Dopo Giovanni Pontano, è forse
il Galateo
la personalità
più ricca e più complessa
dellUmanesimo meridionale.
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Lo strappò agli studi galateani prediletti, nel pieno della
sua attività, poco più di dieci anni or sono, il male
inesorabile, ma Amleto Pallara vi aveva già profuso le sue
doti di competenza filologica e di acribia esegetica e, con le traduzioni,
dato prova di magistrale conoscenza della lingua di Cicerone e di
Seneca, che è anche la lingua di Antonio De Ferrariis Galateo.
Riportiamo il giudizio di Francesco Tateo, unauctoritas in
materia: «Amleto Pallara è uno di quegli studiosi che
più hanno avvertito, pur muovendo dal culto tradizionale
per la storia patria, la necessità e il gusto di affrontare
il testo dellumanista di Galatone, piuttosto che girare intorno
alle rimarcature erudite e alle celebrazioni. Laffetto per
il proprio corregionale ha avuto in questo caso una funzione decisamente
positiva, indirizzando la sua attenzione ad uno degli aspetti più
difficili dellopera galateana, la resa del testo latino in
un italiano adeguato al livello delloriginale e capace di
trasferirne il significato senza banalizzarlo e fraintenderlo. Tradurre
Galateo non è facile, perché si tratta di uno scrittore
in cui la topica, la combinazione di autorità, la ripetizione
di moduli sembra collocarlo sulla linea della più comune
scrittura umanistica, e in cui proprio lartificio, e talora
la spregiudicatezza con la quale adopera i topoi diventa un veicolo
di originalità. Sembra che il Pallara sia partito da questo
devoto atteggiamento di interprete di fronte ai testi che ha privilegiato
nei suoi studi, alcune epistole particolarmente significative della
diversità del Galateo, per poi fermarsi sul problema ecdotico
offerto dal testo e sul fondamentale problema delle fonti».
Il giudizio oltremodo lusinghiero prosegue con altri apprezzamenti
del lavoro del nostro studioso, e noi ci siamo limitati a trascriverne
solo una parte, già lunga, quasi a legittima replica a certa
insolente burbanza accademica, che poco si identifica con la fermezza
scientifica. Il giudizio è contenuto nella presentazione
del volume Antonio De Ferrariis Galateo. Lettere, testo, traduzione
e commento di Amleto Pallara (Lecce, Conte Editore, 1996) che è
una raccolta parziale dei saggi galateani del Pallara e del quale
qui ci serviremo per tracciare il profilo del nostro umanista
in provincia, con richiami ad altri suoi interventi, sparsi
in riviste o in alcune miscellanee.
Umanista in provincia, lo qualifichiamo, a tutto suo pieno merito,
essendosi egli applicato al suo Galateo in assoluta dignitosa solitudine
e riservatezza, senza clangore di trombe mediatiche o unzioni sacre
del tempio ufficiale del sapere. Come il Pallara puntualizza nella
paginetta di prefazione, le sette epistole galateane, comprese nella
detta silloge, sono particolarmente significative di alcune idee,
tra le più interessanti, del De Ferrariis, rivelative appunto
della sua humanitas: giova più, nello scrittore, la verità
e la sincerità che la forbitezza espressiva (Ep. IV, Apologeticon
ed Ep. XXXIV, De suo scribendi genere); gli studi letterari non
migliorano i costumi dei loro cultori ma ne accrescono la tensione
verso il bene e verso il male (Ep. XXXIII, Vituperatio litterarum
ed Ep. XXXVI, Callipolis descriptio); bando alle discriminazioni
razziali tra cristiani ed ebrei (Ep. XXXV, De neophytis); limpegno
degli italiani nella difesa della civiltà cristiana e nella
preservazione della nostra indipendenza (Ep. XXXVI, Eleazaro Caesaraugustae
commoranti ed Epp. XXIII e XXIV, De Turcarum apparatu).
Lepistola più discussa e tormentata è la Vituperatio,
che sembra compiacersi del paradosso e che ha perciò richiesto
una sorta di accanimento nella sua controversa edizione critica,
come vedremo.
Linteresse primario di Pallara sembra rivolto allo scioglimento
delle varie cruces filologiche e alla individuazione delle fonti
e degli autori, cui riportano le citazioni abbondantissime del Galateo
senza nominarli; che è impresa da far tremare le vene e i
polsi e che Amleto Pallara affronta e supera come forse altri non
avrebbe saputo fare. Le traduzioni riescono a tal punto catturanti
da far dimenticare, a volte, loriginale latino, autonome come
sono nella loro lindura lessicale e struttura concettuale; e qui
ne daremo qualche scampolo.
Ma occorre anche qualche cenno allaltro aspetto del nostro
umanista in provincia: quello di insegnante di materie letterarie,
prima in una scuola media e poi al Magistrale Pietro Siciliani
di Lecce; e a questo aspetto si collegano altri suoi studi. Allindomani
del varo della legge istitutiva della scuola media unica, del 1962,
il Pallara si premurò di allestire una grammatica latina
per gli esordienti: Verso il latino (Lecce, Milella, 1964), singolare
nel suo genere rispetto alle finalità didattiche preminenti.
Cornelio Nepote e Fedro erano i primi testi latini con cui familiarizzare,
in una scuola primaria che non ne aveva ancora conosciuto la sciagurata
abolizione.

Nella sua esperienza vissuta, Amleto Pallara, come quelli della
sua generazione, intendeva e praticava il proprio compito come una
missione (termine poi esecrato); perché nella formazione
dei futuri docenti di discipline umanistiche, accanto ai maestri
della latinitas, da Gandiglio a Gandino, dal Pighi al Traina, interferiva
la lezione dei grandi pedagogisti, da Quintiliano a Vittorino da
Feltre a Comenio. Da qui il possesso di Pallara della lingua latina,
di cui darà saggio non solo nel tradurre il Galateo, come
vedremo, ma anche ardui testi vichiani, quali De nostri temporis
studiorum ratione e De antiquissima italorum sapientia, per unantologia
curata dal prof. Antonio Verri, suo amico: La filosofia di G.B.
