Per non
dimenticare quanta poesia è nata, e di che
spessore
qualitativo,
da visioni del
genere, abbiamo
ancora bisogno dei pastori vaganti.
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Vedevamo le greggi imbiancare le campagne a macchie irregolari,
a striature, a gruppi sparsi, tenute docchio dal pastore e
dal suo cane, ai quali ogni capo obbediva ciecamente. Erano parte
integrante del paesaggio: di quello reale, e dellaltro, che
in bucoliche visioni pittoriche faceva mostra di sé nelle
case degli artigiani più abbienti e dei piccoli borghesi
più pretenziosi; e che comunque avevano alimentato espressioni
darte anche di buon livello, con tele di elegiaca fattura,
di aspri paesaggi maculati da candidi branchi brucanti, di ingenue
mandrie su presepi digradanti su rupestri Natività.
È un mestiere che inganna, per la sua straordinaria ubiquità.
Sa di mito, di Pan, di Arcadia. Di poesia.
Ma la realtà è molto più prosaica, fatta comè
di pioggia, di freddo, di neve; di lunghe, anzi spesso lunghissime
marce forzate dalla pianura alla montagna, e dalla montagna alla
pianura. Ogni anno, lungo percorsi mai uguali, eppure sempre i medesimi,
da secoli: quelli della pastorizia nomade, di una transumanza che
nella Penisola continua, tenace, a trovare un suo spazio. Sempre
più ridotto, economicamente precario, di frequente malvisto
da chi si ritrova un gregge che attraversa la sua strada,
i suoi campi.
I pastori nomadi esistono ancora, la mena delle pecore sopravvive,
in questo scorcio di nuovo secolo e millennio. Capita di incrociarli
con le loro greggi sulle strade fuori mano delle Prealpi, dalla
Liguria al Friuli, o più giù, dallAbruzzo al
Molise, nellarcigno Sannio e nellIrpinia, o in fondo
allimbuto della Penisola, fra le Calabrie, tra la Basilicata
e la Capitanata. Nella terra salentina formavano una parte del capitale
(pecunia da pecus) contante delle masserie.
Poi erano state cancellate dallinurbamento dei massari e dalle
migrazioni dei contadini, che avevano determinato la morte di quei
centri di economia curtense. Oggi, quelli non ancora diruti sono
occupati (dallarea di Greca a quella otrantina) da pastori
giunti dalla Sardegna, formidabili produttori di formaggi e di altri
prodotti derivati dal latte.

Capita ancora di trovarli, dunque. Magari fanno tenerezza, con
quel loro essere fuori dal tempo, con limmagine consueta per
chi ha ricordi neanche poi tanto lontani degli agnellini stipati
nelle sacche sulle groppe degli asini. E magari anche adesso spaventano
anche un po, per una secolare diffidenza per quegli emblematici
senza-casa che torna a riaffiorare. Oltre tutto, è piuttosto
improbabile che un adolescente, o un giovane, oggi si metta a fare
il pastore, per di più transumante: vale a dire sempre in
movimento, su in alto, verso le balze montane in primavera, da un
prato-pascolo allaltro nel corso dellestate, verso la
pianura in autunno. E ancora dinverno, tra le stoppie dei
campi in riposo. Per farlo, si dice, bisogna essere proprio bizzarri,
che significa un po più che matti, o meglio
ecco la diffidenza malati: ed è proprio in questo
modo, e usando questi termini, che ne parlano loro, i pastori. Malattia.
Malattia per le pecore, per le feje, ad esempio, come
le chiamano i piemontesi protagonisti del bel volume Dove vai pastore?,
nel quale una giovane ricercatrice, Marzia Verona, ha raccolto le
voci degli uomini che ancora conducono le greggi.
