Nel vernacolo, lingua materna, naturale e
spontanea, meglio si esprimono le
capacità dimpatto con i temi più
toccanti del nostro tempo.
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La lingua parlata o scritta, in quanto strumento di comunicazione
e di cultura, ha in sé una storia così lunga e complessa
da sintetizzare lintera storia di un popolo, di una civiltà,
quale che sia il divario di tradizioni, razze e religioni. Ma soprattutto
il dialetto, lingua locale non meno nobile, epigono dei volgari
medievali eredi sopravissuti alla lingua latina, è il più
soggetto a fenomeni progressivi di corruzione fonetica e mutazione
lessicale. Non solo. È persino probabile, ancorché
lento, un processo di decadenza sino al fatale declino dovuto inevitabilmente
ad abbandono, ad oblio.
La lingua della nostra terra e del nostro passato è davvero
destinata a perdersi, smemorata insieme con la storia patria, con
le radici? Il rischio è che potrebbero estinguersi non tanto
dal nostro vocabolario quanto dal bagaglio della nostra cultura
popolare voci storiche, ormai rare o desuete, tramandate dagli avi,
uneredità di cui dovremmo essere fieri senza il minimo
di vergogna o di ingiustificato snobismo, sinonimo di gretta ignoranza.
Quasi fosse superiore o elitaria la lingua italiana, al di là
del suo valore e della sua importanza nelle relazioni ufficiali
e burocratiche anche internazionali!

Spetta anzitutto ai poeti in vernacolo salvare il dialetto, mantenerlo
vivo e presente specie tra i giovani della civiltà
del benessere e del consumismo, educati dai media ad
inseguire lapparire più che lessere, per tante
ragioni i meno abituati a parlarlo, a utilizzarlo. In ogni modo,
grande merito va a quanti si espongono in operazioni di revival
linguistico, risultato di meditazioni immediate, come uno scavo
affettivo più che nostalgico nello scrigno della memoria
dove sono gelosamente custoditi sentimenti, ideali e valori eterni,
che accompagnano luomo e la sua storia da secoli.
Nel vernacolo, lingua materna, naturale e spontanea, meglio si esprimono
le capacità dimpatto con i temi più toccanti
del nostro tempo: il vissuto quotidiano, gli affetti, le tradizioni
popolari, i drammi e i problemi sociali, la fede con le sue finalità
morali e spirituali intrinseche, scaturite dallinevitabile
sentimentalismo lirico e dallamore innato che un poeta dialettale
nutre naturalmente per la sua terra natìa e per la sua gente,
la cui storia rappresenta la sua stessa identità, la sua
anima.
La lingua (come glôssa) è parte anatomica importante
dellorgano fonatorio deputato, quale strumento vocale, a modificare
nel cavo orale tutti i suoni possibili prodotti dalle corde vocali,
occludendo e modulando lesplosione sonora con articolazioni
variabili: tra i denti (suono dentale), tra le labbra (labiale),
alla gola (gutturale), al palato (palatale), alla base della corona
gengivale interna superiore (dentale cacuminale: a Gallipoli e relativo
circondario ddh, altrove ddhr o ddr o dd).
Solo con la combinazione dei suoni nasce nel discorso la parola
(palabra in spagnolo, dal latino parabo×la e dal greco parabòle,
ossia confronto, qual è la comunicazione scritta
e orale oltre che lallegoria insita nellinsegnamento
morale di non pochi passi evangelici). Ma la lingua in senso lato,
il linguaggio e la parola servono a manifestare idee, pensieri e
moti dellanimo, a comunicare, a dialogare, come nella sua
immediatezza fa il dialetto (dal greco dialéghein, appunto
dialogare).
Con linvenzione della scrittura e poi dellalfabeto fonetico
ad opera dei Fenici, il suono, nato o prodotto in natura, viene
fissato con un segno distintivo, convenzionale, simbolico, per divenire
messaggio intelligibile e significativo da essere diffuso attraverso
gli scambi tra genti lontane tra loro diverse. Così si è
costruita la storia di ogni popolo, di ogni nazione, levoluzione
di ogni idioma locale, regionale e nazionale.
