Forse ci volevano il Rinascimento e la riscoperta
del valore della mente umana per rendere possibile la
rivoluzione di idee che culminò nella sintesi di Newton.
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Questo è lOrdine del giorno che Garibaldi fece diffondere
il 16 maggio 1860, dopo la battaglia di Calatafimi. La marcia dellEroe
dei Due Mondi in Sicilia è trionfale. E il suo mito cresce
ad ogni miglio percorso. Un mito che non è mai tramontato,
se ancora oggi dà il nome a tre città, in Brasile,
in Argentina e nellOregon (Usa), a una montagna canadese,
a più di 5.500 piazze e strade italiane, persino a un trofeo
italo-francese di rugby; e se il New Yorker dedica al
bicentenario della sua nascita ben sei pagine, a Washington lo si
è celebrato il 3 luglio, vigilia della Festa dellIndipendenza
americana, con migliaia di italo-americani presenti, con i politici
italiani scorrettamente assenti.
Gli studiosi e gli ideologi potranno dividersi per secoli sulle
vite e sui veri ruoli dei protagonisti della Storia: ciò
vale per Lincoln e per Cavour, per Jefferson e per il Nizzardo.
Ma quel che insegna la notte di festa sotto la statua delleroe
italiano che campeggia a Washington Square, nel cuore del Greenwich
Village, è che una nazione ha bisogno, appunto, di miti.
Negli Stati Uniti, gli eroi con la visione rivoluzionaria che scrissero
la Costituzione e cacciarono gli inglesi si chiamano tutti Padri
Fondatori, anche quelli che possedevano gli schiavi. Il loro nome
è un patrimonio che ispira tutti i cittadini americani ancora
oggi, e che ha fatto dellultima nata tra le nazioni la democrazia
più antica e di maggior successo.
Ora, al modo di Voltaire, Garibaldi massone come il filosofo,
e come lui nemico acerrimo della Chiesa cattolica era coinvolto
in una redditizia attività economica: la tratta degli schiavi.
In America Latina i furti di cavalli gli avevano procurato il taglio
dei padiglioni auricolari. Lungo la rotta da Callao Perù
a Canton, trasportava e vendeva guano, riportando indietro
cinesi «tutti grassi e in buona salute» da smerciare
sul mercato dei fazenderos. Fu questo il personaggio che, già
celebrato per le vittorie riportate in patria e fuori contro gli
oppressori dogni genere, il 5 maggio 1860 con i Mille (1.089,
in realtà) mosse dallo scoglio di Quarto alla volta della
Sicilia, protetto dagli inglesi del primo ministro Palmerston, senza
il cui aiuto ammette Garibaldi «Napoli sarebbe
ancora borbonica», e dallammiraglio britannico Mundy,
senza la cui copertura navale i garibaldini non avrebbero potuto
mai varcare lo Stretto di Messina.
Chi erano i Mille? Garibaldi li descrive così: «Tutti
generalmente di origine pessima e per lo più ladra; e tranne
poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza
e del delitto».
Che immagine di sé lascia il Generale dopo limpresa
che in pochi mesi, tra il maggio e lautunno del 1860, include
il Sud dItalia nel Regno dItalia in fieri? Scrive il
frammassone Pietro Borrelli, firmandosi Flaminio, sulla
Deutsche Rundschau dellottobre 1882: «Non
si deve lasciar credere in Europa che lunità italiana,
per realizzarsi, avea bisogno duna nullità intellettuale
come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione di Sicilia
fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli
girovaghi, percorrevano lisola e compravano a prezzo doro
le persone più influenti».
Ebbe un qualche fondamento, allora, il mito? Intanto, oltre alle
glorie colte al di là e al di qua dellAtlantico, Garibaldi
fu, dopo tutto, se non il regista dellelevazione a potenza
politica dellItalia, perlomeno lartefice di una liaison
importante: quella tra le due parti più antagoniste e lontane
del nostro Paese. Egli riuscì in unimpresa che aveva
del miracoloso: la scommessa fu di far convivere, se non in un comune
disegno, almeno in una lunghissima tregua darmi, monarchici
e repubblicani, moderati ed estremisti, conservatori e rivoluzionari.