Vico (Firenze, Le Monnier, 1981).
Sempre nella fase pregalateana va ricordata una sua dottissima incursione
in territorio dantesco, anche qui ruotante intorno ad una crux filologica:
Epistola XI. Ai cardinali italiani, 24-5 (Lecce, I.T.E.S. 1996,
pp. 30). Non è questa la sede per insistervi; è sufficiente
rilevare che lampio circuito della perlustrazione esegetica
non tralascia alcuno degli studiosi interessati, dal Boccaccio sino
ai novecenteschi Raffaello Morghen, storico, e Arsenio Frugoni,
dantista, per concludere che a suo giudizio «il passo dellepistola
quale il Boccaccio lo ha tramandato non è scorretto».

Dopo Giovanni Pontano, è forse il Galateo, come scrisse
nel 50 Giuseppe Saitta (Il pensiero italiano dellUmanesimo
e del Rinascimento), la personalità più ricca e più
complessa dellUmanesimo meridionale, non senza fremiti prerinascimentali;
per la versatilità dei suoi interessi e studi, scientifici,
letterari, geografici, storici, filosofici. Se ne sono poi occupati,
da angolazioni diverse, Eugenio Garin e Antonio Altamura, Mario
Santoro e Francesco Tateo, cui sono seguiti numerosi altri agguerriti
cultori, tra i quali il nostro Amleto Pallara.
Risaliamo ora, preliminarmente agli anni in cui visse e operò
Antonio De Ferrariis, tra la nativa Japigia e la capitale del Regno
(1448-1517): epoca fra le più tristi della storia del Mezzogiorno
e dellItalia tutta, che fa da sfondo in non poche pagine dellopera
galateana, come ha documentato il compianto Donato Moro, nel suo
bel libro Per lautentico Antonio De Ferrariis Galateo (Napoli,
Editrice Ferraro, 1991). La dinastia aragonese si era insediata
da poco e levento aveva suscitato grandi speranze; il Regno
riunificato tornava ad inserirsi nel concerto degli Stati italiani,
dopo la cupa parentesi degli ultimi Angioini, con una fisionomia
rinnovata. Napoli si arricchiva di monumenti e la corte di Alfonso
il Magnanimo diventava centro vivacissimo dirradiazione culturale
con lAccademia Pontaniana.
Ma la realtà effettuale era assai diversa dallimmagine
che se ne voleva esibire. Il Croce, nella sua Storia del Regno di
Napoli, riporta il giudizio del Machiavelli sulla genia dei galantuomini
e baroni pullulanti nelle contrade del Regno, «uomini del
tutto nimici di ogni civiltà» (Discorsi, I, 55). I
baroni contavano assai di più dellautorità del
sovrano, il quale, dopo la famosa loro congiura tra il 1485 e il
1486, dovette venire a patti e legittimare tutte le loro usurpazioni,
avvenute in un secolo di anarchia feudale.
Incombeva poi sempre la minaccia ottomana dal tempo del sacco di
Otranto del 1480, non meno di quella costituita dalle mire espansionistiche
di Venezia, dopo lassedio e loccupazione di Gallipoli
del 1484. Si aggiungano, per completare il quadro, le periodiche
jacqueries, represse nel sangue dal successore Federico. La guerra
franco-spagnola avrebbe fatto il resto, sino alla vittoria finale
di Ferdinando il Cattolico di Spagna, con il quale, dal 1503, aveva
inizio la lunga notte della dominazione spagnola del Mezzogiorno.
Ce nè più di quanto non occorra per giustificare
il pessimismo del Galateo, che in numerosi suoi scritti parla di
barbarie, per liberarsi dalla quale reclamava il ripristino della
civiltà greca e la rivendicazione delle radici cristiane.
Gli splendori letterari e artistici, nel contesto nazionale che
annoverava laffermazione delle Signorie e dei Principati,
non colmavano larretratezza del Regno, nel quale peraltro
anche le strutture ecclesiastiche parevano concorrere ad accentuarla.
E il Galateo, come poté, interveniva con lHeremita
e lEsposizione del Pater Noster, ad arginare corruzione e
prevaricazione; non senza, sia pure, lingenua difesa della
Donazione di Costantino, che Lorenzo Valla dimostrava essere un
clamoroso e strumentale falso (nellEp. XXX, De Constantini
donatione): lo scotto, certo, di unepoca di troppi marosi,
tra i quali non sempre era dato disporre di una bussola.
Sono costanti, invece, le lagnanze del Galateo sia in ordine a insinuazioni,
a suo giudizio calunniose, circa il comportamento assunto di fronte
agli eventi, sia in relazione a certi suoi beni materiali, come
la assai cara sua villula triputeana, bersaglio di rustici malevoli,
non meno che di infideles o di mercenari al soldo di
Venezia (Ep. XVI, De Villae incendio). In certi casi locchio
del Galateo è davvero lungimirante e presago, come nella
Epistola III, De situ terrarum (indirizzata, non casualmente, al
Sannazaro), nella quale si affronta largomento delle scoperte
geografiche oltre Atlantico ed il problema dei rapporti tra Occidente
latino e America. Vi si registra il dibattito, coinvolgente altri
interlocutori, per concludere che il vecchio continente, attraverso
le scoperte, veicolava la corruzione tra le popolazioni indigene.
(Ricordo incidentalmente che il tema sarà ripreso da Montaigne,
con esiti non diversi, col mito gratificante del buon selvaggio).
