I traffici illeciti trafugano ogni
dodici mesi,
malgrado i
recuperi operati dalla polizia, un numero di reperti sufficiente
a metter su un
grande museo.
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Ricordate la vicenda del Vaso di Eufronio, scomparso dallItalia,
e ricomparso molti anni dopo, allimprovviso, fra le raccolte
darte del Metropolitan Museum di New York? Si aprì
un serrato contenzioso, e finalmente i nostri responsabili cominciarono
a chiedersi come mai pezzi archeologici di questa portata avessero
potuto lasciare il nostro Paese e varcare lOceano Atlantico,
passando impunemente attraverso le maglie, (in realtà assai
larghe), delle nostre frontiere.
E ricordate le altre vicende, che riguardano la Venere di Morgantina,
pomo della discordia, insieme con lAtleta di Lisippo, nel
braccio di ferro tra il Paul Getty Museum di Los Angeles e lo Stato
italiano, che subito ne rivendicò il legittimo possesso e
accusò gli americani di aver trasferito clandestinamente
al di là delloceano anche queste due opere? Ebbene,
per una volta ancora ci troviamo di fronte ad un caso del genere,
e anche questo ha tutte le sfumature del giallo internazionale,
che coinvolge, appunto, altri importantissimi reperti archeologici
italiani, misteriosamente sbarcati in America.
Ma la vicenda più recente è questa. A meno di fulminei
colpi di scena, sarà proprio lei, una splendida biga etrusca
dorata, rinvenuta oltre un secolo fa sul Colle del Capitano, nel
territorio di Monteleone di Spoleto, ad essere incoronata regina
della festa di primavera con la quale il Metropolitan Museum newyorkese
inaugurerà i nuovi padiglioni dedicati allarte etrusca,
greca e romana. Lungo gli ottomila e passa metri quadrati dellesposizione
(frutto di dieci anni di lavoro e di 155 milioni di dollari di investimenti),
The golden chariot, come ormai familiarmente lo definiscono gli
addetti ai lavori, sarà il pezzo più prezioso esposto
tra le grandi teche della galleria dedicata a Leon Leky e a Shelby
White, munifici trustee di quello che con tutta probabilità,
con oltre sei milioni di visitatori lanno, è il più
frequentato dei grandi musei planetari.
Cè tuttavia qualcuno che, lontano dai frenetici preparativi
in corso presso la sede del Metropolitan, sta provando a rovinare
la festa: come racconta Mario La Ferla nel volume La biga rapita,
il comune di Monteleone, insieme con la Regione Umbria, ha deciso
di avviare una causa legale nei confronti del museo americano, per
tornare in possesso dello straordinario reperto che, dopo il ritrovamento,
avvenuto nel febbraio del 1902 ad opera del contadino Isidoro Vannozzi,
si pone al centro di una serie di vicende che sono narrate con il
ritmo intrigante di una spy story.
Al modo, si precisa, di altre storie analoghe, raccontate da Roberto
Fagiolo in Lombra del Caravaggio, che hanno riguardato in
vari tempi il furto della Gioconda di Leonardo (Louvre,
1911), quello della Natività del Merisi (Palermo,
1969), o quello del Ritratto di Signora di Klimt (Piacenza,
1997). Per non parlare dell Urlo, di Munch, ultima
clamorosa scomparsa di un capolavoro di valore inestimabile e di
fama universale.
Ma torniamo alla nostra biga etrusca. Nellordine, entrano
in scena contadini con la vocazione dei tombaroli, un
mercante di ferraglie di Norcia (che per 950 lire dellepoca
acquistò la biga, rinvenuta in una tomba insieme con due
scheletri, molto probabilmente resti di un re e della sua compagna,
sepolti accanto al loro carro doro); e poi avventurieri, trafficanti
darte, politici corrotti, poliziotti non casualmente indolenti
fino alla cecità totale. Da Norcia, in quel 1902, la biga
finisce a Roma, dove J. P. Morgan, uno dei grandi robber baron americani
in azione in quel tempo, la vede e ne rimane sinceramente incantato.