Ecco un aspetto che la storiografia italiana ha costantemente messo
in ombra, o ha rimosso, o infine ha preferito far finta di non intravedere:
Garibaldi è tutto dentro il ruolo, che è esclusivamente
suo, su quel crinale tempestoso che adombra, ad ogni tappa significativa
della nostra storia risorgimentale, il presagio di una guerra civile
sempre prossima a conflagrare. Questo elemento altamente drammatico,
che costituisce la filigrana più rilevante e più scomoda
del nostro Risorgimento, per carsici percorsi è giunto fin
dentro lintero nostro Novecento.
In questo senso, Garibaldi è Eroe dei Due Mondi non solo
nel senso delle due rive dellAtlantico, ma in quello delle
conflittualità dentro casa nostra. Egli sutura anche
se non rimargina definitivamente le ferite che dividono la
società italiana, coordina le forze, orchestra la loro azione,
col fine ultimo dellunificazione nazionale, fino alla capitolazione
delle camicie rosse, una volta che la stagione eroica
si chiude registrando, come si diceva allepoca, il passaggio
dalla poesia delle imprese più ardite il Gianicolo,
Calatafimi, lAspromonte, Mentana alla prosa della politica
quotidiana, ovvero al trasformismo di Depretis e poi al piglio autoritario
dellex cospiratore Crispi.
Piegati dalle esigenze personali, i Mille volontari diventano, con
pochissime eccezioni, dei puri e semplici reduci, messi in pensione
se si comportano bene col modesto vitalizio governativo
di mille lire. E la ciurma di ribaldi descritti dal Generale finisce
per adeguarsi, più o meno consapevolmente, alle emergenze
conclamate di un potere sempre più cinicamente spregiudicato
nellutilizzare, fino allinterventismo della Grande Guerra,
il mito garibaldino.
Scrivendo a Carlo Pellion di Persano, Massimo DAzeglio ammette
di sentire addosso «la pelle doca al pensare che cosa
si direbbe in Europa» se fosse pubblicato il Diario
privato politico-militare dellammiraglio, che facendo
ricorso alle rivelazioni contenute in quelle pagine cercava di limitare
i danni prodotti alla sua immagine e alla carriera
dalla vergognosa sconfitta navale di Lissa del 1866. E quella pelle
doca gli veniva perché Persano, inviato da Cavour con
una squadra navale nelle acque siciliane per proteggere, ma soprattutto
per controllare Garibaldi, scriveva degli invii piemontesi di uomini
e di armi che affiancassero i Mille, delle spese per la corruzione
dei quadri della marina e dellesercito del Borbone, degli
intrighi per mettere in moto le sollevazioni popolari.
Era stato ottimo, il lavoro svolto da Persano. Il quale tuttavia
lamentava la scarsa qualità dei sobillatori-rivoluzionari
spediti a fianco delle camicie rosse garibaldine: «Converrebbe
tenere gli occhi ben aperti sulle spedizioni degli individui [
]
e veder modo di ritenere molta gentaglia che muove per queste contrade
a nessun altro scopo, se non per quello di pescar nel torbido».
Ma insomma, chi ideò, progettò, tirò nellombra
le fila dellimpresa? È illuminante, in proposito, quel
che scrisse a Pietro Poggi, il 5 settembre 1860, Giuseppe La Farina
(fra le centinaia e centinaia di lettere redatte mentre, al servizio
di Cavour, coordinava con la sua Società Nazionale tutte
le attività sovversive oltre le frontiere piemontesi): «Il
movimento dellItalia centrale fu opera nostra, e riuscì;
la spedizione in Sicilia fu fatta coi mezzi nostri, ed è
riuscita
».