Estrapoliamo qualche passo:
O macti iterum atque iterum virtute viri, facinus ausi magnum et
memorabile! Sed nescio an gentibus quas reperistis in bonum cessit.
Vere fortunatae gentes et, ut ait Horatius, beatorum insulae, suis
contentae rebus, aurea vivebant specula (E bravi, veramente
bravi per il vostro coraggio, uomini che avete osato unimpresa
grande e memorabile! Ma non so se sia andata bene alle genti che
avete scoperte. Genti davvero fortunate e, come dice Orazio, isole
felici, che, contente delle loro cose, vivevano epoche doro).
Vereor nedum vos ad cultiorem vitam illas ducere creditis, dum religiones,
dum leges, dum varias artes, dum vestes, dum ornatus [
] afferre
curatis, ingeneratis simul et nostra vitia, tyrannides, ambitiones,
arma et machinamenta bellica servitutes [
], immensam habendi
cupiditatem
(Temo che, mentre credete di condurli ad
una vita più raffinata, mentre vi preoccupate di portar loro
riti religiosi, leggi, arti varie, vesti, ornamenti [
], introduciate
anche i nostri vizi, le tirannidi, le rivalità, le armi e
le macchine da guerra, i vincoli servili [
], la sfrenata cupidigia
di possedere).
E non è ci domandiamo lesaltazione della
natura, di per sé buona, di contro alla civiltà, facile
a degenerare? Verrà Rousseau a ribadirlo (lo diciamo incidentalmente)
con maggiore forza argomentativa; forse non ignorando lArcadia
di Sannazaro; e verrà il romanticismo e letà
contemporanea, con la distinzione tra die Natur (Kultur) e die Zivilisation
(in Thomas Mann, ad esempio).
Il luogo di osservazione e meditazione del Galateo sulla realtà
contemporanea variava; era la sua stessa terra dorigine, tra
Gallipoli e Lecce, o più frequentemente la capitale del Regno,
dove, la sua presenza a corte non era nelle vesti del funzionario
dalto rango ma in quelle più dignitose e libere del
protomedico di fiducia; il che garantiva indipendenza di giudizi
e di comportamenti. Quando il Pontano gli rivolse un giorno linvito
a godere della gioia dei Bagni di Baia, egli ricusò, non
intendendo partecipare alla vita allegra della società nobiliare
e borghese: rara testimonianza scrive Tateo «di
una singolare personalità, schiva di piaceri, impegnata nella
scienza».
La scelta del genere letterario dellepistola non risponde
a esigenze di pura retorica, in più luoghi denunciata dal
De Ferrariis come nefasta, ma a motivi di ordine morale, che dunque
non sembrano richiamarsi al modello dellArpinate, che come
uomo il Galateo stimava assai poco, bensì al modello delle
senecane Epsitulae morales o delle Seniles del Petrarca (nelle più
confidenziali). Bastano a dimostrarlo alcuni titoli: De beneficio
indignis collocato (Ep. II), De gloria contemmenda (Ep. V), DE distinctione
umani generis et nobilitate (Ep. XIV), De constantia humani animi
(Ep. XVII), De nobilitate (Ep. XLI): temi propri dellumanesimo
civile, che, indubbiamente, di qua dal ciceronianesimo delle simiae,
risentivano dei testi dei grandi classici della latinità;
e mi limito a citare in proposito i cinque libri delle Tusculanae
disputationes.
Allo schema espositivo delle Seniles petrarchesco ci riconduce la
Callipolis descriptio (indirizzata allamico letterato pontaniano
Pietro Summonte), lì dove il Galateo, che era anche uno scrupoloso
medico di base nella sua terra, narra come sia solito trascorrere
le giornate. È la ep. XXXVI, del 1513, oggetto di studio,
con finissima traduzione, di Amleto Pallara (in Lettere, cit., pp.
75-116). Stralciamo qualche passo:
Hic ego et cibo et somno parcius utor, valeo athletice. Tercia aut
quarta noctis hora eo dormitum; nona aut decima surgo: lego aliquid
aut scribo. Quid faciam? Dormire amplius nequeo [
]. Reviso
annotationes meas, hoc est antiquos labores meos, qui mihi sunt
maximae voluptati, nedum solatio [
]. Ante orientem solem,
si dies festus est aut profestus, rei divinae vaco in templo divae
virginis Agathae; sin nefastus, domi mane deos oro. Ad primam lucem
urbem circumeo, aegrotos visito, deinde prandeo sobrie, ut meus
est mos [
]. Post prandium lego aliquid facile, non quod mentem
agitet, sed quod levet atque delectet [
]. Eo tempore veniunt
ad me aliqui, qui de salute sua consulant [
]. Vicesima hora
aegrotos reviso: ascendo, descendo, laboro, discurro, sudo, quamvis
bruma sit prope. Tandem defessus ac defatigatus ad primas faces
domum redeo, ubi aliqui non ignavi ingenii viri me expectant, qui
me audiant de philosophia, de moribus, de mathematica, exoterice
non acroamatice disserentem. Talis Galatei tui vita.
Con questo brano, si è inteso dare al lettore un breve saggio
del latino galateano, come, con la relativa traduzione che qui segue,
unidea della meritoria adeguatezza stilistica della lingua
di Dante:
Io mangio molto moderatamente e dormo poco, sono in forma come un
atleta. Tre o quattro ore dopo il tramonto vado a dormire, mi alzo
dopo sei ore: leggo qualcosa e scrivo. Che dovrei fare? Non mi va
di dormire di più [
]. Rivedo i miei scritti, cioè
i miei vecchi lavori, che mi procurano grandissimo piacere, nonché
molto conforto [
]. Prima che spunti il sole, se si tratta
di un giorno festivo o di una vigilia, assisto alla messa nella
chiesa di SantAgata Vergine; se si tratta di un giorno feriale,
la mattina prego Dio in casa mia. Ai primi chiarori dellalba
mi metto in cammino per la città e visito i malati; poi faccio
colazione sobriamente, comè mia abitudine [
].
