Il pericolo è che
il nostro Sud entri in una condizione di cronica
sopravvivenza
vegetativa, senza alcun orizzonte
di crescita di lungo periodo.
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Partiamo da una serie di dati. Quelli dellIstat sulla demografia
del nostro Paese. Alla fine del 2006, gli italiani erano 59 milioni
131.287, e precisamente 28 milioni 718.441 maschi e 30 milioni 412.846
femmine: 379.576 unità in più, pari allo 0,6 per cento,
rispetto alla fine dellanno precedente. Gli stranieri presenti
in Italia erano pari al 5 per cento della popolazione, con presenza
preponderante nel Nord e nel Centro. Complessivamente, i nuclei
familiari erano 23.900 (2,5 il numero medio dei componenti). Incremento
delle nascite nel Nord e al Centro, decremento al Sud (-0,9 per
cento) e nelle Isole (-1,3 per cento). Abitanti del Belpaese così
distribuiti: 18,9 per cento nel Nord-Est, 26,4 per cento nel Nord-ovest,
19,5 per cento nel Centro, 23,8 per cento nel Sud, 11,3 per cento
nelle Isole.
Questa, la radiografia demografica presentata dallIstituto
centrale di Statistica. E da una parte delle cifre (quelle del Sud
e delle Isole, dove è presente esattamente il 35,1 per cento
degli italiani) è emerso il dato drammatico della condizione
socio-economica del Mezzogiorno: un milione e mezzo di persone hanno
abbandonato le regioni meridionali e si sono spostate nelle aree
del Centro-Nord, (si calcola che i pugliesi che hanno fatto le valigie
e si sono trasferiti siano circa 150 mila).
Non più scatole di cartone, non più viveri di sopravvivenza
insaccati nei borsoni di juta, non più straccioni analfabeti
allavventura in lande sconosciute. Da almeno quattro anni
a questa parte lasciano il Sud giovani con diploma e con laurea:
non si tratta più di perdita di rozzi fasci muscolari alla
ricerca di un lavoro qualsiasi, che garantisca un salario minimo
ma comunque vitale; vanno via forze vive, cervelli, elementi intellettuali
di primordine, che leconomia e la politica economica
italiana escludono dai circuiti produttivi con una pervicacia che
ha storicamente spaccato un Paese indegno degli uomini che ha.
Sono i figli e i nipoti di coloro che emigrarono alla fine dellOttocento,
poi alla fine del secondo conflitto mondiale, poi al tramonto del
boom, convinti di essere protagonisti di un progetto (non calcolato,
ma istintivamente percepito) di miglioramento delle condizioni di
vita delle generazioni future, eradicate dalla campagna, dalla fame
e dalla sete, dallindigenza, dalla malattia, dallanalfabetismo,
nel nome di una dignità che deve permeare di sé ogni
uomo e ogni donna che vogliano definirsi veramente liberi.
Sono i discendenti di coloro che diedero lopportunità
di realizzare tanti sogni, primo fra tutti quel miracolo a
Milano, raccontato splendidamente nel film di Vittorio De
Sica, che consentì ai padroni e agli operai delle fabbriche
del Nord di venir fuori dalle macerie del conflitto planetario e
di rimettere in moto leconomia dellItalia; e poi del
sogno del decollo, del boom, dellaltrettanto celebre miracolo
economico, appunto, quello che fruttò il Premio Oscar
alla lira, e che fu dovuto allo sviluppo simultaneo delle produzioni,
dei consumi interni e delle esportazioni grazie al lavoro a basso
costo dei meridionali immigrati a Torino, a Milano, e ovunque nel
Nord si alzassero ciminiere, altiforni, capannoni, casematte, serre,
e quantaltro prospettasse un impiego, una collaborazione,
un lavoro giornaliero. Nacquero baracche e quartieri-ghetto, del
tutto simili a quelli messi su dai meridionali in Svizzera, in Germania
occidentale, in Francia, in Belgio e al di là dellAtlantico.
Era unammuina di dialetti del Nord, ma soprattutto del Sud,
al Lingotto, a Mirafiori, alla Marzotto,alla Bicocca, alla Riello,
per citare solo alcuni cantieri nobili dellItalia
opulenta: poche le parole spese mentre si lavorava a testa bassa,
per potersi dire di ritorno per le ferie al Sud operai
a testa alta; poche, perché si riteneva che chi spendeva
troppe parole poteva confondere le idee e mandare tutto in baracca.

Era unaltra Italia. Erano altri uomini, altri imprenditori,
altri operai, altri capitani dindustria e di ventura con la
passione del rischio, con lorgoglio della creatività.