La storia dellumanità è pure la storia di esperienze
linguistiche e influenze lessicali le più dissimili, di interconnessioni
che hanno generato variazioni e modifiche nel tessuto culturale
dei popoli.
Il dialetto è tuttavia la lingua maggiormente esposta al
rischio di mutazioni inevitabili col conseguente allontanamento
dalla tradizione latina, parametro costante di riferimento, e dal
volgare toscano, lingua letteraria per eccellenza, la più
fedele al latino per essere, solo allindomani dellUnità,
elevata ufficialmente al rango di lingua nazionale.
Indubbiamente, non senza lapporto fondamentale del divino
poema. Nel De Vulgari eloquentia, dopo approfondita analisi, Dante
conclude la sua inchiesta da cui prende avvio la storia della questione
della lingua italiana: tra i parlari della penisola italica il migliore
è il fiorentino e, subito dopo, tra i meridionali insieme
col siciliano colto della corte federiciana (noto nella fase già
toscaneggiata), si distingue il pugliese salentino per la sua affinità
con la scuola poetica siciliana. Solo in coda alla singolare graduatoria
compaiono il pugliese murgese e il romano, idioma della capitale
che tuttavia non ha dato origine alla lingua di unintera nazione
(come invece in Francia e in Inghilterra).
Senza campanilismo, non è azzardato affermare che tra i dialetti
di Terra dOtranto il gallipolino è forse la lingua
che ha di meno subìto processi dimbarbarimento, conservandosi
quanto possibilmente fedele alla lezione linguistica e lessicale
del passato e soprattutto del latino da cui direttamente discende
il toscano.
Nel volgare di Gallipoli esistono determinati esiti fonetici pure
corrotti allinterno di misurate regole fondamentali che ancora
si conservano e vanno conservate insieme con tutte le norme relative
alla morfosintassi e alla ortografia, indispensabili per sprovincializzare
il dialetto e renderlo non solo leggibile e comprensibile da Bolzano
a Trapani, ma pure fruibile a quanti non lo usano correntemente
o non lo tengono in pratica e in conto.

Nonostante luso comune e ricorrente, linguisticamente erroneo,
ancora tollerato e persino avallato da tesi imprudentemente semplicistiche
di taluni sprovveduti o disinformati, i casi più particolari
e consueti da rispettare, necessariamente nello scritto, sono:
- ga/go=ca/co (gallina > caddhina, goccia > còccia);
- ge/gi= esito ancor più marcatamente palatale (gelso >
zezzu, vigilia > viscìlia);
- d=t non sempre scontato (dolore > tulore, domenica > tumènaca);
- o=u specie a fine parola (lupu, manu);
- l=r spesso in metatesi (palora, rìsula, cròlia);
- ll=ddh cacuminale (Caddhìpuli, Caddhiste, cuddhura);
- sc=sibilante impura (àscia) o palatale (ràscia);
- gli=j (famìja, fìju);
- z per lo più sonora come zanzara: z´ùccuru,
màz´ara, puz´u (polso), da distinguersi dalla
sorda specie se doppia: zèppula, zumpare, puzzu (pozzo);
- bb=gg (mannàggia < male ne abbia, caggiula < gabbia,
caggianu < gabbiano);
- pi (da pl lt.)=chi (plate×a > piazza > chiazza, plenus
> pieno > chinu);
- pi (lt.)=cci (sep¦×a > sèccia=seppia, ap¦×um
> làcciu=sedano, sap¦×o > sàcciu=so);
- vocale iniziale elisa e apostrofo (ncora, mparare,
ffucare, mbìtia);
- costanza di apofonia con passaggio in alpha dorigine dorica
(giannìpuru, malone, ciacora, cialona, ciacala, ciapuddha,
ciarasa, ntaressu, raspettu, scianaru, sciannaru, sparanza,
spantura, vantura, dafriscare, rafiatare, ssamijare, sciattare,
ecc.);
- assenza di dittongazioni o strane alterazioni sonantiche e consonantiche
(come si notano nel leccese: cuerpu, luecu, muertu, puèspuru,
puercu, fuecu, puertu, pueru, suennu, àutru, auzare, bàutu,
fuesi, càusci, càusi, Mamminu, sennu, striu, riu,
nèsciu, mègghiu, pègghiu, uardare, rande, ranu,
rasta, rressu, rutta, nie, ecchi, ègghiu, ògghiu,
famìgghia, fìgghiu, ecc.);
- raddoppio della consonante iniziale (cci bboi ccu bbìsciu=cosa
vuoi che io veda);
- preferenza della subordinazione esplicita (ulìa ccu bbau,
ccu bbegnu, ccu ssàcciu = vorrei andare, venire, sapere);
- preferibile accentazione di vocaboli non piani onde ovviare a
possibili equivoci e facilitare lettura e comprensione specie per
i non avvezzi alluso del dialetto.