Contro ogni logica economica: fare il pastore, in tempi di civiltà
a tecnologie avanzate, è del tutto contraddittorio. E non
rende nulla. Anche a fare la tara delle prevedibili lamentazioni
dei protagonisti, è chiaro che da mordere, alla fine, resta
ben poco. Daltra parte, a che cosa potranno mai servire nei
prossimi anni, e con il cambiamento anche dei gusti culinari, le
pecore, in unItalia ricca e pienamente inserita nei circuiti
del commercio internazionale? Serve pochissimo la lana, un giorno
fondamento del primo settore industriale del nostro Paese. Le pecore
vanno tosate, il vello cresce senza preoccuparsi più di tanto
delle congiunture di natura economica. Ma il costo della tosatura
supera il guadagno delle lane: difficili da vendere, richieste ormai
in quantità limitatissime soltanto da qualche
artigiano che lavora il feltro, oppure come sostituto dellisolante
minerale noto come lana di roccia. Non servono, come
invece in passato, grandi quantità di latte, non quello delle
greggi transumanti, almeno: quasi nemmeno si munge più, sono
diventati eccessivi i limiti igienici imposti dallEuropa per
continuare a produrre quella che un giorno era una ricchissima gamma
di formaggi artigianali. Un po di spese le copre ancora la
carne, venduta generalmente su ridotta scala locale. Agnelli e capretti
venduti in soddisfacenti quantità solo a Natale e a Pasqua,
e quasi esclusivamente nellItalia centro-meridionale, e qualche
manciata di capi ai grossisti per soddisfare la scarsa domanda della
grande distribuzione.
Una mano, insperata, arriva dagli immigrati di religione musulmana:
i loro sacrifici rituali comportano unimprevista domanda di
ovini, acquistati attraverso le macellerie islamiche o direttamente
alla fonte, cioè dai pastori nomadi. Ma ormai lapertura
internazionale è frequente, nellallevamento italiano.
Se celeberrimi sono i mungitori sikh della Valpadana, nemmeno tra
gli alpeggi appenninici e tra le Murge tra garzoni marocchini,
aiuto-pastori romeni e tosatori neozelandesi manca lapporto
degli extra-comunitari. Perché di italiani disposti a fare
questo lavoro, durissimo e avaro, nellItalia continentale
se ne trovano sempre meno. Anche se oggi i pastori sfoggiano il
piercing e collanine etniche, e si appoggiano a cellulari
e a microchip per identificare i capi di bestiame, quelli che ci
sono sembrano proprio gli ultimi epigoni di una plurimillenaria
tradizione in via di estinzione.
Di transumanza, ormai, si parla quasi esclusivamente al passato.
Tolta la lana, tolto il latte, tolta quasi la carne, per campare
in pratica non resta che una sola risorsa: le sovvenzioni dellUnione
europea. Una certa somma a pecora: il che non aiuta i pastori seri,
rispettosi dei loro animali e dellambiente, e favorisce invece
speculatori impreparati, capaci di perdersi le greggi (è
accaduto anche questo!), di non rispettare i divieti e le norme
che regolano la transumanza, di rubare lerba.
Certamente, senza quei contributi la pastorizia vagante sarebbe
già definitivamente scomparsa, come tanti altri mestieri
legati a un passato rurale che, o non esiste più, oppure
ha trasformato radicalmente le proprie finalità, comè
accaduto per tanti tratturi che erano antiche rotte dallAbruzzo
e dal Molise verso la Ciociaria, la Campania, la Calabria e soprattutto
in direzione delle pianure settentrionali della Puglia, che sono
diventati percorsi e itinerari turistici, con notevoli risorse paesaggistiche,
storiche e artistiche.
Eppure i pastori, anche quei pochi che rimangono a vagare tra monti
e piano, tra rocce e pascoli piani, servono ancora. Non per leconomia,
evidentemente: ma per lambiente. Il pascolo, la presenza umana,
sono un tassello fondamentale per la tutela del paesaggio; boschi
e campi vengono ripuliti dalle greggi, senza i costi
e linquinamento dei mezzi meccanici. Il che significa, come
ha stabilito unindagine specifica, prevenzione degli incendi,
limitazione del rinselvatichimento che minaccia le aree montane
e pedemontane, conservazione della biodiversità vegetale.
E poi anche perché no? bellezza del paesaggio.
È bello incontrare, in una passeggiata in montagna o in collina,
un gregge. Lo è anche in pianura, o tra valli discoste. Ed
è bello conservare quellarmonica alternanza di bosco
e di prato, di murgia e di pascolo, di serra e di pastura, che segna
i versanti dei nostri paesaggi. Per godere, per non dimenticare
quanta poesia è nata, e di che spessore qualitativo, da visioni
del genere, abbiamo ancora bisogno dei pastori vaganti. Anche musealizzati,
ma in quel grande museo a cielo aperto che è la natura italiana.