E da appassionato collezionista, oltre che da generoso sponsor del
Metropolitan Museum, decide di farla approdare a New York.
Limpresa è tuttaltro che facile, dal momento
che sulla questione vengono sollevate polemiche, oltre a una serie
di interpellanze parlamentari rivolte al presidente del Consiglio
di quei giorni, Giovanni Giolitti. Però Morgan sa muovere
bene i suoi quattrini e le sue pedine: proprio in quel periodo,
infatti, porta a termine una serie di generose acquisizioni che,
favorendo famiglie romane proprietarie di terreni e di nobili dimore,
vicine al governo, consentono di dotare lAccademia Americana
al Gianicolo di spazi adeguati.
In questo modo, senza dubbio forte di qualche autorevole complicità,
la biga finisce (a quanto pare, nascosta in un treno merci carico
di grano) a Parigi, in un caveau del Crédit Lyonnais, banca
di proprietà del finanziere americano. E dalla capitale francese,
dietro pagamento di 250 mila lire in favore di misteriosi intermediari,
il reperto etrusco approda al numero 1000 di Fifth Avenue, sede
del celebre Met. E quando in Italia le polemiche e le accuse nei
confronti di Morgan crescono di tono, entra in scena il direttore
del Metropolitan.
Si tratta di un gentiluomo piemontese, Luigi Palma di Cesnola, che
dopo aver partecipato giovanissimo allassedio di Peschiera
e alla campagna cavouriana di Crimea, è finito negli Stati
Uniti. Qui, combattendo da eroe nella guerra civile, si è
guadagnato sul campo i gradi di generale, poi è diventato
console a Cipro, e quindi, avendo smistato in Europa, ma soprattutto
verso il museo statunitense, preziosi reperti archeologici raccolti
nel corso della sua missione diplomatica, viene nominato
direttore del Metropolitan.
Palma di Cesnola difende a spada tratta il Morgan e assicura di
avere acquistato la biga nella capitale francese, di propria iniziativa
e del tutto regolarmente. Ma di quella acquisizione, avvenuta oltre
un secolo fa, non esiste alcun atto ufficiale. Così il contenzioso
legale tra il piccolo Comune dellUmbria e il potentissimo
Metropolitan Museum è approdato sui grandi media americani,
ripetendo una storia dai risvolti oscuri, che sia gli italiani sia
gli americani in virtù del vaso di Eufronio, ma non
solo, come abbiamo visto conoscono bene. Anzi, benissimo.
Facciamo un po di conti. LItalia possiede oltre 95 mila
chiese e poco più di 40 mila castelli, oltre a un numero
incalcolabile di dimore signorili private ricche di opere darte,
di archivi pubblici e familiari, di centri storici, di torri e di
fortilizi e di altri ruderi monumentali isolati. In altre parole:
siamo un vero e proprio museo a cielo aperto. Fra laltro,
moltissime nostre città minori sono di per sé stesse
veri e propri musei di incredibile, unica bellezza.
Quanto ai musei veri e propri, ne abbiamo 3.500, molti dei quali
purtroppo chiusi, altri aperti solo in parte, altri ancora gestiti
secondo criteri di rigorosa conservazione, più che di offerta
articolata al visitatore: ne fanno fede, fra laltro, i sotterranei
di numerosi musei (come quello, ricchissimo e prezioso, di Magna
Grecia, a Taranto), ove è conservato addirittura un numero
di reperti di gran lunga superiore rispetto alla quantità
di quelli in esposizione.
