A dispetto
dei loro bilanci straordinari,
le Sette Sorelle
di oggi non
somigliano in niente a quelle
di ieri, né esiste alcun tipo di
parentela tra loro.
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I profitti delle sette maggiori società petrolifere, tra
le quali cè litaliana Eni, continuano ad essere
molto elevati; ma il loro potere non è nemmeno lontanamente
paragonabile a quello delle Sette Sorelle contro le quali era sceso
in campo il creatore dellEni, Enrico Mattei. Esse controllavano
il 50 per cento delle riserve mondiali di greggio, mentre oggi le
nuove Sette Sorelle ne controllano il 4 per cento, e
le loro possibilità di espansione sono frenate da vincoli
ecologici e dalle politiche dei Paesi produttori. Queste difficoltà
forse preannunciano una nuova ondata di fusioni. Dietro i profitti
a cascata, infatti, attualmente si nascondono dilemmi di sopravvivenza
e di vulnerabilità che mai come adesso rendono i grandi attori
occidentali del petrolio e del gas un pallido ricordo dei grandi
di ieri.
Per buona parte del XX secolo, il mondo del petrolio fu controllato
dalle sette grandi multinazionali occidentali: Exxon, Shell, BP,
Chevron, Mobil, Gulf e Texaco. Forse fu proprio Mattei a ribattezzarle
Sette Sorelle, dopo che unindagine condotta dallantitrust
americano ne ebbe svelato limmenso potere. Al loro apogeo
esse giunsero a controllare su scala globale oltre il 50 per cento
delle riserve e della produzione di greggio, e circa il 70 per cento
della raffinazione e della distribuzione di prodotti petroliferi.
Potevano determinare o influenzare landamento dei prezzi internazionali
del petrolio, lofferta di greggio, risolvere crisi internazionali,
fare e disfare la fortuna di interi Stati, dei quali tenevano sotto
controllo le risorse più importanti in un regime di sostanziale
extraterritorialità.

Poi vennero gli anni Settanta, il primo (1973) e il secondo (1980)
shock petrolifero e londata di nazionalizzazioni. Di colpo
le Sorelle persero il controllo del centro di gravità del
mondo del greggio le riserve del Golfo Persico come
pure quello di altre aree importanti, in Venezuela e nel mondo arabo.
Non solo. Il Senato americano avviò una storica indagine
contro di esse, accusandole di aver tramato con i Paesi arabi per
provocare lo shock del 73 e di aver plasmato per quasi trentanni
i destini della politica estera americana, piegandola ai loro interessi.
Lindagine dimostrò che le accuse erano infondate, ma
limmagine delle Sette Sorelle ne uscì a pezzi, proprio
mentre il loro potere si sgretolava in modo definitivo. Negli anni
successivi alcune di esse scomparvero, assorbite dalle Sorelle più
forti: Gulf è acquistata dalla Chevron nel 1983, Mobil si
fonde con Exxon nel 1999, Texaco con Chevron nel 2001.
Nellimmaginario collettivo, tuttavia, è sopravvissuta
lidea che il controllo del petrolio sia ancora oggi nelle
mani di un ristretto club di grandi multinazionali occidentali.
Gli eccezionali risultati di questi ultimi anni non hanno fatto
che rafforzare questa convinzione, provocando nello stesso tempo
un coro di critiche e di ritorsioni (minacciate o attuate): dalle
proposte di tassazione sui loro windfall profits (profitti a cascata)
alle nazionalizzazioni dei loro giacimenti, dalle proteste per i
troppi soldi restituiti agli azionisti, attraverso dividendo e il
riacquisto di azioni proprie, alle accuse di aver limitato gli investimenti
per fare più cassa, fino a quelle di manipolare i prezzi
alla pompa di benzina e gasolio.
Con il prezzo del petrolio (e del gas) alle stelle, con chi prendersela,
se non con un comodo capro espiatorio come i giganti dellindustria
petrolifera, da sempre invisi allopinione pubblica e ai Governi
e facili bersagli per tutti? Ma le cose sono un po meno semplici.