Operando un breve excursus linguistico attraverso alcuni significativi
esempi nel Salento (buenu a Lecce, munnu a Maglie e circondario,
pajare a Nardò, stia ad Alezio e contado, lamici mia
a Parabita-Matino, mie, mmie, tie, sule, sira, ura, parite, pisce,
rite nel resto del Salento e specie nel Capo di Leuca, a fronte
degli esiti gallipolini: bbonu, mundu, pacare, stava, lamici
mei, me, te, sole, sera, ora, parete, pesce, rete), si può
evidenziare la tendenza del parlare gallipolino a rispettare possibilmente
il volgare toscano e quindi la lingua italiana, dal latino discendenti.
Nel dialetto di Gallipoli, peraltro, numerosi sono i termini italiani,
in quanto è uso dire correntemente, come in parte accade
altrove: mare, terra, luna, aria, luce, acqua, notte, casa, porta,
chiave, pane, pasta, latte, carne, sale, pepe, lingua, ventre, anca,
fame, arte, ponte, nave, vela, campagna, pastore, cane, animale,
rosa, spina, canna, fava, vigna, ecc. (ma àrburu de fica,
de mila, de pira, de ulìa
); e ancora: amore, anima,
nascita, vita, morte, fine, mese, legge, giudice, signore, fede,
messa, ostia, comunione, misericordia, litania, candela, festa,
sposa, campana, tomba, pace, ecc. (con qualche corruzione: scatti
mpace, donna bisòdia, cannone, pistola, santarmònium,
sicutera, recumeterna, dominusubbiscu, misererenobbi, amme...);
inoltre pioggia non esiste se non come acqua de celu
(così in tutte le regioni italiane); capu e nive sono più
latini; stoccafisso poi è dallanglosassone stockfish,
pesce seccato, ma è più giusto, perché letterale,
il nostro stoccapesce; infine voci come madre e padre,
insieme con una ricca griglia di parole relative alla famiglia,
si distinguono per accompagnarsi con lenclitica possessiva
declinabile solo al singolare: màuma-màmmata-màmmasa,
sìrama-ta-sa, màdrima, matrìama, patrìuma,
fìjama, fìjuma, fràuma, sòruma, nònnuma,
nònnama, zìuma, zìama, napòtama, crussupìnama,
crussupìnuma, caniàtuma, caniàtama, nòrama,
scènnuma, sòcrama, sòcruma, mujèrama,
marìtuma, parèntama, nùnnuma, nùnnama,
cummàrama, cumpàrama, suscèttama, suscèttuma,
cumpàgnuma, ecc.
Si tralascia e si rinvia invece ad altra sede e occasione la parentesi
di tutta littionomastica (del linguaggio marinaresco) e si
può solo aggiungere che non sono mancati influssi da lingue
straniere come: spagnolo pràja, francese pòscia, arabo
scapece, anglo-germanico varra (gioco infantile).