In altre parole, i pastori come specie protetta, proprio al modo
dei loro secolari nemici, i lupi: che da qualche tempo stanno ampliando
la loro area di diffusione, visto che sono tornati sia sulle Alpi
e sugli Appennini, dove attaccano (nel nome dellequilibrio
naturale, oltre che della conservazione della loro specie) le pecore
in transumanza.
(Non potendo contare sul Wwf o su Legambiente, i pastori vaganti
a rischio di estinzione sono costretti a fare da sé. Dal
2003, quelli attivi nellItalia del Nord si sono riuniti nellAssociazione
pastori vaganti dellarco alpino italiano: aderiscono un centinaio
di allevatori dalla Liguria alla Venezia Giulia, in rappresentanza
di 200 mila pecore. Prima battaglia, ottenere labolizione
dellanacronistico Libretto per il pascolo vagante che, istituito
nel 1954 per motivi sanitari, obbliga ogni singolo pastore a chiedere
il permesso di transito ai comuni con due settimane danticipo:
cosa che si scontra sia con la mutevolezza del clima, che rende
spesso imprevedibile dalloggi al domani leffettiva disponibilità
di pascolo, sia con la scarsa dimestichezza questa, sì,
prevedibile dei pastori con bolli, timbri, registri, e altre
burosaure implicazioni.
Altro fronte aperto, quello che vuole consentire il pascolo anche
allinterno dei parchi naturali, abolendo obsoleti regolamenti
nati quando la tutela dellambiente era intesa come blocco
totale di qualsiasi attività umana. In Abruzzo e Molise,
le principali regioni di transumanza dellItalia centrale e
meridionale, liniziativa più efficace è la campagna
Adotta una pecora: il pastore adottivo,
spesso conquistato via Internet, sovvenziona un capo del Parco nazionale
dAbruzzo, ricevendo in cambio formaggi, salumi, lana e la
possibilità di partecipare ai momenti salienti della pastorizia,
dalla transumanza alla tosatura).

Sgozzata sugli altari da millenni di culti religiosi, è
stato scritto, alla pecora non dispiacerà diminuire: di rosolare
ne avrà avuto abbastanza. Rade, oggi, le greggi tenute a
bada da maremmani bianchi. Anche fra i tratturi una volta affollati.
Va così da quando ci sono storia e memoria, pastori e greggi
sparsi tra gli spazi aperti. Ma il nostro è un tempo che
cancella e sgombera. Ora la transumanza, se la fanno, avviene con
i camion caricati di centinaia di capi portati ai pascoli estivi.
Un po dappertutto i pastori sono sempre meno autoctoni, ma
albanesi, macedoni, di Paesi montuosi dellEst europeo, persino
di aree del Subcontinente indiano. Si tosano soltanto le lane pregiate,
la convenienza è misera, di margine, tranne che per la carne
tenera degli agnelli che nascono da due gravidanze allanno.
Chi è per le greggi il pastore: un protettore o un boia?
Il più forte predatore o uno scudo? O soltanto un infelice
viceré del mondo?
Docilità e pazienza delle greggi sono proverbialmente sovrumane.
E certo il traffico del mondo renderà presto vantaggioso
importarne la carne, anziché allevarla sui nostri alpeggi
e nelle nostre pianure: saranno cancellate dal paesaggio, che senza
di loro sarà più zitto e più spoglio; se ne
conserveranno degli esemplari negli agriturismo e nei presepi. E
sarà come se il bianco di camicia al sole se ne andrà
dietro a quello di una nuvola sbandata dal vento.
Imparammo sui banchi di scuola lambientazione remota, misteriosa
e affascinante nella quale sinnalzava il Canto notturno
del pastore che errava per le pianure asiatiche, intrecciando momenti
di riflessione e abbandoni al sentimento:
Che fai tu, luna, nel ciel?
... Somiglia alla tua vita
la vita del pastore
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale? |
Fin qui Leopardi. E Quasimodo:
Monti secchi, pianure derba prima
che aspetta mandrie e greggi,
mè dentro il male vostro che mi scava. |
Quanta poesia dallosservazione di bianche nuvole e lenzuola
cangianti fra i pascoli verdi? E quanta ne morirà, dopo le
cancellazioni, gli sgomberi, gli smembramenti? Tornano alla mente
le antiche antologie, che gli scientismi doggi hanno reso
obsolete. Leggevamo da Giovanni Bertacchi:
Sul ciglio delle alture la greggia ondulata
[appariva,
ed eretto sovressa alto il pastore;
grande così sul cielo, pareva il selvaggio
[signore
di non so qual vagante isola viva.