È vero, i bilanci delle società petrolifere fanno
impressione, in particolare quelle delle prime sette multinazionali
occidentali (tra cui, ancora una volta, lEni). Tra il 2000
e il 2005 essi mostrano flussi di cassa e profitti netti cumulati
rispettivamente di 720,7 e 464,5 miliardi di dollari, oltre a un
monte di dividendi e riacquisto di azioni proprie che supera i 300
miliardi di dollari. Nello stesso periodo, tuttavia, gli investimenti
di queste sette società (inclusi quelli per lacquisizione
di altre società) hanno superato i 540 miliardi di dollari:
una cifra che eccede di gran lunga i loro profitti netti complessivi.
Alcune sono state più prodighe e virtuose di altre nellinvestire,
ma nel complesso sarebbe assurdo sostenere che non lo abbiano fatto
in dimensioni rilevanti.

Il vero problema è che quellimmenso fiume di denaro
è stato assorbito in buona parte da progetti ambiziosi e
difficili, in aree costose e spesso ambientalmente ostili. Aree
dove produrre un barile di petrolio costa quattro, cinque o perfino
dieci volte più di quanto costi produrlo nel Golfo Persico:
dove, però, le società straniere non possono detenere
riserve e produzioni di greggio, se non in misura ridottissima.
In realtà, a dispetto dei loro bilanci straordinari, le Sette
Sorelle di oggi non somigliano in niente a quelle di ieri, né
esiste alcun tipo di parentela tra loro. Prese nel loro insieme,
controllano appena il 4 per cento delle riserve provate di greggio
nel mondo e il 5 per cento di quelle di gas naturale; va un po
meglio per la produzione di greggio (16 per cento) e di gas naturale
(17 per cento), e per la raffinazione del petrolio (25 per cento).
Il loro futuro è gravato dalla spada di Damocle di come rimpiazzare
le riserve consumate ogni giorno, mentre nei Paesi in cui operano
i Governi locali incamerano ormai mediamente tra il 60 e l80
per cento del prezzo del barile venduto. Men che mai hanno alcun
grado di controllo sul mercato petrolifero, né possono in
alcun modo influenzare lofferta di petrolio e gas, ormai appannaggio
dei Paesi produttori e delle loro società nazionali.
Daltra parte, anche investire negli altri pilastri tradizionali
del loro modello di business non è così facile. Raffinazione
e petrolchimica hanno solo di recente offerto opportunità
interessanti, dopo quasi due decenni di margini bassi o negativi.
Ma su entrambi i settori continua a gravare lostilità
delle comunità locali soprattutto nei Paesi industrializzati
che colpisce anche i rigassificatori e qualunque impianto
ambientalmente invasivo, rendendo di fatto impossibile costruirne
uno (lultima raffineria Usa è stata costruita nel 1976).
E questo, mentre la distribuzione di prodotti petroliferi (le stazioni
di benzina, per esemplificare) è ormai satura nei Paesi avanzati,
in un panorama di ipercompetizione e di legislazioni spesso bizzarre
che complicano ulteriormente i progetti dinvestimento.
In sostanza, gli spazi di espansione delle grandi società
petrolifere passano attraverso porte molto strette e atti di coraggio
che richiedono di gettare il cuore al di là di ostacoli difficilissimi,
ancor di più oggi a causa dellavanzata di una stirpe
aggressiva di società sotto controllo statale che, dalla
Cina alla Russia e al Medio Oriente, cerca il suo posto al sole
nel grande gioco del petrolio e del gas. Per questo, contrariamente
a quanto si pensa, molte di esse attendono come unepifania
la caduta dei prezzi del greggio. Da un lato essa costringerebbe
i Paesi produttori a mitigare le loro politiche, dettate, in fasi
come questa, da un comprensibile nazionalismo delle risorse.
Ma, soprattutto, essa spianerebbe la strada a un nuovo processo
di consolidamento dellindustria, nel quale i più deboli
o i non sufficientemente robusti diventerebbero fatalmente prede
dei più grandi. E, vista lampiezza dei problemi che
gravano sullindustria petrolifera occidentale, non è
detto che una nuova ondata di acquisizioni non si realizzi anche
prima che i prezzi del greggio mostrino segni di decisa inversione.
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