Del latino sono particolari: cciommu (ecce homo,
disse Pilato alla folla presentando Cristo flagellato), segnummeste
(segnum est, è segno, significa, cioè), sanametoccu
(sana me de hoc malo, mentre ci si tocca la parte anatomica che
si vuole proteggere e salvare da qualche male), busulàriu
(stato di agitazione da post sudarium), ppòpputu (chi abita
post oppidum, lontano dalla città, nel contado), caremma
(lorrido fantolino che simboleggia la quaresima, da quadragesima).
La tradizione greca infine è particolarmente interessante
a conferma dellinfluenza che la città ionica, a differenza
di Nardò e Lecce (immediatamente latinizzate), ha subìto
nella sua antica storia (la colonizzazione dorica tarantina nel
367 a.C., dopo loscura fase messapica, la lunga dominazione
bizantina, lo stanziamento dei cenobi basiliani a seguito della
persecuzione iconoclastica dopo l800). E il fenomeno è
comune ad una vasta area geografica che insiste nella direttrice
Gallipoli-Galatina-Otranto con al centro la Grecìa Salentina.
Quanto ai grecismi, questo, in sintesi, un rapido e brevissimo campione,
alquanto emblematico e significativo: àpulu, beddhusinu,
calafatu, calime, candaula, canza, carassa, carpìa, cascione,
castima (-are), catapet, catapràsumu, centra, chìraca,
crasta, cùfiu, cumba, cuneddha, làvana, levarsìa,
lòffiu, mattra, màzara, naca, nachiru, òsumu,
pèntuma, pòspuru, pràsumu, prèvete,
putrìmisi, rappa (-are), rumatu, salassìa, scalisciare,
sciacuddhu, scùfia, sima (-are), sita, sparatrappa, spàrgane
(-eddhe), spàsumu, spràsumu, stizzu, strafica, stricare
(-aturu), stumpone, suscitta, tampagnu, tarrassu, trigni, trizza,
tròzzula, ttuppare, tuzzare (-aturu), vastasi.
Sicché sembra ovvia qualche riflessione al riguardo, relativamente
a detti, motti e proverbi coinvolgenti alcuni dei suddetti etimi,
non più frequenti tra le giovani generazioni ma in verità
non così rari nel linguaggio comune e popolare.
La crasta è un vaso da fiori, di forma panciuta,
solitamente di terra cotta: corrisponde al greco gastér (ventre,
pancia) e poi passa in: nap. grasta (coccio), tar. grasta, sal.
crasta, cal. gastra o grasta, sic. grasta. Famoso il detto
cantare la crasta (imprecare contro qualcuno),
che ha origine da un antico canto popolare meridionale, e siciliano
in specie. Viene in mente il finale della nota novella Lisabetta
da Messina di Boccaccio. Quando i due fratelli mercanti si accorsero
della relazione amorosa della sorella Lisabetta col domestico, a
insaputa della ragazza e a tradimento lo eliminarono brutalmente
e lo seppellirono in aperta campagna. La scomparsa dellinnamorato
la portò allafflizione, ma in sogno il giovane le rivelò
laccaduto indicandole il luogo preciso della sepoltura. Lei,
in gran segreto, si recò sul posto, scoprì il delitto
e riportò a casa la testa recisa del cadavere. La nascose
dentro il vaso di basilico e tutta la giornata era intenta ad annaffiare
la pianta con le sue lacrime. Ma i fratelli insospettiti, trovata
furtivamente la testa della vittima sepolta nel vaso, lo fecero
sparire con tutto il contenuto. A quel punto Lisabetta, disperata,
accentuò il suo tormento e il suo dolore. In cerca spasmodica
del vaso di basilico che le era stato sottratto (furare = rubare)
e continuamente fuori di sé, andava gridando dalla finestra
contro chi si era macchiato dellatroce misfatto: «Chi
fu lo malo cristiano che mi furò la grasta?». Ma non
è altro che unantica ballata medioevale raccolta prima
dal Pitrè e dal Rapisarda e poi dallo stesso Carducci nelle
sue rivisitazioni della poesia popolare antica.