Ma illuminante è unaltra lettera, spedita a Pietro
Sbarbaro, il 14 ottobre dello stesso anno, nella quale La Farina
confessa:
Vè una parte della mia biografia completamente
sconosciuta, ed è forse la più importante, voglio
dire le mie relazioni col conte di Cavour: relazioni intime,
e pur tenute segretissime dal 56 al 59, e non sospettate
né anco dagli amici stretti del conte [
]. Io vedeva
il conte di Cavour quasi tutti i giorni prima dellalba,
fui io che gli feci conoscere Garibaldi, e che lindussi
ad adoperarlo nella guerra dindipendenza che si apparecchiava
[
]. Le potrò dare notizia della parte presa da
me e dalla Società Nazionale alla spedizione di Sicilia;
ed Ella vedrà che il concetto fu mio; che Garibaldi esitava
(e ne ho documenti); che le armi e le munizioni furono somministrate
a Garibaldi da me; egli non aveva nulla. |
E sempre allo stesso Sbarbaro, in una lettera di poco posteriore:
Glindugi alla partenza vennero da Garibaldi
e dai suoi amici, i quali dicevano quella impresa una follia
[
]. Garibaldi si decise a partire, quando seppe che i
Siciliani sarebbero partiti senza di lui. Questa è la
verità vera. |
A conferma di tutto ciò, ove ve ne fosse bisogno, è
quanto scrive in un suo Pamphlet lintellettuale
e politico Pier Carlo Broglio: Garibaldi «liberò la
Sicilia, ma di grazia con quali armi? [
]. Dicano da chi avessero
i cannoni e le munizioni da guerra? E le somme ingenti di denaro?
Dicano dove si alloggiassero le centinaia, e talora le migliaia,
di volontari congregati in Genova per lo imbarco? [
]. Oh!
Bene saccorgerà il paese quando il Ministero sarà
alla resa dei conti del pubblico denaro [
]. Resa dei conti
la quale tuttavia crediamo riuscirà più facile, più
limpida e più tranquillante che non quella a cui si volessero
accingere gli attuali sgovernatori di Napoli e di Sicilia, ai quali
incumberebbe obbligo di dar congrua dimostrazione dellimpiego
delle somme di pubblica ragione trovate in Palermo, e delle altre
della stessa natura, ma anche più considerevoli trovate in
Napoli [
]. Senza le armi, le munizioni e i danari dati dal
governo di Vittorio Emanuele non avrebbero approdato a quella iniziativa.
E quanto a Napoli, dove ebbe a combattere Garibaldi
? Perché
entrò senza colpo ferire nella capitale Partenopea?».
I plebisciti, poi. A Modena, a Parma, a Reggio, e nella stessa
Firenze. Il capo della polizia, Culetti, stretto collaboratore e
instancabile informatore di Cavour, ricorda: «Un picciol numero
di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della
chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso
piemontese, di quelli che si erano astenuti».
La dittatura organizzata nei vari regni italiani annessi in nome
della libertà produsse mostri. Ovunque. Mentre Farini governava
nel terrore dopo aver liberato i detenuti politici, ma anche quelli
comuni, non trascurando di saccheggiare i beni personali (argenteria
e cantina comprese) del duca di Modena, in Toscana Ricasoli, come
scrive lo stesso Cavour al Re, «governa come un Pascià
turco, non badando né a legge né a legalità».
Dello stesso Ricasoli, in I miei tempi, il deputato-romanziere
Angelo Brofferio racconta le gesta: «Nessuna libertà
di persona, di domicilio, di stampa; ogni associazione vietata,
violato sistematicamente il secreto delle lettere; uomini senza
fede e senza carattere onorati; reietta la libertà religiosa;
la guardia nazionale ordinata a servizio di polizia, non a difesa
nazionale; il pubblico erario dilapidato per saziare lingordigia
di nuovi favoriti; lusso di birri e di spie allinfinito; pauroso
silenzio dappertutto; espulsioni, arresti, perquisizioni, mene quotidiane;
insomma dal barone Ricasoli al Duca dAtene la distanza non
era molta».
Incalzava Civiltà Cattolica del 27 ottobre 1860:
nonostante i bandi che ovunque seminavano terrore, «loppressione
libertina è tanta, che in molti luoghi i popoli ne vollero
scuotere il giogo. Ad Avellino, ad Ariano, a Isernia, a Monteodorisio,
a Tagliacozzo, in Rocca di Mezzo, a Civitanova, a Carovilli, a Pietrabbondante,
a Pescolanciano, a Chiauci e in cento altre città e borgate
la nazione scoppiò come un vulcano, e fu spenta nel sangue
sparsovi largamente e con inaudita crudeltà dai sicari Garibaldini
guidati da Ungheri, da Scozzesi, da Inglesi e da Francesi».
