E quando fu
che luomo creò i primi rudimenti dellarte, forse
nellingenuo
tentativo di
placare il furore dellIgnoto
che scagliava
il fulmine
e inceneriva
le colline?
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È possibile osservarli ancora oggi, per esempio tra i guerrieri
della tribù degli Hamar, in Etiopia, che hanno il corpo decorato
con pigmento bianco e con motivi curvilinei. Oppure tra gli aborigeni
australiani, che da qualche tempo a questa parte hanno deciso di
riappropriarsi della propria identità, come del resto stanno
facendo i nativi americani, (dellAmerica del Nord, dal Canada
agli Stati Uniti e al Messico), che celebrano ogni anno una sorta
di giorno del ricordo e della rinascita, (o del riscatto), vestendo
i panni dei gloriosi guerrieri pellerossa, le cui numerose tribù
in buona parte potevano essere ricondotte al ceppo principale originario
dei Lakota. O, infine, se si ha fortuna, è possibile incrociarne
alcuni nella foresta amazzonica, dove sopravvivono piccole e anche
piccolissime tribù di nativi rimasti isolati da secoli, uomini
che ignorano tutto della nostra civiltà, dalla quale semmai
sono stati ricacciati anno dopo anno sempre più allinterno
dellimmenso polmone verde dellAmerica meridionale.
Stiamo parlando degli individui che anche ai nostri giorni usano
dipingere il proprio corpo e decorare il proprio viso per un linguaggio
simbolico che è stato un indubbio primitivo strumento di
comunicazione fra esseri umani, e che da qualche decennio a questa
parte è stato riscoperto dagli antropologi o richiamato in
servizio dai discendenti di popoli desiderosi di riconquistare una
perduta o smarrita o conculcata identità.
Il problema che si è posto, però, e che sembra aver
trovato una ragionevole soluzione, è un altro: prima del
colore doveva esser nata la parola. In altri termini, il linguaggio
ha preceduto la decorazione corporale come mezzo di comunicazione
tra individui e fra tribù. E la conferma di questa ipotesi
ci è pervenuta da recenti scoperte, una delle quali ha unimportanza
quasi decisiva, oltre a un fascino particolare, essendo del tutto
inattesa, unica nel suo genere e anche per questo sempre più
intrigante.
Stando alle ultime novità, dunque, noi parliamo da almeno
duecentomila anni: ce lo raccontano nove pastelli di
ocra di diversi colori che sono stati rinvenuti in una caverna dello
Stato africano Zambia, a sud della sua capitale, Lusaka. Non solo:
i primi a chiacchierare non fummo noi, esseri appartenenti allHomo
Sapiens, ma una specie umana che ci precedette e che poi si estinse,
lasciandoci in eredità tanto la consuetudine di colorarci
il corpo, quanto quella di comunicare per mezzo dellarticolazione
delle parole. Autore della scoperta e sostenitore di uno stretto
legame tra limpiego del colore per scopi rituali e il linguaggio
parlato è Lawrence Barham, delluniversità britannica
di Liverpool.
Da parecchi anni questo archeologo scavava nella caverna di Twin
Rivers, quando, nel 2000, rinvenne un deposito di circa trecento
frammenti di ocra di differenti colori: rosso, giallo, marrone,
rosa, blu scuro e un altro rosso, speciale, inconsueto, perché
mai rinvenuto altrove, una sorta di rosso-violaceo che in un ambiente
buio emette una leggera fluorescenza. Nove di questi frammenti pastellati
mostrano fitte striature sulla superficie: secondo lo studioso,
sono segno evidente che furono utilizzati per dipingere, oppure
che vennero sfregati su una qualche superficie ruvida al fine di
ottenere polveri colorate.

La grotta, comè dimostrato dagli studi sulla sua stratigrafia,
fu utilizzata dagli uomini del Paleolitico tra i 300 e i 170 mila
anni fa, ma gli strati che contenevano i trecento reperti si formarono
intorno a 200 mila anni fa.