Quanto al motto Beddhusinu togni manestra, il
detto si riferisce a persona sempre e comunque presente in qualsiasi
situazione, questione, affare, circostanza. Si tratta ovviamente
del prezzemolo, che non è scontato debba entrare a condire
tutte le pietanze di ogni ricetta culinaria. È detto petrosino
in sic., cal. e nap., ma deriva dal gr. petrosélinon (sorta
di sedano che attecchisce tra le pietre). Dai Greci era usato per
coronare i vincitori dei giochi istmici o delle Nemee (Pd., Diod.
16,79; Luc., 49,9) ed era utilizzato anche per corone sepolcrali.
Interessanti alcuni proverbi: selìnou deìtai, ha bisogno
di prezzemolo, ossia è in fin di vita, come si legge in Plut.
Tim. 26, M. 676 e Artem. 77; oppure ouden selìnou in
Arist. Vesp. 480 (nemmeno al prezzemolo, ovvero al principio di
qualcosa, in quanto si piantava allingresso dei giardini).
Un altro detto popolare è Malatitta ddha naca ca te
nnazzacau = sia maledetta quella culla che ti dondolò,
ti cullò, quindi la tua nascita e la tua razza (dal gr. md.
nàka, gr. ant. nàke = vello di pecora, a mo
di culla, sospeso, tal quale tuttoggi conoscono alcuni paesi
come Manduria; sic., cal., luc. naca; pugl. sett. e tar. nache;
ma, dopo la linea Salerno-Lucera, sincontra cuna-cunna-cònnula-culla).
Letimo pèntuma, genericamente scoglio (precipizio
in sardo), appartiene al triangolo Gallipoli-Galatina-Nardò;
ma è pèntima nel triangolo Lecce-Casarano-Otranto,
mentre altre sono le accezioni nel Salento: pèntema, pèntama,
pèndema. Se lorigine della voce per Rohlfs è
prelatina (rupe), per Devoto invece è mediterranea
(pendìo su laghi vulcanici). Indubbiamente la
radice resta greca e appartiene ad una griglia semantica di cui
fa parte pénthos (dolore), donde pénthimos (lugubre,
doloroso), da comparare col gr. ant. pénthema e gr. mod.
pénthima (lutto e dolore), etimi ricorrenti in Eschilo ed
Euripide. Il passaggio finale al significato gergale si deve al
fatto che lo scoglio suscita senso di impressione, pericolo, una
sensazione dangoscia non solo di fronte ad un fortunale ma
anche per lassillante e lamentoso sciabordio delle onde sulla
scogliera (lu rùsciu de lu mare).
La voce indeclinabile vastasi, infine, equivale al più
antico bastasi (o bastagi, b>v), facchino, lavoratore portuale,
scaricatore di porto (< gr. Bastàzo, trasporto sulle spalle
un carico). Talora assume valore dispregiativo (vastasi de chiazza)
per divenire vastasone, mascalzone, maleducato. Questa categoria
è stata particolarmente importante nelleconomia gallipolina
sino al primo 900, al tempo dei traffici dellolio lampante,
esportato nel nord Italia e in Europa esclusivamente per illuminazione.
Largomento si connette con i Giudei-ebrei residenti in Gallipoli
fino al 1540 (espulsi con decreto reale dalla contrada Giudecca,
presso il Seno del Canneto).
A tal proposito si ricorda che alcuni individui (detti sciutei de
la bara, che sta per ipocriti e traditori), vestiti di tunica a
lunghe bande verticali policrome, abiti tipicamente ebraici, reggevano
per penitenza o espiazione, il giorno della Passione, lUrna
del Cristo morto. Era la processione della confraternita di Santa
Maria della Purità appartenente ai portuali o scaricatori
di porto, appunto vastasi, classe sociale non più trainante
delle sorti economiche della città ionica per le tristi condizioni
in cui oggi, purtroppo, versa in particolare il suo porto commerciale.
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