Dopo pranzo leggo qualcosa non impegnativo, che non affatichi la
mente, ma distragga e diletti [
]. È questa lora
in cui vengono da me coloro che vogliono consultarmi [
]. Verso
le quattordici torno a visitare gli ammalati: salgo, scendo, mi
affanno, corro di qua e di là e sudo, benché linverno
sia imminente. Finalmente, quando comincia ad annottare, stanco
e sfinito torno a casa, dove mi attendono alcuni uomini di non poco
ingegno per sentirmi parlare alla buona, non come un cattedratico,
di filosofia, di morale, di matematica. Così vive il tuo
Galateo.
Ma la lettera, a parte lidealizzazione piuttosto oleografica
della città, una sorta di ÐóÏÈÝ
modello, platonica, e dei suoi abitanti, contiene una serie di giudizi
etico-civili sulle classi sociali egemoni, che, a scanso del malanimo
altrui, già sperimentato dal Galateo, gli derivano
dice e ripete dalla conoscenza diretta: An quod experientia
compertum habemus, falsum esse putemus? E lo sguardo del nostro
moralizzatore va oltre i confini della città, con la consapevolezza
sia pure della inutilità dei suoi ammonimenti. Egli avverte
la «missione del dotto», per dir così, anche
se le sue denunce e rampogne che, a volte, echeggiano lasprezza
di Dante, cadranno nel vano; perché «le orecchie di
molti sono più aperte al falso che al vero e come
afferma Aristotele molte cose false sono più accettate
di quelle vere, e generalmente anche più gradite».
Così è accaduto, e accade, che nessun adulatore «necatum
fuisse ob assentationes, sed ditatum et locupletatum et saginatum»;
al contrario, sono finiti, e finiscono male, «bene et recte
monentes et optima consulentes».
I militari? son «vanagloriosi, millantatori, tracotanti, contumeliosi»
(altrettanti Pirgopolinici); i mercanti? sono «spergiuri,
parolai, impostori, malfidi»; i medici? «leggeri, vanitosi,
intemperanti, donnaioli»; i politici? «presuntuosi,
ambiziosi, sprezzanti», e ad essi il nostro fustigatore riserva
la sentenza del profeta: Homo, cum in honore esset, non intellexit;
comparatus est iumentis insipientibus et similis factus est illis
(«Quando luomo è in auge perde lintelletto,
si comporta come le bestie prive di ragione e diviene simile a queste»).
La stoccata più micidiale si abbatte sui legulei:
contentiosos, iniustos, modo harum modo illarum partium patronos,
mendaciorum concinnatores, satores et fautores litium et dorophagos,
et lucri cupidos exemplo et Crassi et Hortensii («Attaccabrighe,
iniqui, difensori ora di questa parte in causa ora della parte avversa,
abili inventori di menzogne, fautori e alimentatori di discordie,
divoratori di doni ed avidi di ricchezze come dimostrano Crasso
e Ortensio»).
È la giurisdizione operante in terra Japigia al tempo del
De Ferrariis e che si protrarrà sino al Settecento, per essere
poi denunciata dallilluminista Giuseppe Maria Galanti.
Le riserve che non di rado vengono formulate sulla coerenza comportamentale
nei confronti del potere politico, della classe colta delletà
dellumanesimo (si pensi al trasformismo del Pontano), non
intaccano la figura del Galateo, che più di ogni altro mostra
di avere viva coscienza della crisi che attraversa lEuropa
cristiana, con le naturali ricadute periferiche. Da questa coscienza
nascono due sue opere, lHeremita e lEsposizione del
Pater Noster, questa seconda studiata dal Pallara, senza ignorare
la prima. Troppo compromesse sono le gerarchie ecclesiastiche con
le ragioni di Stato, che poi si immedesimano con quelle dei ceti
dominanti, ed è il nucleo ispiratore dellHeremita;
troppo superficialmente avvertito dai credenti, il messaggio dellorazione
domenicale, bisogna dunque rinverdirlo, con una minuziosa e documentata
esposizione.
Qualche suggestione dantesca è evidente ne lHeremita,
personaggio immaginario ma assai verosimile, alla cui morte se ne
contendono lanima, da gran peccatore pentito, sia il diavolo
che langelo, come appunto narra Dante nel Purgatorio (c. V,
103-108), per bocca di Bonconte da Montefeltro; come a me pare risenta
del caustico Luciano di Samosata, ambientando i dialoghi tra leremita
e altri personaggi nellaldilà. Il motivo ispiratore
è la necessità di una riforma religiosa, in tempi
di sussulti scissionistici, di qua e di là dalle Alpi, che
è a sua volta ritenuta dal Galateo preliminare per una più
vasta riforma etico-intellettuale. È certo un testo carico
di troppe allusioni al clima corrotto del tempo, e leremita,
ormai sulla via della redenzione, non risparmia i suoi fendenti;
se ne sente, come il suo ideatore, autorizzato, perché il
Galateo, se non ha lintransigenza di un Savonarola, profondamente
religioso qual è, serba, nelle sue invettive, il rigore dei
grandi utopisti dellepoca rinascimentale, da Erasmo a Tommaso
Moro. Il valido studioso locale Antonio Elia, scrive in proposito,
con altri: «Sono molti i riflessi autobiografici e nella figura
dellEremita che si ritira nella spelonca è certamente
adombrata quella del Galateo, che in un periodo di particolari difficoltà
e incomprensioni, si rifugia nella sua villetta di Trepuzzi, ad
imprecare nei suoi scritti contro il dilagare del malcostume del
tempo». Su questa villetta torneremo più avanti, con
Amleto Pallara e Antonio Elia.