Lo stesso La Farina, in una lettera spedita a luglio a Giuseppe
Clementi, aveva ammesso: «Cosa sia il suo [di Garibaldi in
Sicilia, N.d.R.] governo non è poi agevole di descrivere:
non cè più legge, non vè più
magistrati; disordine, violenza, malversazione, e furto da per tutto.
Degli onesti liberali non uno tenuto in pregio; i bricconi più
svergognati, gli usciti di galera per furti e per ammazzamenti,
compensati con impieghi e con gradi militari. La sventurata Sicilia
è come caduta in mano di una banda di Vandali
».
E sempre La Farina, da Palermo, in una lettera a Cavour: «Qui
non siamo nellItalia settentrionale, qui le grandi riputazioni
si creano e si disfano in un mese; qui il popolo è di una
sagacia così meravigliosa, che da un atto giudica un uomo.
Già la grande maggioranza dei Siciliani conoscono ciò
che in Garibaldi vè di buono e di cattivo [
].
Per luomo di guerra vè affetto, riconoscenza,
ed ammirazione; ma non vè alcuno che lo creda capace
di governare uno Stato di 2.300.000 abitanti, e massime uno Stato
come la Sicilia».
Proprio nellisola, fra laltro, si dispiega loperato
di Gerolamo Bixio, detto Nino. Scrive infatti Civiltà
Cattolica a proposito del generale garibaldino: «
Risulta
che nelle Due Sicilie vennero trucidate, per vendetta politica,
non meno di 7.000 vittime; e che il solo Nino Bixio segnò
700 condanne a morte». E rincara LUnione:
«Bixio ammazza a rompicollo, allimpazzata [
],
fa moschettare tutti i prigionieri stranieri che gli capitano fra
le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano
far motto di disapprovazione
».
LItalia è fatta, bisogna fare gli italiani:
il celebre motto del cavalier Massimo DAzeglio chiarisce con
immediatezza qual è lidea che i protagonisti del Risorgimento
si son fatti dei propri connazionali. Gli italiani vanno fatti risorgere
secondo il modello fornito dall1 per cento della popolazione,
che professa idee liberali. E quale sarebbe linfamia che renderebbe
gli italiani indegni delle loro tradizioni e inferiori rispetto
ai popoli del Nord Europa e dellAmerica? Presto detto: sono
rimasti cattolici. Il dramma dellItalia, e soprattutto del
Sud, è tutto qui. Lo storico valdese Giorgio Spini così
descrive il clima dellepoca: «LItalia è
già circondata da una sorta di assedio protestante, stesole
attorno dallepiscopato anglicano, dal presbiterianismo scozzese
e dallevangelismo libero di Ginevra e Losanna,
con un appoggio anche del protestantesimo americano [
]. Quanti
sono in Torino, o nellItalia in genere, tra il 1849 e il 1860,
a domandarsi se proprio quel problema della riforma religiosa non
stia diventando il problema capitale della situazione italiana?».
È sempre il cavalier DAzeglio a ricordarci un detto
che ben raffigura la situazione ambigua dellepoca: «Lipocrisia
è un omaggio del vizio alla virtù». Ebbene,
al momento della proclamazione del Regno dItalia, la Chiesa
italiana è profondamente sconvolta: più di 100 sono
le diocesi senza vescovo, ben 57 quelle del vecchio Reame, Napoli
e le maggiori città meridionali incluse. Il rigore un giorno
usato contro i malviventi viene riservato ai cattolici: monaci,
monache, frati, suore gettati sul lastrico; sacerdoti sbeffeggiati,
incarcerati, uccisi; il patrimonio artistico e culturale della nazione
finito in case private o semplicemente distrutto; smantellato il
sistema di sicurezza sociale rappresentato dalle opere pie; irrise
la fede, la cultura e le tradizioni delle popolazioni. E malgrado
ciò, si imponeva di cantare il Te Deum in onore della nuova
civiltà e della nuova moralità.
Enorme, poi, il bottino: un milione di ettari di terra confiscati,
con migliaia di edifici, conventi, romitori, chiese, cappellanie,
diffusi sul territorio della Penisola. E beni demaniali acquistati
a prezzo vile: oltre un milione e mezzo di ettari, secondo le valutazioni
dello storico (marxista) Emilio Sereni: terreni situati in massima
parte nellItalia meridionale, nel Lazio e nelle Isole.
