La canzone
popolare è molte volte, quasi
per una sua
legge interna,
una musica che viene da lontano e,
nello stesso tempo, una canzone
riciclata.
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«Bella ciao una canzone della Resistenza? Se
sapessero che in origine faceva: E la mia nonna / la vecchiarella
/ la me manda / alla fontanella... . Altro che canto dei partigiani!
Sono stati i comunisti italiani invitati al Festival della gioventù
di Berlino nel 1948 a cambiare le parole a quella canzoncina per
bambini e ad intonarla per la prima volta in pubblico».
Bepi De Marzi non è certamente un revisionista,
e ne parla senza acrimonia ideologica. Fra laltro, è
capitato anche a lui di vedere la sua composizione più nota,
Signore delle cime, stampato e datato come una creazione
originale nientemeno che della Grande Guerra. «Invece la guerra
non dà canti, non ha mai dato canti. Quelli sono stati scritti
in seguito, come avevano già capito la Bibbia e Salvatore
Quasimodo: E come potevamo noi cantare / con il piede straniero
sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze...».
Pochissime cose, come le canzoni, sembrano dimostrare leterogenesi
dei fini nella storia. E De Marzi che dopo una vita da professionista
tra i Solisti Veneti e oltre 150 composizioni corali di musica popolare
continua a definirsi «un organista di campagna»
ne ha dato saggio in una recente straordinaria lezione alla Cattolica
milanese: «Dirò di più: Bella ciao
è scritta in minore, il che è un marchio di fabbrica
inesorabile per dire che viene da sotto la Toscana. Dunque, non
solo la musica dellinno della Resistenza era in origine una
filastrocca per bambini, ma non era neppure un canto dellItalia
settentrionale».
Daltra parte, bisogna accettare serenamente queste rivelazioni.
Venti giorni sullOrtigara, ad esempio, era il
canto dei minatori che scavavano la galleria del Fréjus nel
tardo Ottocento, e il celeberrimo Ta-pum altro non era
che lannuncio dello scoppio di una mina. E ancora: il famosissimo
Testamento del capitano era piuttosto un Testamento
del maresciallo, nonché scrisse Piero Jahier,
che lo raccolse per primo «adattabile persino ad un
marinaio». E possiamo finire con la Divisione Monte Rosa della
Repubblica Sociale: qualcuno le ha scritto un inno apposito (All8
di settembre / lItalia si sfasciò...), ma si
trattava di una cosa terrificante; così, quando ancora adesso
i reduci si ritrovano, preferiscono cantare Sul ponte di Perati
(che a sua volta è derivato da Sul ponte di Bassano),
e si commuovono, anche se Perati è in Albania, e loro sicuramente
non ci sono mai stati.

Daltronde, le ragioni del popolo sono sempre più vicine
a quelle del cuore, piuttosto che a quelle della ragione. E se ancora
non cera Bella ciao, che cosa cantavano allora
i partigiani? «Le canzoni fasciste, con le parole cambiate
o storpiate». Insomma, sui canti popolari non bisogna affondare
troppo il bisturi, perché il filologo è la disperazione
della storia e alla fine per la gente limportante è
arrivare a un racconto cantato. «Fosse anche un rap, fossero
anche i Beatles in un rifugio dalta quota [...]: Non
si canta questa roba in montagna , quante volte lho
sentito dire. E perché? Anche dai testi di Bedeschi (quello,
per intenderci, di Centomila gavette di ghiaccio) o dello splendido
Rigoni Stern potrebbe venire un ottimo rap; anche dal Rosario in
latino [...]. Non è una cosa dissacrante. Del resto, una
volta la gente cantava i canti di montagna allo stesso modo di quelli
di devozione, con i respiri sospesi in mezzo alle navate, con lo
stesso abbandono».
E oggi? Oggi «cè un sentire orgasmatico, ansiogeno,
senza più respiri; abbiamo perso le virgole messe al posto
giusto; basta sentire le pause sbagliate dei telegiornalisti. Una
volta Rigoni Stern mi diede un testo sullOrtigara, voleva
che lo musicassi; una trentina di versi zeppi di scoppi e di cannoni:
incantabile. Allora mi rifece il testo, con limmagine di una
pernice che si posava, e allora è nato Volano le bianche.