Il Pater Noster è il solo testo galateano redatto in un volgare
salentinizzato, perché, ancora sullesempio di Dante,
era destinato non ai dotti ma al più vasto pubblico: un commento
analitico sostenuto da dottrina classica e cristiana e da esperienza
di vita, che abbraccia le corti e i tuguri, le grandi vicende della
storia e le oscure sofferenze quotidiane. Col metodo a lui usuale,
il Galateo si avvale delle attestazioni letterarie di autori, oltre
che greci e latini, anche italiani, purché non in vernaculo,
salvo per quanti come precisa il Pallara «abbiano
un contenuto morale o politico che riscuota la sua approvazione
di uomo di sani principi e di cristiano convinto o di italiano orgoglioso
delle nostre tradizioni, o di fedele (nostalgico) suddito degli
Aragonesi» (Noterelle in margine allEsposizione del
Pater Noster di A. Galateo, in Studi di storia e cultura meridionale,
1992, pp. 73-89).
Della corona Dante, Petrarca e Boccaccio, non si rinvengono echi
linguistici del poeta di Laura, né dellautore del Decamerone,
mentre dimostra di «conoscere bene e apprezzare il solo Dante,
tanto da adottare non solo singole espressioni ma versi interi».
Sarebbe in questa sede inopportuno entrare nei dettagli della illustrazione
di Pallara, giova invece riferire del Galateo alcuni passi del suo
testo, che fanno luce sul suo pensiero filosofico, in qualche punto
non molto distante dal realismo di Machiavelli, nel contrapporre
ad esempio i concetti di virtù e fortuna: «che potimo
fare noi? Potimo tenere lo curso di lo cielo, le vicissitudini de
le cose humane di questo mundo, che non potimo tenere un capillo
del capo nostro, che non casca, excepto si volessimo lo capo con
capilli strani». Ancor più significativa la rivendicazione
della priorità della lingua materna sulla lingua latina,
non meno che sulla lingua etrusca, cioè toscana;
che è una posizione di straordinaria audacia sia rispetto
agli statuti dellAccademia pontaniana che in relazione al
bembismo incipiente:
Hogie in Italia è venuta la cosa ad tale che, chi non parla
a punto el toscano non pare che sia italiano, e più che ad
alcuni pare multo bello e de homo prattico e cortesano sapere Francese
e Castigliano. Ad me [
] el troppo ornato parlare dispiace.
Attendamo più al ben vivere che non allo bello dire, e si
potessimo, come dice Seneca, manifestare li concepti de la mente
nostra senza parlare, lo doveriamo fare. Quello parlare elegante,
exquisito et affettato è cosa de homeni chi non pensano in
altro, si non a ben parlare. Questa cosa fu odiosa ad Plato, Aristotele,
Seneca, fì alli maestri de la eloquentia Tullio e Quintiliano,
e a tutti li filosofi e theologi e a nostro Signore et alli suoi
Evangelisti e Propheti [
]. Io parlarò con quella medesima
lengua che ho imparato da la mia nutrice [
]. Sia felice quello
che è nato in patria dove si parla bene, ma più felice
saria quello chi fosse nato in patria dove se vivesse bene.
Non poche di queste convinzioni si rintracciano alla base sia della
Vituperatio litterarum sia del De suo scribendi genere, come vedremo.
Si è fatto cenno in precedenza della villetta trepuzzina,
posseduta dal Galateo a poca distanza da Lecce, dove era solito
rifugiarsi dalle fatiche professionali e
dedicarsi allo scrivere. Negli anni delle scorrerie turche e veneziane,
tra il 1480 e il 1484, era già stata bersaglio di devastazione;
ma un giorno se la vide investita da un incendio, e se ne duole
assai con lamico Crisostomo Colonna, nellEp. XVI, De
villae incendio. È anche questa oggetto di studio di Pallara,
che fra laltro così ne scrive: «È una
lettera quanto mai vivace, e, nonostante le apparenze, dallinizio
alla fine vibrante di affetto, di orgoglio, di commozione, di dispetto,
di tristezza e di nostalgia, nella quale questi sentimenti sono
espressi in una lingua che, intessuta di locuzioni di scrittori
che abbracciano un vasto arco della letteratura latina divenuta
duttile e malleabile, appare fresca, nativa e genuina nelle mani
di un umanista che lha fatta propria e, perciò, se
ne serve con straordinaria perizia e, spesso, notevole eleganza»
(in Contributi, Anno V, n. 1, marzo 1986, pp. 47-64). Da quanto
ha potuto ricostruire in loco il citato Antonio Elia, era una tenuta
di non piccole proporzioni, che il Galateo, da buon pater familias,
intendeva destinare ai suoi cinque figli e ai nipoti; il vocabolo
villula è dunque più un vezzeggiativo che un diminutivo,
se loliveto comprendeva ben settecento alberi. Leggiamone
il passo più vibrante di commosso lirismo:
Accedit quod, male flantibus etesiis, triputeanam villulam meam,
hoc est plusquam dimidium bonorum meorum, ignis obsumpsit, nec Superi
vellent hoc licuisse sibi. Quas plantavi arbores, quarum toties
inutilis ramos curva falce amputavi, pro quibus toties incalluit
haec insueta laboribus manus, hisce oculis vidi crepitantibus flammis
exuri [
]. Miserabile spectaculum! Vidi flammarum globos ex
hac in illam arborem volitantes; vidi Dryadas, animulas arbuscularum
mearum, per nigrum fumum et atram caliginem, per vacuum aera gementes
fugientesque et execrantes incendiarii illius impias manus. Pereas
tu, quis quis es, immo et scelerate rustice, qui leves stipulas
et inanes culmos arida primum parvo igni alimenta congessisti! Obstruatur
fune pestilens ille spirilus, qui lentum et nascentem ignem excitavit!