Inoltre, sul territorio della Penisola esistono, sono stati localizzati,
sono da riportare alla luce, si conoscono e/o si ipotizzano sepolti,
migliaia di siti archeologici, con centinaia e centinaia di migliaia
di beni artistici che spesso sono preda di tombaroli professionisti
(ma persino dilettanti!) e senza scrupoli. Non è certo una
notizia nuova il fatto che ogni anno vengono sottratti al patrimonio
artistico e archeologico italiano centinaia di migliaia di oggetti:
come dire, i traffici illeciti trafugano ogni dodici mesi, malgrado
i recuperi operati dalle forze di polizia, un numero di reperti
sufficiente a metter su un grande museo. Ricordarlo ogni tanto è
bene, non fosse altro che come antidoto alla rassegnazione di cui
sembra circondato questo dissanguamento senza fine. E non è
una novità il fatto che non cè ancora uno scudo
che difenda validamente tutte le nostre opere darte. Un sistema
di videosorveglianza per il Mosè di Michelangelo,
artista fin troppo amato dagli squilibrati, che hanno
anche danneggiato a suo tempo la Pietà e il Davide;
un sistema antincendio per la Reggia di Caserta, che ha rischiato
di essere distrutta dalle fiamme nel 1998; e poi una serie di impianti
antifurto, sistemi antintrusione, allarmi, recinzioni e telecamere
per la Certosa di Parma, le romane Terme di Caracalla, Palazzo Pitti
a Firenze, la Galleria Nazionale dArte Moderna e la Galleria
Borghese a Roma, la Cattedrale di Trani, Villa Adriana a Tivoli:
è lelenco iniziale delle opere darte, archeologiche
e architettoniche, e dei musei di cui si sta curando la messa in
sicurezza. Un elenco che forse si allungherà nei prossimi
anni, visto che i Beni Culturali hanno intenzione di intervenire
con 60 milioni di euro per la messa in sicurezza di altri 1.031
siti. È già qualcosa.
È del tutto nuova, invece, e si commenta da sé nella
sua drammaticità, una stima di ottima fonte, il Consiglio
Nazionale delle Ricerche, che riguarda il patrimonio archeologico:
solo il 10 per cento di questo patrimonio è emerso
ed è custodito nei musei, mentre il 90 per cento si trova
ancora sottoterra, pressoché indifeso, o difeso malamente,
o difeso per passione, per vocazione professionale, ma a fatica;
un patrimonio che ogni anno diminuisce di oltre 150 mila reperti,
rapinati e dispersi da scavi illegali, con un danno economico di
centinaia di milioni di euro.
Una situazione del genere, considerata dal punto di vista dei predatori
archeologici, significa una prospettiva di lucro quasi inesauribile.
Per di più, il danno non sta soltanto nel trafugamento di
oggetti appartenenti per legge al patrimonio pubblico, ma nelle
distruzioni causate dai tombaroli, che nellaffanno dei loro
brutali scavi clandestini, generalmente notturni, distruggono molto
più di quanto riescono ad arraffare: non sembra esagerato
pensare che per ogni oggetto che si portano via ne rovinino altri
quattro. E non basta: ogni loro passaggio sconvolge
in maniera irrimediabile un contesto che, qualora fosse riportato
alla luce nella sua completezza e con metodi scientifici, sarebbe
ricchissimo di informazioni per gli studiosi.
Ebbene, anche in questo campo una speranza viene dalla tecnologia:
la quale non può trasformare i tombaroli in pentiti,
ma un argine, o almeno un poderoso deterrente, lo ha trovato e lo
mette ora a disposizione di chi ha il dovere di applicarlo.
Si tratta di un piccolissimo sensore che, nascosto strategicamente
nei luoghi a rischio, è in grado di lanciare a distanza un
segnale di allarme. Il congegno, messo a punto da Marco Malavasi,
direttore del Progetto Mezzogiorno del Consiglio Nazionale
delle Ricerche, e da Sandro Massa, ricercatore dellIstituto
per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali, misura
2x1x1,5 centimetri, ed è tecnicamente un sensore di posizione
a variazione angolare, dotato di un trasmettitore e di una batteria.
Si attiva nel momento in cui il terreno nel quale è sepolto
viene smosso anche lievemente: basta che il piccolo apparecchio
subisca una variazione di assetto di 2 gradi (e fino a 45 gradi).