La musica popolare ha sempre bisogno di una cantabilità.
Beethoven stesso lha sempre inseguita, senza mai trovarla,
perché era incalzato dalla sua creatività».
Daltra parte, come si potrebbe cantare il dolore degli alpini
morti, sullOrtigara o a Nikolajewka, se non trasfigurandolo?
E poi, non è che cantino molto, gli alpini: «Ecco un
altro mito: il canto di montagna non esiste; la montagna viene intonata
dalla pianura e dalla città (a Milano, ad esempio, ci sono
stati fino a 27 cori alpini). Nei masi e nelle baite,
infatti, non si canta ma si suona, in modo particolare i fiati:
quella è la vera melodia della montagna. Invece è
successo che Vittorio Gui, il miglior direttore dorchestra
tra le due guerre, nonché ufficiale del Genio, avesse armonizzato
le melodie popolari, e i fratelli Pedrotti di Trento a partire dal
1926 abbiano diffuso quel repertorio, perché lescursionismo
degli anni Trenta e i 78 giri della Odeon inventassero
un genere, divulgandolo in tutta Italia».
Ultime chicche: «Non si dica dunque che quello è il
canto della montagna; in montagna non si sente mai cantare così
[...]. E infatti cè voluto un emiliano (ed ex repubblichino)
come lamico Carlo Geminiani per scrivere canzoni di guerra
e di montagna così ortodosse e popolari da diventare
dei classici: vedi Joska la Rossa. Il canto di montagna
è un desiderio (non sempre appagato) dei nostri cori. Persino
Signore delle cime, del resto, in origine era la canzone
di un innamorato veneto (io stesso) deluso dalla fidanzata che non
laveva aspettato al ritorno dal militare. Faceva così:
Ghaveva una ragassa... . Ed è diventato
il più sacro, il più puro inno della montagna».
La canzone popolare è molte volte, quasi per una sua legge
interna, una musica che viene da lontano e, nello stesso tempo,
una canzone riciclata; e il luogo di concentrazione, di rielaborazione
di questi motivi multiuso è la vita militare: parola dello
storico Mario Isnenghi, che dedica proprio a Il canto
un capitolo del recente Le guerre degli Italiani. Parole, immagini,
ricordi 1848-1945. E via con una serie di esempi, da Addio,
mia bella addio (anno di nascita 1848, altro che Grande Guerra...)
alla Leggenda del Piave che fu scritta soltanto
alla fine del primo conflitto mondiale, nellagosto 1918, e
venne lanciata come inno della Grande Guerra solo con le celebrazioni
per il Milite Ignoto nel 1921 , fino a Giovinezza,
passata da canto goliardico di commiato dalla vita universitaria
(anno 1909) ad inno trionfale e ufficiale del Fascismo. Alla sua
storia e alle sue varie versioni è dedicato più specificamente
un corposo volume di Giacomo De Marzi, I canti del Fascismo: e anche
qui il riciclaggio e in alcuni casi la parodia imperano.
Curiosa invece la storia della celebre Faccetta nera:
pur cantata a squarciagola dalle Camicie nere che nel 1935 andavano
a conquistare un impero in Etiopia, in seguito venne censurata dal
regime per motivi razziali (e ne venne limitata la trasmissione
per radio), in quanto promuoveva uneccessiva ed equivoca mescolanza
con la bellabissina. E si arrivò a costruirne
un controcanto con la parallela Faccetta bianca...
Ma questo della canzone è terreno molto fecondo per gli storici
contemporanei (un altro è Cesare Bermani, con il suo Guerra
guerra ai palazzi e alle chiese. Saggi sul canto sociale), mentre
Stefano Pivato ha recentemente pubblicato un saggio su Canto e politica
nella storia dItalia, intitolato appunto Bella ciao. Vi si
comincia dall Inno a Garibaldi del 1859 (Si
scopron le tombe, si levano i morti...) e dalla coetanea La
bella Gigogin, e si giunge allinno di Forza Italia.
Passando, non a caso, di nuovo da Bella ciao: questa
volta, però, diventata inno dei no-global. E forse il ciclo
dei riusi è ancora ben lontano dal chiudersi.
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