(Come se ciò ancora non bastasse, a causa dei venti canicolari,
male spiranti per me, il fuoco (e gli dei non avessero voluto attribuirsi
il diritto di farlo!) ha distrutto la mia villetta di Trepuzzi,
cioè più della metà dei miei beni. Quegli alberelli
che avevo piantato, che tante volte avevo potato col rocchetto ricurvo,
per i quali tante volte si era incallita la mia mano non avvezza
a simili lavori, con questi occhi li ho visti ardere, avvolti dalle
fiamme crepitanti [
]. Spettacolo veramente pietoso! Ho visto
le lingue di fuoco passare rapide da questo a quellalbero,
ho visto le Driadi, le piccole anime dei miei alberelli, fuggire
attraverso il fumo nero e la fosca caligine, per il libero cielo,
gemendo e maledicendo le mani scellerate di quellincendiario.
Possa morire tu, chiunque sia, incauto, anzi infame bifolco, che
ammucchiasti i culmi vuoti e la paglia leggera, in cui, secchi comerano,
trovò facile esca quello che in principio era un piccolo
fuoco. Sia soffocato con un capestro quel soffio pestilenziale dal
quale presero vigore le fiamme che lentamente si sprigionavano).
Qualche notizia merita di essere data sui risultati dellacuto
esame compiuto da Pallara su un altro testo controverso del Galateo,
lEpistola XXV A Crisostomo, circa la presunta fondazione di
una accademiola a Lecce, sul modello della Pontaniana.
Sono stati in non pochi a ritenerla, appunto, di natura rigorosamente
culturale, da Benedetto Croce a Nicola Vacca ad Aldo Vallone (per
citarne i più autorevoli). Ma il nostro studioso, con le
appuntite armi della filologia e della esegesi, smonta tale convinzione
o ipotesi che fosse. Così conclude: «A differenza della
Pontaniana, laccademiola del Galateo era costituita solo da
otto brave persone, senza particolari comuni interessi culturali
che si riunivano saltuariamente nella casa dellIngenuo (uno
degli otto), per consumare una frugale cena e per poter parlare
liberamente, al riparo delle orecchie indiscrete dei prepotenti
o dei delatori o dei detrattori». Per Pallara la data della
lettera è il 1499, in prossimità dellinizio
della guerra turco-veneta, e gli amici lamentavano, tra loro, la
fragilità dello Stato napoletano a preservarsene immune.
Ma non per questo, riprende Pallara, si può ritenerla «una
specie di loggia o vendita o comechesivoglia chiamarla, di una setta
a promuovere i vantaggi di Casa dAragona, contro tutti che
fossero palesi o nascosti nemici», che è stata lopinione
del De Simone; contro cui ribatte il Nostro: «che, anzi, agli
occhi dei filo-aragonesi doveva essere tuttaltro» (in
Sallentum, nn. 1-2-3, gennaio-dicembre 1986, pp. 33-52).
La questione ebraica, comè noto, è antica e
dibattuta quanto, forse, lo è la storia che i profeti hanno
affidato alle Sacre Scritture; è anche singolare per la molteplicità
dei suoi aspetti, dalletnico al religioso, dal culturale al
politico; negli anni del Galateo, poi, vieppiù sentita, nella
paventata imminenza delle guerre di religione. Di qui laccostamento
e lassorbimento di quella cultura da parte di un Pico della
Mirandola; di qui, anche, linteresse del De Ferrariis per
il popolo ebraico, nellEp. XXXV De Neophytis. Agisce in Pico
come nel Galateo il concetto della universale humanitas, che non
discrimina tra gli individui come tra i popoli. Lepistola
è tutta una esaltazione motivata degli ebrei, della loro
storia, della loro cultura, con accenti che sfiorano il profetismo:
Si christiani sumus, si semen Abrahae nos esse quotidie palam in
templis profitemur, si Christum, magistrum et dominum colimus, quare
iudaicam originem, inter omnes barbaros in omni virtute praestantissimam
et iustissimam, abominamur? (Se siamo cristiani, se ogni giorno
apertamente professiamo nelle chiese di essere seme di Abramo, se
veneriamo Cristo quale maestro e signore, perché abominiamo
il popolo ebraico, quello che tra tutti gli altri popoli eccelle
per ogni virtù, il più giusto di tutti?).
E io ritengo che la scelta di questa epistola è ben mirata,
nelle intenzioni di Amleto Pallara, di qua dalle solite cruces che
tutte le lettere galateane serbano in sé, per le traversie
della loro tradizione manoscritta (nelle citt. Lettere, pp. 171-181).
Le tre epistole, IV Apologeticon, XXXIII Vituperatio litterarum,
XXXIV De suo scribendi genere, differiscono dalle altre, perché
di argomento assiologicamente letterario. Il principio di fondo,
cui si richiamano direttamente o indirettamente, è la reciproca
convertibilità delle cose con le parole (res et verba convertuntur),
che, diciamo noi subito, rappresenterà il concetto basilare
della letteratura illuministica. La prima è unautodifesa
contro chi gli rimprovera una certa sciatteria formale,
una presunta improvvisazione stilistica, una qualche rozzezza grammaticale:
autodifesa che poggia preminentemente su motivazioni di natura morale.
Insomma, è più importante per la vita degli individui
e dunque della collettività, lattenzione esclusiva
agli amminicoli retorici, alle regole del dire, o piuttosto lesemplarità
di unesistenza, la pratica dei buoni costumi?
Scriva con eleganza e raffinatezza, come facevano gli Attici, chi
vuole; io parlo come mi pare: mi impongo di evitare i solecismi
solamente nella vita e nella medicina che esercito, nella quale
sono in gioco non il significato delle parole, ma la vita umana.
