Mentre
gli urbanisti
progettano
le loro reti di
città-quartiere,
le megalopoli avanzano senza chiedere il
permesso
ai professori
universitari.
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Quello prossimo sarà ricordato nella storia come lanno
del sorpasso delle città sulla campagna. Così ritiene
lUfficio demografico delle Nazioni Unite. Per la prima volta
dalla comparsa delluomo, la popolazione urbana diventerà
maggioranza, ed è facile prevedere che non si tornerà
più indietro. Potremo dunque dividere la storia del mondo
in due parti: dalle origini al 2007, quando prevaleva la popolazione
rurale; e dal 2007 in poi, quando si instaura il dominio delle città,
delle metropoli e delle megalopoli.
Megalopoli dal greco megápolis, grande città
è parola antica. Si chiamava così una città-Stato
del Peloponneso, quella che aveva dato i natali allo storico Polibio,
e che esiste ancora. Sorge nientemeno che in Arcadia, nome che evoca
immagini di prati fioriti, di ruscelli gorgoglianti, di dolci climi
e di serenità. Nel senso moderno, invece, megalopoli è
un termine introdotto dal geografo Jean Gottman nel 1961 per indicare
il complesso urbano formato da Boston, New York e Washington.
Per convenzione, una città diventa metropoli quando supera
il milione di abitanti, e una metropoli diventa megalopoli quando
sorpassa i dieci milioni. New York è stata la prima, nel
1940. Oggi esistono venti megalopoli: dieci negli Stati Uniti, le
altre sparse nel resto del mondo. Due sono in Africa: Lagos e Il
Cairo. Tre sono in India, due in Cina. Per inciso, secondo le previsioni
dellamericano Census Bureau, nel 2034 lIndia sorpasserà
la popolazione della Cina: si profila un colosso potremmo
chiamarlo Cindia che da solo ospiterà
circa la metà della popolazione mondiale.
Nelle venti regioni delle megalopoli si concentrano 660 milioni
di persone, un decimo della popolazione mondiale. Ma questo 10 per
cento produce la metà dei beni economici complessivi, ospita
i due terzi di tutte le attività di ricerca scientifica e
genera i tre quarti di tutte le innovazioni tecnologiche. I sociologi
spiegano questa impressionante asimmetria ricordandoci che nei posti
dove si concentrano molte persone e molte attività produttive
la creatività cresce esponenzialmente, perché le idee
innovative circolano con maggior velocità e si fecondano
reciprocamente. Cosa in parte vera, che chiarisce come mai il provincialismo
sia dannoso.
Ma Robert Lucas, premio Nobel per lEconomia, ha fatto notare
che lalta produttività di queste regioni in beni, scienza
e cultura dipende anche dal fatto che non mettiamo nel conto la
esternalità, cioè ci dimentichiamo dei
costi sommersi che vengono a gravare sul resto del territorio in
termini di danni ecologici.
In altre parole: New York, Tokyo e Pechino si sviluppano perché
da qualche altra parte i pozzi di petrolio vengono spremuti fino
allesaurimento e laria dellintero pianeta si riempie
di anidride carbonica e altri inquinanti. E infatti le venti megalopoli
occupano solo il 2 per cento della terraferma, ma consumano i due
terzi delle risorse globali e producono la metà di tutti
i rifiuti solidi e gassosi. Per far fronte ai consumi di Londra
(che occupa 1.580 chilometri quadrati), occorre un territorio 125
volte più esteso, pari a 198 mila chilometri quadrati, quasi
uguale alla superficie del Regno Unito (210 mila chilometri quadrati),
due terzi dellItalia. Solo per sfamare i londinesi servirebbero
84 mila chilometri quadrati di terreni agricoli.
Qui entra in gioco il concetto di impronta ecologica.
Quanto suolo è necessario per fornire tutto ciò che
serve alla nostra vita? Questa è limpronta ecologica.
Gli ecologi calcolano che per avere una impronta ecologica
sostenibile, cioè che non intacchi il capitale
delle risorse naturali ma sfrutti solo i suoi interessi,
bisogna rimanere al di sotto di 1,8 ettari per persona. Oggi nella
Cina agricola siamo ancora a 1,6, ma a Shanghai si balza a 7,0.
Limpronta ecologica di un cittadino italiano è 3,1,
quella di un americano 9,7. Se le cose stanno così, poiché
la tendenza verso le megalopoli pare inarrestabile, sarà
necessario escogitare soluzioni affinché le megalopoli diventino
ecopoli, cioè il più possibile autosufficienti.
Per avvicinarci a questo obiettivo, le parole dordine sono
queste: 1) riciclare lacqua e tutte le altre risorse primarie;
2) migliorare lefficienza energetica sviluppando fonti rinnovabili;
3) contenere luso delle auto con unadeguata rete di
trasporti pubblici; 4) ridisegnare la mappa stessa delle megalopoli;
5) consumare il più possibile beni che vengano dal circondario
(i generi alimentari consumati a Londra in media hanno fatto un
viaggio di 3.000 chilometri: molti, infatti, arrivano dalla Nuova
Zelanda, dal Brasile, dallAfrica).