Nel novembre 1854, durante la guerra di Crimea, inizia la storia
della corrispondenza di guerra, con il resoconto della carica della
brigata leggera raccontata dal vivo sul Times di Londra
dal reporter William Howard Russel. Prima di allora, i direttori
dei giornali avevano ripreso le notizie dai quotidiani stranieri,
oppure si erano rivolti a collaboratori militari, giovani ufficiali
ovviamente pressappochisti e parziali. Con Russel, dunque, ebbe
inizio il giornalismo embedded, come si dice oggi: con
un narratore dei fatti inviato al seguito.
Nellavventura da Quarto al Volturno del 1860 ci furono numerosi
giornalisti e letterati embedded, i quali contribuirono
a creare il mito di Garibaldi: gloria meritata sul piano militare,
intendiamoci; ma anche agiografia non del tutto disinteressata,
almeno da parte di alcuni di coloro i quali seguirono i Mille fin
dallinizio.
Alessandro Dumas, convinto repubblicano, redasse numerosi reportages
sulla spedizione, raccolti poi nel libro Les Garibaldiens
(1861). Caduti i Borbone, rimase a Napoli, protetto dallEroe
dei Due Mondi. Vi fondò e diresse il giornale Indipendente,
sul quale invitava alla moderazione i vincitori e difendeva i vinti,
in nome di una cavalleresca tolleranza. Le sue cronache di guerra,
comunque, non furono proprio obiettive.
Eugenio Torelli Viollier (che sarà il celebre fondatore,
nel 1876, del Corriere della Sera), figlio di un alto
funzionario borbonico, era stato giovane impiegato al ministero
dellInterno di Francesco II. Volontario con Garibaldi nel
battaglione dei Cacciatori Irpini, fece le prime esperienze giornalistiche
a Napoli, affiancando Dumas nella direzione dell Indipendente,
prima di passare al giornalismo post-unitario lombardo, nelle redazioni
del Secolo, del Pungolo e del Lombardia.
Giuseppe Bandi partecipò alla spedizione e, dopo il 1870,
collaborò alla Nazione e al Bazar,
di Firenze; passò poi a Livorno, dove fondò e diresse
Il telegrafo e il Corriere livornese. Fu
anche autore del libro-reportage I Mille da Genova a Capua,
contraltare del più celebre diario di Giuseppe Cesare Abba
(Da Quarto al Volturno: noterelle duno dei Mille),
scritto sul tamburo: appunti impressionistici, trascritti con concisione,
da autentico cronista.
Ippolito Nievo si imbarcò a Quarto sul Lombardo.
A lui e al suo amico Giovanni Acerbi fu affidato il non facile incarico
di reggere lintendenza militare. Da questa esperienza, due
scritti storico-cronistici, il Diario della spedizione dal
5 al 18 maggio, e il Resoconto amministrativo della
prima spedizione in Sicilia, oltre a una sorta di lettera
aperta al direttore de La Perseveranza, giornale milanese.
Le testate nelle quali Nievo si impegnò furono LAnnotatore
Friulano, Il Pungolo, La Rivista Veneta,
La Lucciola, Il Caffè e La
Perseveranza. I tempi del suo giornalismo cessarono nel 1861,
quando a soli 29 anni scomparve per cause imprecisate
con il vecchio piroscafo Ercole, affondato nelle acque
del Tirreno.
Lev Iliic Mecnikov, volontario garibaldino, è
stato rivalutato solo di recente. Nato a Pietroburgo, a ventanni
si arruolò a Firenze, volontario nel battaglione di camicie
rosse ispirate da Giovanni Nicotera, il colonnello dello sbarco
a Sapri. Il suo Diario, scritto al seguito dei Mille,
pubblicato a puntate su una rivista russa nel 1863, è stato
chiuso finora nellarchivio della Federazione Russa, a Mosca.
Unanticipazione è stata data qualche mese fa dal Corriere
della Sera.