Pensiamo a quello che dobbiamo fare, non al modo come dobbiamo parlare
(Quid agendum nobis sit cogitemus, non quid dicendum). Io, sia quando
parlo sia quando scrivo, seguo questo criterio: mi esprimo con semplicità
[
]; importante è per me manifestare quello che è,
non certo scegliere con cura i vocaboli, o badare alle parole: libere
vivo, liberius loquor.
È la priorità della cose che importa salvaguardare;
con gli assiomi dellarcigno Catone ricordiamo noi :
rem tene, verba sequentur, donde discende il vir bonus dicendi peritus.
Io penso che linteresse di Amleto Pallara anche per lApologeticon
(op. cit., pp. 153-170), che egli arricchisce di un sorprendente
apparato di chiose, rispecchia lestrema serietà delluomo
Pallara nello studioso, tanto più evidente quanto maggiore
è lumiltà investigativa di lui nellaccostarsi
ai testi e controllata lestrema prudenza nellargomentare
e nel congetturare. Ma occorre da parte mia unulteriore noticina
storico-culturale: e non è, questa autodifesa dello scienziato
De Ferrariis, uneco della più nota invettiva di Leonardo,
omo sanza lettere, contro la fungaia dei trombetti?
E siamo giunti al testo più tormentato dallautore
e più controverso tra i suoi interpreti, nella prospettiva
non facile di una condivisa o condivisibile edizione critica: la
Vituperatio litterarum, indirizzata a Belisario Acquaviva, allievo
del Pontano e uomo darme, che, a fianco dellaragonese
re Ferrandino, contrastò valorosamente lavanzata di
Carlo VIII. Per questa fedeltà al sovrano, rimarchevole in
quei tempi di diffuso trasformismo opportunistico, ottenne il feudo
di Nardò col titolo di conte. Un testo controbverso, dicevamo,
in più punti della tradizione manoscritta e perciò,
per molti aspetti, una crux speciale, sui cui Amleto Pallara, senza
nascondersi le difficoltà talora impervie, riesce a gettare
forse decisivi fasci di luce. Nel cit. vol. Lettere (p. 9-73), al
capitolo introduttivo segue il testo dellepistola, emendato
degli errori e delle omissioni, con in più un imponente apparato
delle fonti greco-latine, cui direttamente o indirettamente vi si
richiama il Galateo. La Vituperatio inoltre costituisce essa stessa,
per il suo contenuto, non scevro di punte in apparenza paradossali,
e nel merito, essendo altro il compito di Pallara, egli si appella
alle conclusioni incontestabili di Donato Moro e della Andreoli
Nemola. Ossia, bersaglio della Vituperatio non è la letteratura
in sé, come, a lungo, si è immaginato, bensì
il malo uso che ne fanno i grammaticuli, coloro che
(ed è il leit motiv dellApologeticon) dissociano le
res dai verba, i mestieranti insomma che non si curano del ben vivere
quanto del bello dire. Quella del Galateo è dunque la riproposizione
di un ideale di letteratura non disgiunta dalla sapienza,
cui perciò compete una ineludibile missione dincivilimento
dellumanità. Non disponendo io degli strumenti adatti
per penetrare nel dedalo della controversia, mi limito a qualche
diretto rinvio sia al testo latino, come emendato e restituito alla
sua più probabile autenticità da Pallara, sia al corrispondente
passo della traduzione.

Veritas et monita praeceptaque sapientum probis hominibus grata
et iucunda sunt, pravis vero molesta et odiosa; litterae, ut et
virtutes, ut dixi, sic et vitia fovere et augere solent. Hae igitur,
ut aiunt, non meliorem hominem reddunt, sed politiorem et forte
in alterutram partem (La verità, gli ammonimenti e i precetti
dei sapienti sono bene accetti e graditi agli uomini probi, odiosi
e fastidiosi agli uomini pravi; le lettere, lo ripeto, sogliono
alimentare e accrescere così le virtù, come i vizi.
Esse pertanto, come è stato detto, non rendono luomo
migliore ma più rifinito e raffinato, secondo i casi, nel
bene e nel male).
Via via che sinoltrava nella conoscenza del Galateo e ne scopriva,
specialmente in alcune, il sotteso spessore etico, Amleto Pallara
avvertiva lopportunità di allargare la cerchia dei
lettori, almeno delle epistole, oggetto dei suoi studi; lidea
di tradurle nella nostra lingua è nata in lui anche dalla
percezione di tale opportunità.
Tornando alla terza epistola di argomento letterario, contenuta
in Appendice al cit. volume Lettere (pp. 143-152) col titolo De
suo scribendi genere, osservo che nellultima revisione di
Pallara, di cui si è detto nella nota, il titolo è
significativamente mutato in De suo scribendi genere
vel excusatio vituperationis: mutamento che avrebbe
richiesto unadeguata spiegazione, che però la morte
gli ha impedito. Risale allanno stesso della Vituperatio,
1513, di poco posteriore; al solito, anchessa, munita di un
massiccio corredo di glosse, su cui, in questa sede, non si può
che sorvolare. Il passo che va invece riferito, a parziale spiegazione
del nuovo titolo, è il seguente:
Curae sunt mihi non verba sed sententiae, eruditio non elocutio.
Nec ignoro nonnullos doctorum hominum offensum iri, cum litteras
abominor, execror, profano. At siquis mentem non verba inspexerit,
cognoscet me nunc maxime litteras laudare cum vitupero (A me sta
a cuore non lespressione ma il pensiero, la dottrina non il
modo di esporla. So bene che non pochi uomini dotti si sdegneranno,
sentendomi detestare, esecrare, vituperare le lettere. Ma se qualcuno
di essi terrà conto delle mie intenzioni e non delle mie
parole, comprenderà che io mostro grande apprezzamento per
le lettere proprio quando ne parlo male).