Secondo quanto sostiene larcheologo britannico, se mettiamo
in relazione i colori ritrovati con le attività del gruppo
che li utilizzava è facile capire come il linguaggio entri
a far parte dellequazione. I rituali, come quelli collegati
alla caccia oppure ai passaggi detà degli individui,
infatti, sono espressione di un sentire comune, hanno un senso riconosciuto
dallintera formazione umana che condivideva valori e regole
di vita. Tutto questo presuppone una rete di relazioni consolidata
e un fitto scambio di informazioni tra gli individui; condizioni
che non possono essere realizzate, se non esiste il linguaggio parlato.
È anche evidente che la pratica della pittura corporale è
uno strumento fondamentale per laffermazione dellidentità
personale o dellappartenenza a un gruppo.
In sostanza, dunque, secondo larcheologo inglese la presenza
dei coloranti è la prova indiretta ma chiara dellesistenza
già 200 mila anni fa di un linguaggio simbolico
complesso, qual è quello pittorico, che non si sarebbe potuto
formare senza limpiego di un linguaggio parlato.
Il ritrovamento dei pastelli e le conclusioni che Barham
ha tratto finiscono, in ultima analisi, con lo spostare allindietro
di almeno centomila anni due tappe fondamentali della nostra evoluzione
culturale: linsorgenza dellespressione simbolica, che
dette origine allarte, e la preliminare nascita del linguaggio.
Fino a pochissimi anni addietro, infatti, queste due soglie
venivano poste a non oltre quarantamila anni fa. Si ritenevano espressioni
non tanto di arte, quanto di una devozione esclusivamente rituale
alcuni ritrovamenti di manufatti risalenti, ad esempio, a 77 mila
anni fa (un blocchetto di ocra con incisioni), oppure addirittura
a 300-400 mila anni fa, come nel caso (unico) di una statuetta di
dea madre, comunque di una figura femminile, approssimativamente
sbozzata nella pietra cruda, e in ogni caso priva di qualsiasi colore,
rinvenuta di recente in una regione marocchina.

Ma la splendida scoperta di Twin Rivers presenta anche un altro
aspetto rivoluzionario. È stato accertato che nella grotta
dello Zambia meridionale si avvicendarono due diversi tipi umani:
dapprima venne abitata da rappresentanti della specie Homo Heidelbergensis,
e in seguito da elementi dellHomo Sapiens, di tipo moderno,
ai quali ultimi si è attribuita fino a questo momento la
capacità di elaborare un pensiero simbolico e di sviluppare
il linguaggio parlato complesso. Se invece, come sembra, furono
gli Heidelbergensis a dipingersi il viso e il corpo e a celebrare
i più antichi rituali, dovremo ammettere che queste capacità
tipicamente umane erano già patrimonio di una specie che
ci precedette.
Twin Rivers riapre così tutti i discorsi, rende obsolete
molte ipotesi, propone nuove necessità di ricerca e di rielaborazione
delle teorie sul nostro passato remoto, sulla vicenda delluomo
sul pianeta, sul mistero della sua evoluzione antropologica e intellettuale.
E riapre anche i problemi dei contatti, delle relazioni, degli spostamenti
o delle derive di gruppi umani in epoca preistorica.
Infatti, Lawrence Barham si dice perfettamente convinto che i diversi
tipi di colorante che sono stati rinvenuti nella caverna dello Zambia
derivavano da differenti minerali, come la specularite, lematite,
la limonite, larenaria ferruginosa e il diossido di manganese.
Ebbene, alcuni di questi furono raccolti e utilizzati dalluomo
preistorico nel raggio massimo di cinque o sei chilometri dal centro
tribale della grotta, mentre altri erano reperibili, e con evidenti
difficoltà, soltanto a distanze anche molto maggiori dal
luogo stanziale del gruppo umano. Ciò dimostra non solo che
dietro a questi pastelli così antichi e così ricercati
cera tutto un mondo di simboli e di credenze finora inimmaginati,
ma anche che allepoca gruppi umani non eccessivamente numerosi,
sebbene esposti a pericoli dogni genere, erano in grado di
tenere rapporti, di scambiarsi esperienze, di cercare e di utilizzare
elementi materiali oltre i confini dei propri territori, forse anche
di attuare scambi per baratto, naturalmente, con altri piccoli o
medi gruppi stanziali piuttosto che nomadi.