La vicenda di Jessie White Mario, giornalista embedded
dellepoca, cominciò nel 1854, quando conobbe a Nizza
Garibaldi, che avrebbe seguito fino alla spedizione nei Vosgi del
1870, e quando a Londra incontrò Giuseppe Mazzini. Da quel
momento si votò alla causa italiana, raccogliendo fondi e
cominciando a scrivere. Italy for italians fu il suo
primo articolo sul Daily News (novembre 1856). Arrestata
a Genova nella repressione seguita alla spedizione di Sapri e alla
congiura mazziniana, conobbe in carcere il giornalista-patriota
veneto Alberto Mario, che sposò in Inghilterra, dopo la scarcerazione.
Rientrata in Italia, prese parte come infermiera alle imprese garibaldine,
riparando poi in Svizzera, dove venne nuovamente arrestata. Nel
giugno 1860 raggiunse Garibaldi in Sicilia. Seguì la spedizione,
e si stabilì a Napoli, avviando la fase più intensa
della sua attività giornalistica come corrispondente per
lamericano The Nation, poi per il britannico Morning
Star. Lincontro con Pasquale Villari la proiettò
nella grande inchiesta a puntate su Il Pungolo, (poi
rielaborata nel volume La miseria in Napoli). Questi
suoi reportages segnarono linizio del giornalismo dinchiesta
in Italia, svolto setacciando ogni angolo della città, descrivendo
i bassi e la rete dellassistenza, affrontando
le origini della criminalità.
È stato scritto che con il suo metodo dindagine la
White Mario interpretò i problemi sociali e politici dellepoca,
incrociando sul campo le testimonianze dirette, le statistiche
e i riscontri. Fu il giornalismo che tradusse la politica in indagine
verso nuove tematiche sociali come la povertà, la condizione
delle donne e dellinfanzia, la centralità dellistruzione,
il sistema carcerario, il lavoro, in una stagione che ha lasciato
altre testimonianze di rilievo, come quella di Renato Fucini (Napoli
ad occhio nudo) e di Matilde Serao (Il ventre di Napoli).
Ma il suo lavoro è considerato il più significativo
insieme ad altre sue inchieste, come quella sulla Sicilia
anche perché cera nella sua scrittura una duplice
carica: un coinvolgimento intellettuale e politico diretto nella
tormentata trasformazione italiana; una grande fiducia, maturata
sui campi di battaglia del Risorgimento, sulla capacità degli
italiani stessi di affrontare la propria emancipazione. Tra il 1878
e il 1901, White Mario collaborò alla Nuova Antologia con
articoli sui fratelli Cairoli, sulle miniere di zolfo in Sicilia,
sul sistema penitenziario e sul domicilio coatto in Italia, su Carlo
Cattaneo e Giuseppe Mazzini. Scrisse anche per le riviste Nineteenth
Century e Scribners.
Da ultimo, nel gruppo dei giornalisti al seguito delle camicie rosse
cera anche lo scrittore Anton Giulio Barrili, il quale, volontario
nella seconda guerra del Risorgimento (1859), seguì Garibaldi
nelle campagne del 1866-67. Diresse Il Movimento, (nel
quale pubblicò in appendice il romanzo Capitan Dodero),
Il Caffaro e Il Colombo. Per incisività
ed efficacia di scrittura, le sue opere migliori restano i reportages
e i racconti garibaldini.
Lincontro di Teano del 26 ottobre 1860 non avvenne a Teano.
Per meglio dire, non si ebbe là dove oggi un miserrimo cippo
recintato ricorda che Garibaldi e Vittorio Emanuele II a
cavallo si strinsero la mano, il primo con le Due Sicilie
in offerta, il secondo con lesercito pronto a intervenire
a un suo cenno, se laltro non gli avesse consegnato senza
colpo ferire lo Stato più antico e più vasto della
Penisola. Lincontro avvenne molto più a latere, accanto
a unosteria, anchessa oggi in abbandono, mentre dentro
il recinto delloleografia nazional-popolare i teanesi hanno
aggiunto una targa, nella quale hanno scritto che a fare lunità
e la ricchezza del Paese sono stati e continuano ad essere i meridionali
che emigrano, lavorano, risparmiano e muoiono, senza che la storia
ne ricordi le terribili vicende che danno un nome al secolare dolore
delle genti del Sud.