Sui cigli della storia sempre così eguale
[saffaccia
la greggia dogni età, dogni contrada:
sembra una stessa torma che vada nei secoli
[e vada,
seguendo una fedele unica traccia.
Oh, quando esse, annunciando le due
[ritornanti stagioni,
salgono ai monti e tornano, tra i nimbi
degli odorosi velli le madri sospingono i bimbi,
quasi ad un rito che li renda buoni...
O dalle poesie-favole di Diego Valeri:
Ci fu nel tempo antico un pastorello
che aveva dieci pecore e un agnello.
Era povero molto, e inverno e state
andava per montagne e per vallate...
Andava e andava tutto il dì; la notte,
dormiva negli stazzi o per le grotte...
Oppure dalle immagini dannunziane che evocavano la
struggente dolcezza del rimpianto:
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra dAbruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare...
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente
su le vestigia degli antichi padri... |
Cè chi ricorda almeno il nome di Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi? Questo comes lunae, compagno
della luna, come si definiva, girovago, anarchico, assediato dalla
miseria, sempre in conflitto tra la grandezza dei sogni a cui aspirava
e la meschinità della realtà che lo soffocava, scriveva
in una delle sue più belle poesie:
Quando, o pastore, a culmini biancheggi
ottobre e i tordi calino ai ginepri,
tu i pascoli saluti ove le lepri
danzano e aduni le tue sparse greggi...
E vai...; e un pianger di randagia squilla
su le tue greggi e lor cammino oscilla,
che al destin par, de la tua vita, echeggi.
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Mentre forse più noti sono i versi che Umberto Saba dedicò
alle greggi, la cui vista risvegliava nel suo cuore la nostalgia
della vita libera e semplice:
Greggia che amai dallinfanzia sperduta,
per te la doglia si fa in cor più acuta;
e mi viene, non so, dinginocchiarmi;
non so, nel tuo lanoso insieme parmi
scorger io solo qualcosa di santo,
e dantico e di molto venerando.
Ti mena un vecchio, sui piedi malcerto:
un Dio per te, popolo nel deserto.
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E di gran lunga meno noti i versi di Garibaldo Alessandrini, uomo
di Versilia e operaio di mare:
Assonnata campagna, ebra di sole; ...
Ed ecco improvviso si leva
un belato, un tremore di lamento.
Trasalgo: ché da invisibile gregge,
allistante, non so se si diparte
o dal mio cuore...
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O quelli di Giovanni Titta Rosa, poeta dellintima essenza
classicista:
Sotto i pallidi olivi
sparse greggi sul margine dei greti
brucano lerba rugginosa...
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Al pari di quelli del poeta svizzero di lingua italiana Giorgio
Orelli:
Le capre, giunte quasi sulla soglia
dellosteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.
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O infine quelli del nuorese Sebastiano Satta, poeta schiettamente
barbaricino, del quale citiamo lintero, splendido testo del
sonetto Alba:
Or i sardi pastori, allindorarsi
dei cieli, mentre van con tintinnio
dolce le greci a ricercar gli sparsi
rivi, levan le fronti e adoran Dio.
Rapiti, quasi sentano levarsi
la luce in seno, fremono ad un pio
sgomento come quercie, su per gli arsi
greppi, dei venti roridi al desio.
Poi vanno lungo il risonante mare,
fra prati dasfodelo e per le rupi,
vanno fantasmi dunantica età;
torbidi e soli nel fatale andare,
il cuore schiavo di pensieri cupi,
locchio smarrito nellimmensità.
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Ecco, sono tratturi di poesia, paesaggi di erbe primaverili tenere
e inebrianti, sprazzi di luce, e brandelli di anime errabonde, esistenze
neolitiche che proiettano le loro ombre fino ai nostri giorni di
ferro. Memorie che svaniscono sulle strade veloci, fra le scie delle
macchine aeromobili, dietro il rombo dei convogli a cuscino daria.
Qualche perfidia, qualche tradimento, il prezzo della nostra vita.
Che cosa cè di giusto o di ingiusto sotto il nostro
cielo che non specchia più il profilo pagano del pastore?
Ulisse ha avuto la meglio: è cieco e impotente, ormai, il
mondo bello e feroce dei padri.
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