Il movimento determina la chiusura dei poli della batteria, che
normalmente è in stato di riposo, e quindi risparmia energia,
e determina simultaneamente linvio di un segnale dallarme
a un destinatario prescelto, ad esempio la locale caserma dei carabinieri.
Si è quindi avvertiti in tempo reale che in quel determinato
punto del territorio protetto è in atto uno scavo clandestino.
Seminando in un sito archeologico, in posizioni strategiche, trenta
o quaranta di questi congegni, si viene a creare una sorta di campo
minato, al quale è estremamente difficile che il tombarolo
possa sfuggire.
Il gran numero di congegni sicuramente richiesti per una protezione
estesa non comporterebbe spese rilevanti. Prodotto su larga scala,
ciascuno di questi sensori non costerebbe più di una decina
di euro: troppo per lo sterminato valore del patrimonio italiano
da proteggere? Per quello che, se utilizzato come fonte di reddito,
oltre che di conoscenza, può rendere? Per loccupazione
e per tutto lindotto che comporterebbe, al modo di quanto
succede nei Paesi nei quali i tesori darte educano e arricchiscono
la comunità, i turisti, gli amanti dellarte?
Il presupposto dellefficacia della nuova tecnologia escogitata
fra le mura del Cnr è a sua volta una conquista tecnologica.
Fino a pochi anni fa, infatti, si sarebbero dovuti seminare i sensori
a lume di naso, basandosi su criteri poco più che intuitivi,
per il semplice motivo che non si sapeva esattamente dove fossero
situate le tombe (ma anche le mura, i resti delle case e delle ville,
i templi, le strade, e via dicendo) in aree archeologiche di numero
e di estensione enorme: basti pensare che soltanto il sottosuolo
di Roma e provincia è una fittissima, ininterrotta miniera
di reperti; che quello delle aree etrusche va dalle rive del Tevere
fino ai territori di Ravenna e di Ferrara, se non addirittura oltre,
passando per tutta lItalia centrale, e scende fino allisola
di Ischia e nel Salernitano, e ha avuto con ogni probabilità
degli empori in territorio lucano e in territorio pugliese;
e che lelenco delle altre aree e siti e parchi archeologici,
dalla Sicilia alla Campania, in Sardegna, dallAbruzzo alla
Puglia, oltre ad essere lunghissimo, rappresenta un continuum unico
al mondo, sicché non è peregrina laffermazione
che tra sottosuolo e sopra il pelo della terra il nostro Paese (cioè,
rapine a parte, compresa quella suprema di Napoleone,
le cui opere, tornando nella patria dorigine, spoglierebbero
tanta parte del Louvre) possiede ancora oltre il 70 per cento delle
opere darte di tutto il mondo.
Ora, grazie alla fotografia aerea (che lindimenticabile archeologo
Dinu Adamesteanu per primo sperimentò proprio nelle terre
di Puglia e di Basilicata), e grazie alla termografia e ad altre
sofisticate tecniche di rilevamento dallalto, siamo in grado
di tracciarne la mappa precisa e particolareggiata. Infatti la vegetazione,
vista da quota sufficientemente elevata, presenta una crescita e
un aspetto diversi se sotto la superficie della terra ci sono murature,
tombe o costruzioni sepolte col passare dei secoli. In virtù
di questo sistema di rilevazione, fra laltro, sono state scoperte
le acropoli di alcune poleis di Magna Grecia.
A questo scopo, si possono utilmente leggere non soltanto le immagini
scattate ai nostri giorni in apposite campagne aeree, ma anche altre
relativamente vecchie, ad esempio quelle dellArchivio dellIstituto
Geografico Militare, che si è iniziato ad esplorare di recente
in questa direzione. In tal modo si sta arrivando ad un ampliamento
e a una definizione eccezionali della geografia archeologica italiana.
Per esempio: nella provincia di Taranto si conoscevano fino a non
molto tempo fa solo 48 siti archeologici; ora, grazie alle nuove
tecniche, ne sono stati individuati e mappati con precisione più
di 500.
