.
Ma nulla sul Primo conflitto mondiale, visto dalla parte della
Penisola. Esattamente come è accaduto nel 2007 per lanniversario
della Rivoluzione dOttobre, celebrata si fa per dire
in Parlamento da un solo deputato marxista, il quale, fedele
alla tradizione della sua parte politica, secondo la quale la verità
è lultima delle cose che deve essere resa nota al mondo,
ha sostenuto senza un minimo sussulto di pudore che allepoca
si abbatté la tirannide zarista, mentre in realtà
fu fatta fuori la democrazia che era sorta nella Russia dopo la
caduta dello Zar; e ha condannato i lager nazisti, e questi soltanto,
dimenticando di citare, non certo per distrazione, le centinaia
di migliaia di vittime dei primi mesi di governo dei Soviet, lasciando
in un cono dombra anche i gulag (della Siberia, dellUzbekistan...)
nei quali morirono di lavoro forzato, di malattia e di stenti altre
centinaia di migliaia di esseri umani, e guardandosi bene dal citare
le deportazioni di interi popoli, con altri milioni di morti. Mutismo
imposto dal servilismo ideologico, questo.
Vicenda da non rivangare per coscienza molto sporca, laltra,
quella che riguarda lanniversario della più grande
disfatta subita dallesercito italiano, che si concluse col
tragico bilancio di 11 mila 600 morti, 30 mila feriti, 350 mila
sbandati e 265 mila prigionieri, 400 mila profughi civili, oltre
800 mila abitanti della regione friulana consegnati per un anno
al ferreo regime di occupazione, quantità enormi di materiale
abbandonate nelle mani nemiche, su cui è sceso un silenzio
assordante.
Eppure, proprio in quei giorni tremendi venne fuori il meglio e
il peggio dellItalia, emersero il temperamento anarchico che
faceva capo alle culture etniche mai superate dallesigenza
collettiva di sentirsi un solo popolo, (e per questo sbandamenti,
fughe, diserzioni in massa, violenze dogni tipo), e labnegazione
di chi nella sventura trovò la forza di affermare un principio
nuovo di dignità nazionale scevra dagli egoismi localistici
e individuali, (e per questo imposizione di autodisciplina, ritorno
dorgoglio italiano, eroismi sconosciuti, rinnovata consapevolezza
di battersi per una causa nobile e giusta).
Sicché da una parte il silenzio sta bene alle forze politiche
(per ogni altro verso contrapposte) che interpretarono il Primo
conflitto mondiale come esito di una spoliazione avvenuta con la
conquista degli Stati Pontifici e con la presa di Roma, e dallaltra
si manifesta come evento incompiuto, o concluso ad opera di lobby
verticistiche, con una rivoluzione senza popolo che ha condannato
lItalia alla sudditanza a forze economico-politiche coalizzate
in nome dellalta borghesia produttiva e alla conseguente perenne
decadenza morale e civile. (E in proiezione diretta nel tempo: da
una parte il compimento di una redenzione di città
e regioni che rientravano non soltanto nei confini naturali, ma
anche in contesti culturali, storici, linguistici, antropologici
della Penisola, come destino di unItalia unificata dallo spirito
diniziativa tipico dei Paesi avanzati; e dallaltra terre
al traino, presunti paradisi in realtà abitati da diavoli,
aree della illegalità diffusa, terre dellassistenzialismo
non redimibili e perciò da abbandonare alla deriva mediterranea
e terzomondista).

La carenza di fonti ufficiali, daltra parte, non ha consentito
di approfondire lanalisi dei fatti che si verificarono prima,
durante e dopo lo sfondamento delle linee nella Valle dellIsonzo,
il 24 ottobre 1917, e le conseguenze di lungo periodo che si sarebbero
verificate. Ma documenti esistono, erano stati scritti da alti ufficiali
che furono coinvolti in quella vicenda, e tuttavia sono rimasti
in ombra, o sono stati del tutto ignorati da chi ha portato avanti
analisi storiche parziali, e da chi ha strumentalmente messo in
scena processi sommari. E ci sono molte ragioni per le quali questo
è accaduto, prime fra tutte quelle di chi scampò miracolosamente
alla condanna, scalando addirittura i gradini del potere nelle fasi
successive, fascista e post-fascista, come il generale Badoglio,
oppure, su un livello appena inferiore, come alcuni altri alti e
medi gradi del Regio Esercito Italiano coinvolti nel disastro provocato
dalla mancanza di strategia, di sistemi efficienti dintelligence,
di visione predittiva e di comportamento allaltezza della
situazione che si registrò in quei drammatici giorni.