Guardata a bruciapelo, quellItalia dista anni luce da quella
dei personaggi che la popolano oggi. Quella era la storia dei Pirelli,
dal viaggio americano di Alberto, nel 1905, («Costruire dei
bei saloni grandi e non dei bugigattoli»), e limpresa
della Bicocca nel 1906, fino alla città di servizi di oggi;
la storia delle donne contadine trasformate in operaie e messe sotto
la stretta sorveglianza delle suore di carità; la storia
di tre generazioni di Falck, custodita ancora oggi a Sesto San Giovanni,
lex Stalingrado (politicamente parlando) italiana; la storia
della Piaggio, bombardata a più riprese, e sempre ricostruita,
che contava su un uomo di genio, lingegner Corradino DAscanio,
che aveva fatto volare il primo elicottero e che detestava le motociclette,
ma messo lì a disegnarne una si sentì
chiedere da Enrico Piaggio: Ma come farà a reggere
due persone, con quel vitino da vespa? , ed ecco pronti scooter
e nome, e una fama planetaria intramontabile, che ha fatto vendere
nel 2006 sedici milioni di Vespe in tutto il mondo, India e Cina
comprese; storia di Pininfarina, che non era nessuno quando rifiutò
lofferta di Henry Ford, e che era appena qualcuno (ma non
più di tanto) quando declinò linvito della General
Motors: sapeva che le auto che disegnava erano le più belle
del mondo; storia di un ingegnere napoletano, Romeo, il quale, trasferitosi
a Milano, creò unimpresa automobilistica, lAlfa
Romeo, appunto, che portò Ford a dire: «Quando passa
una di queste vetture, toglietevi il cappello»; la storia
dei Barilla, che prima vendono agli americani, poi ricomprano per
passione; la storia dei Fabbri, casa e bottega, amarene e brandy,
che nei loro indimenticati caroselli potevano permettersi il lusso
e lonore di filmare tele originali di Cagli, di Guttuso, di
Caporossi; la storia di Gaetano Marzotto, di Valdagno, che si considerava
a tutti gli effetti un signorotto feudale, (comprò,
fra laltro, terreni a prezzo vile a Maratea, e ne fece il
primo polo di sviluppo turistico con un tessuto diffuso di villette
unifamiliari con il lucano Tirreno a vista), e che comunque realizzò
un sistema di «ospedali, asili, orfanotrofi, case di riposo,
scuole, alberghi, teatri e biblioteche» (come recensì
Guido Piovene) che entusiasmò un osso duro come Giuseppe
Di Vittorio, anche se tutto questo non impedì ai sessantottini
imbecilli di buttarne giù statua e mito; la storia di un
banconiere che crea la Grapperia Nardini, del figlio di un bracciante
di Albacina che fonda la dinastia dei Merloni, del figlio del capomastro
di Gambettola che si inventa la Technogym e conquista le palestre
di tutto il mondo, di sei amici che si incontrano per farsi
unombra in un bar di Udine e finiscono per metter su
lEurotech di Amaro, allavanguardia nel mondo delle alte
tecnologie
Tute blu del Nord e del Sud, e i primi colletti
bianchi, e poi le prime fabbriche senza ciminiere:
il miracolo a Milano continua, sembra non debba finire
mai.
E invece una classe politica imprevidente e soprattutto le centrali
sindacali schierate esclusivamente sul versante delle rivendicazioni
salariali, prive di un autentico progetto di sviluppo complessivo,
e per di più tarate dalla presenza, al loro interno, di elementi
votati al terrorismo e di gruppi ad esso contigui, riuscirono a
stravolgere tutto. Cominciò da lì, tra la fine degli
anni Sessanta e lintero arco dei Settanta, il lungo declino
del Paese. Tramontò in quellarco di tempo, e si rivelò
irripetibile, il miracolo. Ultimo miraggio per il riscatto del Sud,
gli ingannevoli anni Ottanta, le false promesse della soluzione
europea della questione meridionale, i bilanci passivi del
secolo-millennio appena scollinato. Il resto è storia dei
nostri giorni.
È stato scritto che è innegabile che la crescita italiana
sia oggi tra le più lente dEuropa, fatto non dovuto
a una presunta bassa competitività del nostro sistema industriale,
come provano i 92 miliardi di euro di surplus commerciale record
nel 2006 dei prodotti delle Quattro A del made in Italy:
Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Apparecchi-meccanica, Alimentari-vini.