Lo stesso giorno, in quel di Torino, anche il Primo ministro Cavour
si sprofondava in ringraziamenti: «Guai a noi se ci mostrassimo
sconoscenti ed ingrati». Una gratitudine che era intenzionato
ad esprimere con una gamma di premi: una pensione con laggiunta
di una dote per la figlia, linsegna di generale del Regio
Esercito, il Collare dellAnnunziata, il titolo di Principe
di Calatafimi
E per farla finita con quellarmata di
volontari indisciplinati, il passaggio di tutti al comando del generale
Cialdini, il sanguinario repressore delle imminenti insorgenze nel
Sud.
Garibaldi rifiutò tutto, e allalba del 9 novembre partì
per la sua Caprera, portando con sé secondo lagiografia
dellepoca un sacco di sementi e alcuni fedeli della
vecchia guardia. Eletto deputato in due collegi elettorali di Roma,
si presentò nella capitale nel gennaio 1875 con due progetti
(la bonifica dellAgro Romano e la sistemazione del Tevere),
che qualche tempo dopo vennero bocciati; ma anche con due propositi:
il dossier per lannullamento del matrimonio con la marchesina
Giuseppina Raimondi, ripudiata sul sagrato della chiesa in cui laveva
appena sposata, perché amante di un garibaldino e di un suo
cugino, e già incinta, e la questione di un vitalizio. Risolto
il primo problema, rimase in piedi il secondo, perché Garibaldi
rifiutò 100 mila lire annue approvate come dono nazionale
su proposta della Destra. Ma quando cadde il governo Minghetti e
il re affidò ad Agostino Depretis, leader della Sinistra,
la guida del Paese, lEroe indirizzò al nuovo Primo
ministro una lettera nella quale dichiarava la sua fiducia nel Ministero:
«Debbono perciò cessare le mie ripugnanze alla accettazione
del dono che a me fu fatto con spontanea generosità dalla
Nazione e dal Re».
Il 2 giugno 1882 Garibaldi morì. Allora fu proposta la reversibilità
della pensione a favore dei cinque figli Menotti, Ricciotti, Teresita,
Clelia e Manlio, e della vedova Francesca Armosino, la governante
piemontese che lo aveva accudito negli ultimi anni della sua vita
e che aveva sposato anche per poter dare un nome ai propri figli.
La Camera fece i conti lira su lira, e con legge votata quasi
allunanimità assegnò 60 mila lire annue,
da spartirsi tra tutti e sei.
Ribelle, sognatore, passionale, impulsivo, amante della terra, del
mare e dellavventura, paragonato non soltanto a George Washington,
ma anche al libertador latino-americano Simón Bolívar,
ha il merito di avere infiammato la gioventù dellepoca,
di averla coinvolta in unimpresa ai limiti della sfida per
la vita o per la morte, sfida che avrebbe lasciato fuori dai confini
naturali della Penisola soltanto Roma (che sarebbe stata presa un
decennio più tardi dai bersaglieri), il Veneto e la Terra
Giulia, redente a conclusione del Primo conflitto mondiale.
Certo, dopo la fase eroica dellimpresa dei Mille, a soli
quattro anni di distanza dallentrata in Napoli, la memoria
di Garibaldi sembra già appartenere a unaltra epoca.
La sua gloria si va costantemente appannando, soprattutto dopo la
battuta darresto in Aspromonte. Tantè che 600
mila londinesi lo acclamano eroe del secolo (iperbole
di Gilbert Hamerton) quando sbarca nella capitale britannica qualche
mese dopo, ma la regina Vittoria si dichiara «no amused»
e persino offesa di regnare su un popolo che faceva tali manifestazioni,
e Karl Marx scrive sul suo giornale che si è trattato di
una miserabile pagliacciata. Elogi giungono invece dal futuro Primo
ministro William Gladstone, quello che in realtà non pronunciò
mai definizioni saturnine nei confronti del Regno di Napoli, come
invece subdolamente riferisce la storiografia zelante post-unitaria.
Gladstone intuisce che in Garibaldi convivono e quasi si fondono
due aspetti che quasi mai è possibile concertare: era il
primo patriota italiano, acceso e intransigente, graditissimo anche
ai nazionalisti più reazionari e violenti, alla Nino Bixio,
per intenderci; e nello stesso tempo era anche il difensore delle
classi popolari che partecipavano al Risorgimento soltanto in modo
estremamente marginale.