Tra gli scritti mai compulsati, e ovviamente sprofondati nelloblio,
una serie di carte inedite originali: sono, ad esempio, le relazioni
firmate dal generale Emanuele Pugliese, allepoca comandante
della brigata Ravenna. Il primo è un dattiloscritto
di trenta pagine, redatto nel gennaio 1919 per la Commissione dinchiesta
su Caporetto. A questo è allegato un testo manoscritto, che
raccoglie il brogliaccio quotidiano delle azioni compiute dalla
Ravenna durante il ripiegamento verso i corsi del Tagliamento
e del Piave.
Il dossier emerge dallarchivio dello storico Gianfranco Bianchi,
scomparso quindici anni fa, nel 1992. La ragione per la quale queste
carte sono rimaste per un così lungo tempo sepolte probabilmente
è da attribuire, fra laltro, al fatto che lautore
del brogliaccio e dellinchiesta non esita a indicare le cause
reali del crollo del fronte italiano. Facendo nomi e cognomi, lusso
proibito nellItalia dei misteri antichi e nuovi.
Per la memoria storica. Tra giugno e settembre del 1917, le truppe
italiane avevano combattuto la decima e lundicesima battaglia
dellIsonzo, riportando solo modesti successi, al costo di
immense perdite umane. Sembrava che linverno alle porte non
potesse dar luogo ad ulteriori combattimenti, tanto che ai primi
di ottobre vennero concesse ai soldati più di 120 mila licenze:
le voci di unoffensiva nemica, di cui il ministro degli Interni
Orlando aveva chiesto conferma il 9 ottobre, non furono ritenute
credibili da Cadorna.
Invece, nella notte del 24 ottobre ebbe inizio lattacco nemico.
La XIV armata mista (sette divisioni tedesche e otto austriache),
al comando del generale tedesco von Below, dopo un violento attacco
preceduto dal lancio di gas fosgene, annientò i difensori
della parte sinistra del fronte (quattro divisioni, più una
al comando di Badoglio, che poi fu accusato di aver gestito lartiglieria
con scarsa oculatezza), mentre la II armata comandata dal generale
Capello, forte di 25 divisioni, con 3.500 bocche da fuoco, fu costretta
a ritirarsi.
Lesercito nemico riuscì a impossessarsi delle posizioni
italiane nella Conca di Plezzo, sulle pendici del Vodhil e sulla
sponda destra dellIsonzo, spingendosi nel fondovalle fino
a Caporetto. Lavanzata (nel corso della quale fece le sue
prime esperienze di guerra un giovane capitano, Erwin Rommel) fu
bloccata soltanto il 9 novembre sulla linea Asiago-Montegrappa-Piave,
presidiata da 35 divisioni di fanteria e 4 di cavalleria, più
600 aerei, oltre a 4 divisioni inglesi, 6 francesi, unamericana,
contro le quali si infransero (nella cosiddetta battaglia
darresto, inizialmente, e di contenimento
preliminare alla controffensiva, in seguito) gli attacchi di 55
divisioni austro-germaniche.
La battaglia del Piave, detta anche del solstizio, si
concluse con 8.000 morti, 29.000 feriti e 25.000 prigionieri, aggiunti
ai 300 mila già in mano austriaca dallinizio della
guerra e ai 280 mila della disfatta di Caporetto. Triste storia,
quella dei prigionieri italiani: in 100 mila morirono nei campi
di concentramento per fame, paradossalmente per colpa del nostro
governo. LItalia, infatti, non aveva voluto aderire alla convenzione
tra i Paesi belligeranti, che assicurava periodici invii di vitto
per i prigionieri, nella cinica convinzione che fosse difficile
distinguere tra prigionieri e disertori, (disertori in maggioranza
di bassa estrazione sociale, piccoli artigiani, uomini di generica
fatica, zappatori, guardiani di bestiame, primogeniti strappati
alle campagne e alle famiglie con redditi da corte dei miracoli
),
e che quanto più drammatiche fossero le condizioni di chi
cadeva in mano al nemico, tanto più impegno veniva profuso
in combattimento.

Al centro della requisitoria di Pugliese cè
e non solo in filigrana la memoria dellinettitudine
di tanti comandi, i quali, ad esempio, senza limpiego preliminare
di esplosivi per far saltare i reticolati, avevano imposto assalti
frontali a trincee inespugnabili che, oltre che cruenti, si erano
rivelati del tutto inutili; e per converso, cè la denuncia
del vuoto di comando che si verificò in conseguenza del panico,
prima, e del terrore poi, dilagati tra i nostri soldati colti di
sorpresa dallattacco nemico. Il collasso fu immediato. Allannientamento
del fragile schieramento difensivo sullala sinistra del nostro
schieramento seguì la disarticolazione dellintera macchina
da guerra approntata da Cadorna, poi sostituito da Diaz.