Dovuto, invece, ad altre ragioni, tra le quali i ritardi e i vincoli
del sistema-Paese, la bassa performance del terziario, il poderoso
effetto depressivo sui consumi provocato dallintroduzione
delleuro, o meglio, dal cambio immaginario 1 euro =
1.000 lire a livello dei prezzi di molti beni e servizi, la
caduta dei rendimenti dei titoli pubblici che ha inaridito unimportante
fonte di entrate delle famiglie.
A questi fattori si aggiungono gli squilibri territoriali, che
stanno assumendo connotazioni sempre più preoccupanti. Al
punto che nei prossimi anni la principale causa della debole dinamica
italiana potrà essere rappresentata proprio dal sempre più
ampio divario tra Nord-Centro e Sud. Con una cospicua fetta del
Paese (il Mezzogiorno che fatica a crescere), sembra persino incredibile
il fatto che finora il differenziale tra il reddito pro capite italiano
e quello degli altri maggiori Paesi europei sia rimasto contenuto.
Secondo Eurostat, nel 2004, cioè in piena recessione, il
Pil pro capite italiano a parità di potere dacquisto
(23.095 euro) era solo del 7,3 per cento inferiore a quello della
Germania (24.903) e del 4,3 per cento più basso di quello
della Francia (24.146 euro). Solo quello inglese era significativamente
più elevato (26.455 euro) di quello italiano, ma lo era anche
rispetto a quello tedesco e francese. Quello della Spagna, Paese
preso spesso come modello, era invece ancora pari al 93,7 per cento
di quello italiano.

Tuttavia, il crescente divario Nord-Centro/Mezzogiorno rischia
di allontanarci in prospettiva dalla ricchezza media dellEuropa
più avanzata. Non solo perché il Sud, con una popolazione
pari al 35 per cento di quella italiana, nel periodo 2000-2005 ha
dato un contributo in termini assoluti alla crescita del Pil nazionale
equivalente, per fare un esempio, solo ai due terzi di quello del
Nord-Ovest (la cui popolazione è di poco superiore al 26
per cento di quella del Paese). E non solo perché il Sud
nel 2006 ha visto il suo contributo alla crescita del Pil italiano
ridursi addirittura alla metà di quello dato dal Nord-Ovest.
Ma anche perché i livelli del Pil pro capite del Sud e delle
Isole continuano ad essere tra i più bassi dellEuropa
occidentale. E purtroppo rischiano di rimanere tali, perché
oggi con i vincoli di Maastricht non cè più
spazio per sostenere la crescita delle regioni meridionali con incrementi
della spesa pubblica, come in passato. Il pericolo, dunque, è
che il nostro Sud entri in una condizione di cronica sopravvivenza
vegetativa, senza alcun orizzonte di crescita di lungo periodo.
Mentre solo il Nord-Centro può collocarsi a pieno titolo
tra le aree più ricche e dinamiche del Vecchio Continente.
Significativo è il quadro che emerge dai dati comparati dei
Pil delle regioni europee resi noti da Eurostat. LItalia,
tra i cinque maggiori Paesi europei, grazie al Nord-Centro è
quello con la più rilevante popolazione regionale capace
di un Pil pro capite di un 25 per cento superiore alla media dellUe
a 27: nel 2004 erano ben 24,4 milioni gli italiani che si collocavano
in questa fascia di reddito, poco più dei tedeschi, il doppio
degli inglesi e dei francesi, e tre volte più degli spagnoli.
In altri termini, lItalia presenta in Europa la popolazione
più numerosa a disporre di una significativa ricchezza diffusa.
Le regioni italiane con un Pil pro capite superiore del 25 per cento
alla media Ue-27 erano la Valle dAosta, la Lombardia, Trento-Bolzano,
il Veneto, lEmilia-Romagna, il Lazio, il Piemonte, il Friuli-Venezia
Giulia e la Toscana: insomma, lItalia piagnona che reclama
incentivi se non piove, incentivi se piove, incentivi se il Po è
in piena o se rimane a secco, incentivi se il livello dei laghi
si innalza o si abbassa, e via frignando, purché i soldi
pubblici finiscano nelle solite tasche del Nord che produce e che
lavora, ma che divora come si dice dalle nostre parti
Roma, Stoma e la Basilicata.