Per alcuni di questi colori, infatti, sembra riecheggiata la vicenda
ancora tutta da ricostruire della presenza, in aree italiane, di
reperti di ossidiana, materia proveniente da luoghi lontani e anche
remoti, che comunque è giunta nella Penisola per chissà
quali fascinosi, sconosciuti itinerari. Insomma, noi continuiamo
a interrogarci, riteniamo di aver trovato delle risposte più
o meno valide, e poi, dimprovviso, nuove scoperte ci costringono
a disfare il vecchio puzzle e a ricomporlo secondo le nuove testimonianze
e in funzione delle nuove ipotesi.
Così, fra laltro, per le dèe madri, presenti
praticamente nelle aree più diverse europea, africana e asiatica,
quasi facessero parte di valori, di credenze e di riti determinati
da una cultura comune, nel senso di comunicante, quando è
noto che un mondo fittamente forestato, con percorsi inesistenti
o erratici, resi più pericolosi da altre presenze umane probabilmente
non amiche e da una fauna predatrice difficile da tenere a bada
da parte di un singolo individuo, impediva di procedere in tempi
brevi lungo tragitti ignoti. Solo una forte immaginazione può
renderci visibile il contesto entro cui si muovevano
i nostri antenati, insieme con la loro vita di tutti i giorni, con
i rapporti tra individui e nel gruppo, con il pensiero via via più
articolato e complesso, in una parola con la loro costante evoluzione
nel tempo e nello spazio.
Mutano di poco, le forme delle dèe. Nel senso che diventano
sempre meno approssimate, e sempre più raffinate e artisticamente
meglio definite, rispetto a quelle ritrovate in Mongolia o a quelle
emerse dai bacini archeologici dellAfrica centrale (altro
luogo di menhir, ad esempio, più che altro raggruppati a
ciuffo, ma affini a quelli che costellano molti siti del Vecchio
Continente) o di diversi Paesi europei.
Volavano forse parole comprensibili a tutti gli esseri umani, per
i cieli della preistoria? E quanti decenni, o secoli, o millenni,
richiese la pazienza dei passi delluomo nel tempo per traversare
deserti e mari, montagne e ghiacciai, e per raggiungere i luoghi
della caccia e dellagricoltura, delle pianure e delle grotte
adatte al riparo e alla difesa? E quando fu che luomo alzò
gli occhi al cielo, e creò i primi rudimenti dellarte,
forse nel tentativo, ingenuo e candido, di placare il furore dellIgnoto
che scagliava il fulmine e inceneriva le colline? Fu per questo
che scrutò il sole e gli astri, e intuì il ruotare
delle stagioni, e alzò ziggurat e megaliti stohenengiani
e forse anche superbe e aguzze specchie, e diede infine una misura
e una cadenza alle nude albe e agli incantevoli tramonti? Fu per
questo che si dipinse il corpo, che danzò nelle radure, che
cantò con parole ondulari, e infine batté il piede
al ritmo sordo dei tamburi, prima di rivolgere larco e la
cerbottana con la freccia intinta nel curaro contro le scimmie e
i cervi e i bufali, e poi contro i suoi simili?
Chissà se la caverna di Twin Rivers ci presenterà
altri scenari sconosciuti, ci rivelerà qualcosa di più,
ci sorprenderà in qualche altro modo; chissà se è
solo qui che si nascondeva un gruzzolo prezioso del nostro passato
remoto! Si continua a scavare, infatti, si fanno saggi più
in qua e più in là, nelle quattro direzioni cardinali,
nella speranza di essere aiutati dalla fortuna, di imbattersi in
un altro carsico scrigno e di poter aprire unaltra pagina
del libro del nostro passato. Da leggere come scoperta nuova, se
pur mai definitiva, della storia infinita delluomo.
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