La fiumana di soldati nemici, rotti gli argini, precipitava «come
un masso nel vuoto»: così scrive il comandante della
Ravenna, una delle poche unità che cercò
di opporsi allavanzata nemica. Lo smottamento, da piccolo
che era, divenne una valanga che travolse ogni cosa, dal momento
che «molti ufficiali furono impari al loro dovere».
Il quadro degli eventi è nitido: dappertutto era uno sventolare
di fazzoletti bianchi, le truppe si facevano disarmare dagli austro-tedeschi,
torme di militari erano allo sbando «con un fagottino sul
braccio, ridenti e scherzanti. Appresi che erano stati disarmati
da pattuglie austriache con mitragliatrici
».
La rotta caotica di intere divisioni, se rappresentò un fattore
di cedimento dellintero fronte, si trasformò in catastrofe
a causa dello spettacolo di artiglierie e di carriaggi abbandonati
intatti sulle vie di transito. I militari che si ritiravano, oltre
a cozzare contro questi ostacoli, procedevano spesso su direttrici
perpendicolari, incrociandosi fino a dar luogo a giganteschi grovigli
umani.
Fu una pagina vergognosa, della quale ci hanno lasciato memoria,
fra gli altri, i libri di Emilio Lussu (Un anno sullaltipiano)
ed Ernst Hemingway (Addio alle armi), oltre al celebre
film di Rosi, del 1970 (Uomini contro), ispirato al
racconto di Lussu: masse di sbandati si abbandonavano a saccheggi
e violenze, mentre cominciavano le decimazioni ordinate dai comandi
superiori.
«Io sono convinto», scrive Pugliese, «che, nei
giorni 25 e 26 ottobre e seguenti, se una volontà decisa
di comando superiore avesse imposto la decisione di fermarsi, facendo
trovare riserve intatte sulla linea del Tagliamento, e fucilando,
mitragliando, se occorresse, i primi datisi alla fuga, la grande
massa delle nostre truppe si sarebbe arrestata, lieta di arrestarsi,
e avrebbe resistito vittoriosamente. Credo che parecchi, se non
molti ufficiali inferiori, in molti reparti siano stati i primi
a ritirarsi. E il soldato naturalmente seguì il doloroso
esempio. Purtroppo per noi, la concezione, a mio parere esagerata,
delle condizioni morali delle nostre truppe non ci ha consentito
di riprenderci che al Piave». Parole pesanti come macigni.
Se tutti i capi militari avessero agito con questo spirito, probabilmente
non ci sarebbe stata Caporetto.
Che le radici profonde del male che affliggeva lesercito italiano
fossero la burocratizzazione e il carrierismo, Pugliese lo afferma
apertamente, indicando che la «regola del signorsì
a tutti i costi» impediva ai livelli superiori di conoscere
le condizioni reali della truppa. Obiettare a un ordine, prospettando
difficoltà e limiti tecnici, era considerato grave sintomo
dinsubordinazione. Conclusione ovvia: norma autoconservativa
di ogni superiore era di scaricare «nei momenti gravi le proprie
responsabilità sugli inferiori, in modo tale che, nel caso
di insuccesso, la sua responsabilità fosse salvaguardata».
Ultime considerazioni in brogliaccio: per i primi due anni del conflitto
lesercito italiano non soltanto si trovò in condizioni
di inferiorità, dal punto di vista dei mezzi bellici, ma
proiettili dartiglieria e mitragliatrici non furono adeguatamente
impiegati per gli attacchi a sorpresa, nei quali invece il nemico
eccelleva. Ancora: la piaga maggiore, nel governo delle truppe,
consisteva nella mancata ed equilibrata concessione delle licenze.
Le fanterie in particolare erano lasciate per mesi nel fango algido
delle trincee. Infine, limpeto delle truppe risultava frenato
da fattori materiali che influivano sul livello morale generale.
Il comando supremo frustrava le aspettative dei quadri superiori,
i quali a loro volta prolungavano verso il basso la catena della
sopraffazione. Anche per tutto questo ci fu Caporetto.