Tenendo conto della diversa popolosità dei Paesi, fra laltro,
il dato italiano appare ancora più eclatante: infatti, ben
il 42 per cento degli italiani ha un reddito del 25 per cento superiore
alla media europea, contro il solo 29 per cento dei tedeschi, il
24 per cento degli inglesi, il 20 per cento degli spagnoli e il
18 per cento dei francesi. Poi cè laltra faccia
della medaglia: lItalia presenta quattro fra le più
popolose regioni del Sud (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia)
con un Pil pro capite del 25 per cento inferiore alla media Ue,
per un totale di 16,8 milioni di abitanti (il 29 per cento della
popolazione nazionale) in questa fascia di reddito, mentre persino
un Paese a sviluppo più tardivo come la Spagna ha solo il
3 per cento degli abitanti (poco più di un milione di persone
che vive sotto il livello del 75 per cento del Pil medio europeo.
La bassa performance italiana non può essere compresa se
non si considerano gli effetti attuali e potenziali del divario
tra Nord-Centro e Sud. Gli altri Paesi europei, infatti, non presentano
casi di gravità analoga: oggi la crescita del Pil italiano
in valore assoluto è generata per oltre l82 per cento
dal Nord-Centro; il contributo del Sud non arriva al 18 per cento,
mentre le regioni meridionali accolgono oltre un terzo della popolazione
totale.
Questi dati, pur ipotizzando che sottovalutino ancora in buona quota
la reale entità del sommerso nel Mezzogiorno, evidenziano
uno squilibrio territoriale sempre più cronico, che nasce
da differenti modelli di sviluppo: nel Sud il reddito è prodotto
in minima parte dal manifatturiero (dopo i fallimenti dellindustrializzazione
pubblica), e lo sviluppo dellimpresa familiare è frenato
da fattori ambientali, come la criminalità organizzata.
Nonostante il positivo apporto di alcuni distretti industriali e
aree territoriali di piccola e media impresa (specie nellAbruzzo,
nel Molise, in Puglia e in Basilicata), nel Mezzogiorno il valore
aggiunto del manifatturiero è ancora relativamente limitato:
rappresenta solo il 6,4 per cento del valore aggiunto totale in
Calabria, l8,7 per cento in Campania e il 10,7 per cento in
Sicilia; mentre è il 26,9 per cento in Lombardia, il 26,1
in Veneto, il 25,8 in Emilia-Romagna, il 26,0 nelle Marche. Per
contro, la produzione di reddito è affidata nel Sud in gran
parte allamministrazione pubblica, allistruzione, alla
sanità e agli altri servizi pubblici, che spesso puntano
più al mantenimento di posti di lavoro e alla produzione
di salari che non a quella dei servizi stessi e alla loro qualità.
Così la quota del settore dei servizi pubblici sul valore
aggiunto totale è il 32,3 per cento in Sicilia, il 31,4 in
Calabria, il 28,4 in Campania, contro valori assai più bassi
nel Nord-Centro: solo il 13,8 per cento in Lombardia, il 14,7 nel
Veneto, il 15,9 nellEmilia-Romagna, il 19,0 nelle Marche.
Nel Nord-Centro il modello di sviluppo è quindi affidato
allindustria manifatturiera e allexport, con il sostegno
di un buon apparato di servizi privati e pubblici. Ed è un
modello rafforzato dalla costante apertura alla competizione mondiale.
Nel Sud invece ci sono poca industria, pochissimo export, un turismo
ancora non pienamente sviluppato, sicché molta parte del
Pil è mero trasferimento di redditi attivati dallamministrazione
pubblica, appena sufficienti per mantenere in essere uno standard
minimo di consumi delle famiglie.
Diciamolo chiaramente: lItalia cresce poco non perché
abbia uno scarso terziario, ma perché il suo terziario in
generale è fatto di troppa burocrazia, di clientelismo-assistenzialismo
e di sprechi, soprattutto al Sud. LItalia cresce poco non
perché sia troppo manifatturiera, come alcuni lamentano,
ma al contrario, perché in gran parte del Sud, se si eccettua
la dorsale del nostro splendido Meridione, solo lagricoltura
di qualità e alcuni comparti dellindustria alimentare
hanno tassi di crescita apprezzabili.
I dati provinciali sullexport manifatturiero, che rappresentano
un indicatore di apertura alla competizione internazionale, mostrano
in modo impietoso la bassa propensione del Mezzogiorno ad operare
nellimpresa industriale: nel 2006 lexport per abitante
delle province di Reggio Emilia, Modena e Vicenza è stato
di oltre 14 mila euro, e quello di Novara, Mantova, Bergamo, Belluno
e Pordenone ha superato gli 11 mila, mentre a Cosenza è stato
di soli 41 euro. In ben 20 province del Sud, tra cui tutta la Calabria
e quasi lintera Sicilia, lexport manifatturiero pro
capite è stato inferiore ai 1.000 euro, e in 14 di esse non
ha raggiunto neanche i 500 euro.