Se i tombaroli, di terra e di mare, (anche questi ultimi, molto
numerosi, e meno noti, sono ovviamente da mettere nel conto, dal
momento che i fondali delle nostre coste nascondono veri e propri
giacimenti archeologici), rapinano e distruggono in lungo e in largo,
spesso anche le attività agricole indiscriminate andrebbero
portate sul banco degli imputati. Un esempio. Quando si trattorava
la terra, nel territorio di Cerveteri, (dove oltre alle centinaia
già riportate alla luce ci sono ancora migliaia di
tombe inesplorate), si macinava una quantità
di vasi, di crateri, di lacrimari, di contenitori di unguenti e
di profumi, di altro materiale archeologico, disprezzato in quanto
quei (letteralmente!) coccetti saturavano compromettendone
addirittura il valore in caso di vendita i terreni da coltivare.
Ma appena scoperto che cerano degli stranieri pronti a pagare
quella roba a peso doro, molti hanno creato attività
fittizie, dietro le quali nascondere quella effettiva di scavatori
clandestini, con un commercio che è stato, e in qualche modo
continua ad essere, malgrado la vigilanza delle forze di polizia,
piuttosto fiorente. E comunque non eccessivamente rischioso e sempre
molto redditizio.
Altro esempio, che riguarda proprio la Puglia. Ad Arpi, ad appena
quattro chilometri da Foggia, sui mille ettari della più
grande città italica sepolta, (una nuova Pompei, ma ben più
vasta della città campana sepolta dal Vesuvio, se mai una
volta per tutte si volesse riportarla interamente alla luce), cumuli
di pietre bianche di dimensioni crescenti nel tempo testimoniano
i danni dellaratura in profondità, che viene praticata
nonostante tutto, là dove dovrebbe essere consentito di portare
il terreno soltanto ad orti: sono le pietre delle antiche case,
falciate dai vomeri! Di una piccola Pompei, invece,
si parla a proposito della scoperta di Lorium, nellarea di
Castel di Guido, nelle vicinanze di Roma, sulla via Aurelia: qui,
i tombaroli che avevano iniziato a scavare da tempo, grazie
alluso dei metal detectors che indicavano nel sottosuolo la
presenza di metalli e, soprattutto, di monete hanno contribuito
alla localizzazione di più di 300 siti differenziati, dal
Paleolitico fino allepoca tardo-repubblicana e imperiale.
Si era sempre saputo dalle fonti antiche, sia letterarie che cartografiche,
che nella zona esisteva questo borgo, dove gli imperatori (soprattutto
Antonino Pio) e gli uomini più ricchi e potenti di Roma avevano
le loro residenze estive. Eutropio e Frontone, in particolare, descrivono
accuratamente larea, ubicazione compresa, al dodicesimo miglio
dellAurelia Antica. Ma la certezza si è avuta negli
ultimi cinque anni, quando, dopo unaccurata ricognizione del
territorio frequentato dai tombaroli, si è scoperto che sotto
ogni collina giacciono i resti di una villa o di una fattoria, o
di un monumento pubblico, come lanfiteatro, o di un tempio.
Vi sono stati scoperti mosaici splendidi, che sono stati subito
ricoperti. Si attendono i finanziamenti per riscavarli, restaurare
i mosaici, unici per bellezza e complessità, che ci sono
e aprire poi lintero sito al pubblico. Sempre se i tombaroli
saranno tenuti a bada: qui, infatti, costoro avevano già
aperto una decina di buche e alcuni cunicoli; e la Guardia di Finanza
aveva recuperato nelle case di due ladri di reperti una moneta dargento
della gens Claudia, del valore di 10 mila euro, altre 100 monete
in bronzo, e numerosi pezzi archeologici.
È ovvio che nessun sofisticato marchingegno saprà
sostituire unattività di sorveglianza e di repressione
insufficiente o inefficiente, dunque inefficace; ed è altrettanto
ovvio che nessuna tecnologia al mondo metterà a riposo luomo.
Ma per lo meno la sua parte la tecnologia la sta facendo. E luomo,
che ne dovrebbe essere il primo responsabile, quando comincerà
ad agire a tutto campo, e con rigore e serietà?