E Caporetto suona come una maledizione. Fin dal 1859 Friedrick Engels,
autore con Marx del Manifesto del Partito Comunista,
aveva indicato questo paese come punto di sfondamento del fronte
italiano da parte degli austriaci. Terribile profezia, che, una
volta avveratasi, diede luogo a una serie di contraccolpi. Due particolarmente
rilevanti: mentre gli italiani arretravano sulla destra del Piave,
il presidente del Consiglio, Paolo Boselli, venne sostituito con
Vittorio Emanuele Orlando; pressato dagli alleati, il nuovo Gabinetto
defenestrò Cadorna e nominò Diaz, con Badoglio vice.
L8 settembre, a Peschiera, Vittorio Emanuele III aveva assicurato
che lItalia avrebbe reagito. Così avvenne. Il Paese
si risollevò, e un anno dopo vinse a Vittorio Veneto. Ma
durante la riscossa, politici e militari si fecero tutto il male
possibile. Per avere lappoggio di giolittiani, socialisti
e cattolici, era necessario farla pagare ai comandanti, a cominciare
da Cadorna, che nel bollettino di guerra aveva tacciato i soldati
di viltà. Perciò il 12 gennaio 1918 venne istituita
una commissione amministrativa dinchiesta sul ripiegamento
dallIsonzo al Piave, detta su Caporetto,
(quattro militari e tre politici, tra i quali il socialista interventista
e massone Orazio Raimondo): fu presieduta dallammiraglio Carlo
Caneva, a suo tempo rimosso da Giolitti perché scarsamente
incisivo in Libia. Tra il 15 febbraio 18 e il 25 giugno 19,
la commissione raccolse 1.000 testimonianze e relazioni sintetizzate
in tre volumi. Vi accusò Cadorna di «applicare esecuzioni
sommarie non sempre giustificate», oltre che di gravi arbitrii,
e denunciò Luigi Capello, comandante della II armata, quella
che aveva ceduto, per «prodigalità di sangue sproporzionata
ai risultati»: un macello, insomma. Insinuò che papa
Benedetto XV, quello dell«inutile strage» avesse
sabotato la resistenza dellItalia con un comportamento apertamente
filo-austriaco, (ma in pieno XX secolo si è ipotizzato che
la Grande Guerra fu voluta dalle potenze politiche anglo-sassoni
e protestanti per portare un ultimo, decisivo attacco al blocco
cattolico europeo che faceva perno sullAustria-Ungheria).
Mise alla gogna gli alti comandi, scaricando sui militari lira
di neutralisti e interventisti delusi.
Conclusione? I generali Cadorna, Capello, Porro e Cavaciocchi furono
messi a riposo, altri tre furono dichiarati a disposizione.
Se la cavò Badoglio, non perché massone, come è
stato detto troppe volte senza prove, ma perché colpire lui
significava attaccare Diaz e giungere fino al re.
LItalia, che si era angosciosamente interrogata nel dopoguerra
sulloffensiva austro-germanica, (ma le truppe impiegate erano
solo in parte austriache e tedesche, per lo più essendo composte
da croati e sloveni), non si risollevò dallinchiesta
su Caporetto. Subito dopo la sua pubblicazione (anticipata da indiscrezioni
sui quotidiani), DAnnunzio intraprese la marcia di Ronchi
su Fiume: rivolta militare che precorse la marcia su Roma. Nella
speranza di essere riabilitati, generali silurati come Capello si
unirono a Mussolini, il quale ebbe il controllo delle forze armate
fino alla catastrofe successiva, quella dellestate 43.
Si dice che Vittorio Veneto abbia concluso il Risorgimento. E sarà
certamente così. Solo che non esisteva una località
con quel nome, che fu inventato sul tamburo e attribuito ad unarea
nella quale la sconfitta del nemico si era trasformata in rotta.
Segni drammaticamente visibili del sipario calato sulle guerre dIndipendenza
furono subito oltre un milione e 200 mila feriti,
metà dei quali invalidi; e sono le centinaia di Monumenti
ai Caduti che svettano nei centri cittadini di tutta Italia, ma
soprattutto del Sud, terra che pagò il maggior tributo di
giovane sangue alla redenzione della Patria. Se la memoria ha un
nome, Caporetto oggi è, oltre lantico confine, in una
terra che fu italiana e che è in mano ai nemici di allora,
e si chiama Kobarid. Il sacrario che raccolse i soldati caduti (e
vilipesi) adesso è in stato di abbandono. Così lItalia,
rinnegando lo scialle nero della sua Storia, ripaga i soli incolpevoli
uomini che sacrificarono la vita, perché non fosse del tutto
svenduto lonore.
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