Anche nel turismo il divario tra le due Italie assume talvolta dimensioni
eclatanti: nella provincia di Bolzano il settore ha un tale impatto,
che è come se ogni famiglia di quattro persone avesse per
sette mesi e mezzo allanno come ospite in casa un turista
pagante, mentre nella provincia di Agrigento, dove pure sorge la
magnifica Valle dei Templi, ciascuna famiglia ospita
virtualmente un turista per una sola settimana allanno.
Evidenziare questi dati non significa in alcun modo evocare divisioni
o, peggio ancora, secessioni, né sentimenti antimeridionalisti,
che lasciamo ai deboli di cultura e di mente, perché lItalia
è una sola e soltanto unita può stare in Europa. Ma
è fondamentale prendere atto che senza una politica di rilancio
della creazione del valore aggiunto nel Mezzogiorno, e possibilmente
di un valore aggiunto di qualità e non solo costituito da
trasferimenti, la prospettiva per il Paese è quella di rimanere
condannato a una debole crescita nei prossimi anni.
A questo preludono le immagini dei meridionali che riprendono i
dannati treni della speranza, con un salto allindietro
di oltre mezzo secolo, come se la Storia avesse avuto una parentesi
occasionale, fulminea, e avesse poi ripreso il suo cammino senza
soluzione di continuità. Come se nel frattempo nulla sia
accaduto. O come se nulla possa accadere, perché così
è stato deciso nei palazzi imperforabili nei quali il potere
è autentico potere, le strategie sono per la vita o per la
morte, le decisioni debbono sembrare per tutti imperscrutabili enigmi,
lobbedienza degli esecutori degli ordini deve essere cieca,
gli esiti non possono deragliare dai progetti preordinati.
(Ci chiediamo, a latere, che cosa abbia voluto dire il nuovo capo
della Polizia, visti le perplessità, i commenti a mezza bocca,
i roboanti silenzi di tanti addetti ai lavori pubblici, cioè
politici. Parlando ai componenti della Commissione Affari Costituzionali
del Senato, il dottor Antonio Manganelli ha sentenziato: «Il
Nord è la nostra priorità». Poi ha spiegato
che gli autori di reati di criminalità diffusa, nelle regioni
settentrionali, sono tra il 50 e il 60 per cento immigrati clandestini.
Da qui linsicurezza, la paura, e persino listinto a
forme di ribellione fai-da-te da parte dei cittadini.
Che gli immigrati clandestini e non solo costoro creino
problemi di ordine pubblico, che i cittadini delle regioni del Nord
siano molto sensibili al tema della sicurezza, che non si possano
più tollerare zone franche con alte concentrazioni
di intere comunità padrone del territorio, che insomma ci
sia anche una questione settentrionale in materia di legalità,
è innegabile. Ma preoccupa decisamente il fatto che il capo
della Polizia (italiana, e non padana), nel suo primo intervento
con le nuove funzioni, abbia ritenuto di dover retrocedere la vera
emergenza criminalità della Penisola. E preoccupano altrettanto
decisamente il fatto che almeno quattro regioni siano sempre e comunque
sotto il controllo dei clan dei cartelli del crimine e costringano
lo Stato a giocare partite di rimessa, che in gran parte sono perse
ogni giorno ai punti; il fatto che a Napoli come in Sicilia, dopo
la cattura di alcuni capi storici delle mafie, si siano
scatenate guerre per bande per il controllo militare
del territorio, con decine di morti ammazzati; e ancora il fatto
che, senza la garanzia della legalità, nel Sud non ci saranno
mai né sicurezza né sviluppo, e la stessa convivenza
civile resterà a rischio.
È fuor di dubbio che Manganelli non abbia parlato a caso.
È un uomo del Sud, che ha lavorato in prima linea a Napoli
e a Palermo. Dunque, il suo è stato un discorso tutto politico,
ammiccante al Nord e al ceto politico di quella parte del Paese,
piuttosto che rivolto ai tanti agenti di polizia impegnati sul fronte
del Sud. Scelta inopportuna, per lo meno, e quanto mai pericolosa,
perché, come è stato sottolineato, se anche i funzionari
dello Stato, ai massimi livelli, parlano sulla base di una convenienza
politica, allora non deve sorprendere la sfiducia nelle istituzioni
che i sondaggi continuano a mettere in risalto. Al Nord come al
Sud. Molto probabilmente più al Sud che al Nord).
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