È appena il caso di ricordare che lopera umana ha messo
a rischio intere aree storiche e darte (nella Valle dei Templi,
in Egitto, per esempio, con le strutture architettoniche antiche
salvate da esperti italiani; mentre in Birmania, o in Etiopia, o
anche in Cina la creazione di gigantesche dighe prevista da faraonici
progetti metterà a repentaglio altri siti, unici nel loro
genere, e non si vedono in giro proposte di salvaguardia). Ed è
appena il caso di mettere in evidenza che gli stessi cambiamenti
climatici insidiano non pochi capolavori del passato. Fenomeni quali
laumento del livello dei mari, lerosione dei litorali,
le alluvioni, ma anche processi opposti come la desertificazione,
rappresentano una minaccia per molti siti.
Anche in questo caso, qualche esempio emblematico: numerosi monumenti
egizi devono far fronte allerosione delle coste e allinnalzamento
delle acque nella regione del delta del Nilo; nel Nord-Est della
Thailandia le inondazioni hanno danneggiato le rovine, vecchie di
seicento anni, di Ayutthaya (dal 1350 al 1767 capitale del Paese);
in Mauritania la Moschea di Chinguetti, ricchissima di testi sacri,
è minacciata dalla crescente desertificazione; in Perù
lo scioglimento dei ghiacciai mette a repentaglio i templi preincaici
di Chavín de Huantar; nel Vicino Oriente le continue guerre
mettono a rischio la sopravvivenza di monumenti e linviolabilità
di musei e raccolte di reperti; analogo discorso per lAfghanistan
e per lintera area Sudan-Corno dAfrica, dove alle guerre
guerreggiate e alle cronache di ordinarie guerriglie si sommano
le distruzioni dovute alle guerre di religione; e dalle parti di
casa nostra, per gli eventi naturali, non va dimenticata lantica
abbazia di San Vincenzo al Volturno, in Molise, che non era solo
un importante luogo di culto dellanno Mille, ma anche la più
grande cittadella monastica dEuropa, oltre che un centro di
potere politico: proprio qui gli archeologi hanno scoperto dieci
tombe affrescate con motivi floreali, un patrimonio inestimabile
che risale al VII-VIII secolo d.C., con le tombe e i resti mortali
di alcuni dei più noti abati dellepoca di Carlo Magno:
dalla terra sono emersi anche monete, statue di bronzo tardo-imperiali,
forni, officine e oggetti in ferro, in osso di bue, in vetro, con
scavi che hanno consentito una ricostruzione della cittadella, la
cui vita ruotava attorno allabbazia di San Vincenzo Maggiore,
ma anche a un complesso più piccolo, la basilica di San Vincenzo
Minore, dove cè la cripta meglio conservata, voluta
dallabate Epifanio, nella quale sono rappresentate scene dellApocalisse
(quella degli Arcangeli che fermano i venti) e dei supplizi di San
Lorenzo e di Santo Stefano, i due Santi dello scisma della cristianità.
Al culmine del suo splendore, la cittadella poteva avere unestensione
di sei ettari, con la presenza di otto chiese e di decine di altre
costruzioni, nelle quali vivevano centinaia di monaci-lavoratori.
La storia millenaria di questa capitale religiosa cominciò
il suo declino dopo il terremoto dell847 d.C., che causò
gravissimi danni al complesso monastico. Poi, nell881, larrivo
dei saraceni, che misero a ferro e fuoco labbazia, segnò
la sua fine.
Come accadde, in fondo, persino per un centro di studi greco-latino-arabi,
quello salentino di San Nicola di Càsole, dapprima assalito
(dalle masnade saracene), in seguito saccheggiato ad opera delluomo,
(in primis, dal cardinal Bessarione), e alla fine abbandonato
diruto, ridotto a fienile alla crudeltà disgregatrice
del tempo. Ce nè quanto basta e avanza per correre
ai ripari. Là dove è ancora possibile. Subito, e senza
più alibi.
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