È certamente uno dei più brillanti capi guerriglieri
del suo tempo: una sorta di Che Guevara con più esperienza
e con meno sfortuna. Quando parlano di lui, i generali piemontesi
ostentano disprezzo, forse per ripagarsi del più autentico
disprezzo con cui essi stessi sono trattati dagli Stati Maggiori
di tutta Europa. Perciò, anche, trattano in modo disumano
i garibaldini che hanno conquistato un Regno e che desiderano entrare
nellesercito regolare. Ma nessuno di loro come è
stato sottolineato sarebbe capace di imitare quel capolavoro
di arte tattica, di improvvisazione e di riflessi pronti, che è
la ritirata del 49 da Roma attraverso lItalia centrale,
nel tentativo fallito di creare uninsurrezione popolare, con
circa 4.500 uomini e un cannoncino, inseguito da 22 mila soldati
appartenenti a quattro eserciti. E si obietta ancora oggi che è
sicuramente vero che la spedizione in Sicilia fu facilitata, oltre
che dalle doti strategiche e dai soldi di Cavour, anche dallinettitudine
dei comandi borbonici, dallavidità delle truppe mercenarie
e dalla fortuna che non abbandona mai le camicie rosse, in una serie
di eventi rimasta unica nella storia dItalia; ma lentusiasmo
che sospingeva gli animi di questi antenati dei leghisti (tutti
bergamaschi, milanesi, genovesi, bresciani) era dovuto al carisma
di Garibaldi, ritenuto uno di quei rari comandanti che, ordinando
di andare allassalto, faceva alzare in piedi anche i morti.
Così, per i due versanti del mito controverso, anche Macmahon,
il capo dellesercito francese nella campagna lombarda del
59, ritiene che a Garibaldi manchi la necessaria ampiezza
di vedute, ma lEroe nel 71 va a combattere i tedeschi
mentre i francesi se la danno a gambe davanti a Von Moltke. Poi
viene eletto allAssemblea Nazionale nel dipartimento di Orano,
e quando lo si ricusa perché straniero, Victor Hugo interviene,
indignato: «Io non voglio offendere nessuno, ma di tutti i
generali francesi impegnati in questa guerra Garibaldi è
il solo che non sia stato sconfitto».
Alla fine ha forse un ritorno ideologico di coscienza allorché,
al cospetto di quel che accade nel Sud in rivolta, nelle terre delle
insorgenze da riconquistare, afferma che gli unici Stati
veramente liberi sono «quelli repubblicani». È
a disagio nel Parlamento, non frequenta i salotti della nobiltà
monarchica, continua a detestare la Chiesa cattolica, ha rapporti
conflittuali con Cavour e con Casa Savoia. Resta, in sostanza, uno
spirito superbamente solitario, convinto di avere interpretato un
ruolo storico di altissima levatura sia quando il Re e i Primi ministri
ne decretano un silenzioso ma inossidabile isolamento, sia quando
ormai vecchio e malandato non rappresenta più
alcun rischio per lazione normalizzatrice, politica e diplomatica,
della Monarchia.
È dal punto di vista del Sud che si è aperto un dibattito
sulla reale portata della sua personalità e del suo peso
nella videnda della caduta delle Due Sicilie. Documenti trascurati
per troppo tempo, scritti coevi, appunti, diari, epistolari di personaggi
appartenenti alle due parti schierate in campo e in conflitto, tornano
in superficie nel nome di un revisionismo storico che dà
nuova e più autentica luce alla storia unitaria. Da una parte,
è la storia scritta dai vinti che reclama il diritto di essere
finalmente conosciuta per quella che è veramente stata, dallaltra
è la fine della favolistica risorgimentale; dallaltra
ancora, è il moderno metodo storico che propone luso
di materiali obiettivamente documentati, e di varia origine e anche
di contrapposta provenienza.
È in questo nuovo contesto che il mito di Garibaldi
va riconsiderato. Ed è nella dimensione più complessa
rivisitata e ricostruita dagli storici contemporanei che va valutata
lazione dei Mille, quella parallela se non preventiva,
e comunque decisiva di Cavour, e quella delle forze politiche
e militari borboniche dallo sbarco di Marsala alla drammatica caduta
di Gaeta e alla romantica, e leggendaria, resistenza di Civitella.
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