Ormai sappiamo che il De Ferrariis, come comportava il costume umanistico,
a sostegno delle sue opinioni si appellava alle massime autorità
del mondo classico. Eccolo qui:
Dicono che Platone facesse sfoggio di retorica specialmente allorché
attaccava i retori, dimostrasse la sua grande ammirazione per Omero
e per gli altri poeti specialmente quando sosteneva che i poeti
dovessero essere banditi dalla sua repubblica (Aiunt Platonem tunc
maxime usum retorica, cum contra rhetores invehebatur; tunc Homerum
ceterosque pöetas admiratum, cum illos a sua re pubblica eiiciebat).
Una excusatio dunque a tamponare londata verbosa dei malevoli,
dei quali il De Ferrariis si sentiva occulto o pubblico bersaglio
da tempo; come del resto accade in tempi di sconvolgimenti storici.
Sicché io suppongo che a ragion veduta il Pallara abbia voluto
studiare e ampiamente postillare le due epistole (XXIII e XXIV)
De Turcarum apparatu (op. cit. pp. 183-198); in un passo della prima
si lamenta la strumentalità opportunistica di scambiare la
prudenza per viltà e un forte amor di patria per il suo contrario:
Se qualcuno di noi mostra di temere la tempesta che ci sovrasta,
viene ritenuto vile e pazzo e nemico nello stesso tempo del re e
della patria. Ecco in quale stato siamo ridotti: a coloro, ai quali
non è consentito di parlare, non è permesso neanche
di temere, cosa che non è negata neppure agli schiavi.
E la tempesta è duplice, ottomana e veneziana; «Quel
non aver timore, credimi [il destinatario della lettera è
il conte di Potenza], non si può avere che a caro prezzo,
cioè al prezzo di una reputazione di inettitudine o di stupidità
o di incoscienza o (cosa che taluni ritengono più scusabile)
di finzione». Con la rivendicazione di un sensus sui di tempra
socratica:
Non timebo ego mortem. Hoc viro dignum est; nam si non aliud bonum,
finis tamen malorum est. At non timere servitutem, ignominiam suam
ac suorum, stupra, verbera, compedes barbarorum, durum atque inhumanum
imperium, divinarum atque humanarum rerum eversionem, hoc viro minime
dignum est (Io non ho paura della morte, e questo è sentire
da vero uomo: la morte, infatti, se non è essa stessa un
bene, è tuttavia la fine di ogni male. Ma non temere la schiavitù,
il disonore proprio e dei propri cari, gli stupri, le frustate,
i ceppi, loppressione spietata e disumana dei barbari, non
è affatto degno di un vero uomo).
Il ricordo del sacco di Otranto del 1480 è ancora vivo. Negli
anni in cui precipitava la crisi italiana e il Machiavelli per arrestarne
il processo elaborava la sua dottrina dello Stato, anche il De Ferrariis
rifletteva su di essa, non da storico né da politico stricto
sensu né da semplice suddito aragonese, e confidava le sue
considerazioni al tranese Eleazaro, medico di Federico DAragona,
in un epistola (la XXXIX, op. cit., pp. 117-137), il cui studio
costituisce lultima fatica di Amleto Pallara; studio ripartito
in tre densissimi paragrafi: I manoscritti e le edizioni,
La presente edizione, Il destinatario e la datazione.
Per esprimere il suo pensiero sulla crisi italiana, col tipico accorgimento
umanistico, il protomedico e letterato De Ferrariis ricorre alla
massima auctoritas della sapienza e della esperienza, la Bibbia.
La lettera si apre infatti con la figura di un sovrano, il re David,
che abusa del suo immenso potere per possedere la bellissima Betsabea,
«moglie di Uria lhitteo, guerriero forte e valoroso».
La stessa sorte subisce lItalia, altrettanto bella e preda
della cupidigia straniera, propriamente di Ferdinando il Cattolico,
spagnolo, e Luigi XII, francese, con la complicità di Rodrigo
Borgia, futuro papa Alessandro VI. Ma a prestarsi a tale cupidigia
(e a questo punto lanalogia con Betsabea cessa), è
linfelice Italia stessa, leggera, volubile, causa della propria
rovina, amica degli stranieri, la quale un tempo fu nutrice, anzi
madre affettuosa di tutte le genti e ora languisce come una prostituta,
con le vesti lacere, con le membra dilaniate (Infelix Italia, levis,
inconstans, in sui perniciem igeniosa, exterorum amica et quae,
quomdam alumna immo mater pia omnium gentium fuerat, nunc prostituta
iacet, discissis vestibus, laniatis membris).
Noi abbiamo qui ridotto allosso larticolata allegoria
che muove dalla Bibbia per arrivare ai giorni del nostro umanista
di Galatone; il quale, col tema della bellezza dItalia,
si colloca al centro di una tradizione topica, che va dal Petrarca
(«Italia mia, benché il parlar sia indarno / a le piaghe
mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio
»)
a Vincenzo Filicaia («Italia, Italia, o tu cui feo la sorte
/ dono infelice di bellezza, ondhai / funesta dote dinfiniti
guai / che in fronte scritti per gran doglia parte»), e che,
comè noto, prosegue con Leopardi. Per queste risonanze
dellepistola ad Eleazaro, non mi sentirei di escludere una
qualche sintonia del Pallara, a motivazione del suo interesse filologico
ed esegetico per essa. Perché, chi ha conosciuto Amleto Pallara,
sa che nellacuto studioso, nel fine letterato, nellirreprensibile
docente, si è sempre accompagnata, persuasivamente, la limpida
personalità delluomo.
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