Melbourne, in Australia, dà il buon esempio: con un investimento
di 40 milioni di dollari si è dotata di generatori eolici
e di pannelli fotovoltaici che insieme generano l85 per cento
dellelettricità consumata per uso domestico; collettori
di acqua piovana forniscono il 70 per cento dellacqua. Ledilizia
intelligente può fare molto: una giusta esposizione al sole
e finestre ben progettate permettono di utilizzare al massimo lilluminazione
naturale e di surrogare il condizionamento termico, rinfrescando
gli ambienti in estate e riscaldandoli in inverno.
A Berlino il nuovo palazzo del Parlamento con tecniche analoghe
fa risparmiare il 94 per cento delle emissioni di anidride carbonica
che si produrrebbero con sistemi di illuminazione e condizionamento
tradizionali. Vienna mette a disposizione gratis 1.500 biciclette
per chi rinuncia allauto. Shanghai ha 100 mila tetti con pannelli
fotovoltaici al posto delle tegole.
Buone cose, ma si tratta in fin dei conti di pannicelli caldi che
difficilmente riusciranno a risolvere i problemi alla radice. È
la concezione della megalopoli che va ripensata. I giganteschi mostri
urbani con cui oggi facciamo i conti risalgono a una filosofia propugnata
negli anni Sessanta del secolo scorso dallurbanista americano
Christopher Alexander, docente di architettura alluniversità
della California.
I grattacieli sono il simbolo della iperdensità demografica.
Il centro di Shanghai ha una densità di 42 mila cittadini
per chilometro quadrato, il quadruplo di New York. Houston, 60 mila.
Oggi lorientamento non è più verso singole megalopoli,
ma verso arcipelaghi urbani, costellazioni di città-quartiere,
tipicamente con una popolazione intorno al mezzo milione di abitanti.
Queste città-quartiere potranno poi essere connesse tra loro
in rete, un po come i server di Internet. È il modo
migliore per avere collegamenti brevi e rapidi, limitando la mobilità
e nello stesso tempo incentivando quei rapporti interpersonali che
sono così fecondi per la creatività scientifica e
artistica, e quindi in ultima analisi anche per la produttività.
Sappiamo dalla teoria matematica delle reti e dalla conseguente
teoria sociologica dei piccoli mondi che ognuno di noi
in media è connesso a tutti gli altri 6,5 miliardi di persone
viventi nel mondo attraverso sei passaggi soltanto:
perché non applicare questa nozione al progetto delle città?
Resta da vedere se siamo in tempo. Mentre gli urbanisti progettano
le loro reti di città-quartiere, le megalopoli avanzano senza
chiedere il permesso ai professori universitari. E nascono nuove
realtà ancora più ingestibili. Diamo uno sguardo alla
geografia di queste colossali concentrazioni umane: cento anni fa,
con 6,5 milioni di abitanti, Londra era la città più
grande del mondo. Oggi ne ha 7,5, ma nel frattempo Tokyo è
arrivata a 34 milioni, quasi tutti immigrati dal territorio circostante.
Nel 1900 solo il 10 per cento della popolazione mondiale abitava
nelle città. Oggi stiamo per raggiungere e superare il 50
per cento.
La migrazione dalla campagna alle città è un fatto
globale, dallAfrica allAsia, dalle Americhe allEuropa.
Ne deriva un nuovo fenomeno: metropoli e megalopoli contigue tendono
a fondersi in concentrazioni ancora più estese. Le supermegalopoli.
Larea della grande Tokyo ha 55 milioni di abitanti,
quella di Osaka-Nagoya 36, Fukuoka-Hiroshima-Kitakyusha 20 e si
chiama ormai Fuko-Shima: si fondono anche i nomi.
La grande Seul raggiunge i 44 milioni, la grande
Pechino 37, Shanghai con Nanchino e Hangzhou supera i 50 e
si chiama Shang-King. In Europa, il corridoio mediterraneo Valencia-Barcellona-Marsiglia-Lione
riunisce 25 milioni di persone. Negli Stati Uniti si affaccia una
nuova toponomastica: Chi-Pitts, 45 milioni di abitanti, è
il conglomerato di Pittsburgh, Cleveland, Detroit, Cincinnati, Chicago
e Minneapolis. Chatlant ha 20 milioni di abitanti, ed è linsieme
di Atlanta, Charlotte e Raleigh. Daustin è la sintesi di
Dallas, San Antonio e Austin (9 milioni di abitanti). Boswash è
lassemblaggio di Boston, New York, Philadelphia e Washington:
55 milioni di abitanti. Tor-Buf-Chester, 20 milioni, è linsieme
di Toronto, Buffalo, Rochester, Ottawa e Montreal.
Tra mezzo secolo, se la tendenza continua, l80 per cento della
popolazione mondiale sarà concentrato in supermegalopoli.
Sta per diventare realtà la profezia dellurbanista
greco Constantinos Doxiadis, che nel 1967 coniò il termine
ecumenopoli per indicare la città globale, generata dalla
connessione di tutte le aree urbane. Speriamo di non vederla.
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